Contenu connexe Plus de Luca Mengoni (20) Mani pulite primo capitolo - Travaglio,Gomez,Barbacetto1. MANI
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PULITE
LA VERA STORIA, 20 ANNI DOPO
Barbacetto Gomez
•
Travaglio
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Grazie per aver scaricato il primo capitolo del libro
disponibile in esclusiva per gli iscritti alla newsletter
di Chiarelettere.
Nel sito www.chiarelettere.it potrai trovare tutti
i dettagli su questo volume.
Qualora tu decida di leggere il libro acquistandolo online o in libreria
ti segnalo che attraverso il sito potrai scrivere una recensione o inviare
domande all’autore per approfondire gli argomenti da lui trattati.
Buona lettura,
Lorenzo Fazio
Direttore editoriale Chiarelettere
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© 2012 Chiarelettere editore srl
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prinCipio attivo
Inchieste e reportage
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Michele Ainis, Tina Anselmi, Claudio Antonelli, Franco Arminio, Avventura Urbana Torino,
Andrea Bajani, Bandanas, Gianni Barbacetto, Stefano Bartezzaghi, Oliviero Beha,
Marco Belpoliti, Daniele Biacchessi, David Bidussa, Paolo Biondani, Nicola Biondo,
Tito Boeri, Caterina Bonvicini, Beatrice Borromeo, Alessandra Bortolami,
Giovanna Boursier, Dario Bressanini, Carla Buzza, Andrea Camilleri, Olindo Canali,
Davide Carlucci, Luigi Carrozzo, Gianroberto Casaleggio, Andrea Casalegno,
Antonio Castaldo, Carla Castellacci, Mario José Cereghino, Massimo Cirri,
Marco Cobianchi, Fernando Coratelli, Carlo Cornaglia, Roberto Corradi, Pino Corrias,
Andrea Cortellessa, Riccardo Cremona, Gabriele D’Autilia, Vincenzo de Cecco,
Luigi de Magistris, Andrea Di Caro, Franz Di Cioccio, Gianni Dragoni, Giovanni Fasanella,
Davide Ferrario, Massimo Fini, Fondazione Fabrizio De André, Fondazione Giorgio Gaber,
Goffredo Fofi, Giorgio Fornoni, Nadia Francalacci, Massimo Fubini, Milena Gabanelli,
Vania Lucia Gaito, Giacomo Galeazzi, don Andrea Gallo, Bruno Gambarotta,
Andrea Garibaldi, Pietro Garibaldi, Claudio Gatti, Mario Gerevini, Gianluigi Gherzi,
Salvatore Giannella, Francesco Giavazzi, Stefano Giovanardi, Franco Giustolisi,
Didi Gnocchi, Peter Gomez, Beppe Grillo, Luigi Grimaldi, Dalbert Hallenstein,
Guido Harari, Riccardo Iacona, Ferdinando Imposimato, Karenfilm, Giorgio Lauro,
Alessandro Leogrande, Marco Lillo, Felice Lima, Stefania Limiti, Giuseppe Lo Bianco,
Saverio Lodato, Carmelo Lopapa, Vittorio Malagutti, Ignazio Marino, Antonella Mascali,
Antonio Massari, Giorgio Meletti, Luca Mercalli, Lucia Millazzotto, Davide Milosa,
Alain Minc, Angelo Miotto, Letizia Moizzi, Giorgio Morbello, Loretta Napoleoni,
Natangelo, Alberto Nerazzini, Gianluigi Nuzzi, Raffaele Oriani, Sandro Orlando,
Max Otte, Massimo Ottolenghi, Antonio Padellaro, Pietro Palladino, Gianfranco Pannone,
Walter Passerini, David Pearson (graphic design), Maria Perosino, Simone Perotti,
Roberto Petrini, Renato Pezzini, Telmo Pievani, Ferruccio Pinotti, Paola Porciello,
Mario Portanova, Marco Preve, Rosario Priore, Emanuela Provera, Sandro Provvisionato,
Sigfrido Ranucci, Luca Rastello, Marco Revelli, Piero Ricca, Gianluigi Ricuperati,
Sandra Rizza, Vasco Rossi, Marco Rovelli, Claudio Sabelli Fioretti, Andrea Salerno,
Giuseppe Salvaggiulo, Laura Salvai, Ferruccio Sansa, Evelina Santangelo, Michele Santoro,
Roberto Saviano, Luciano Scalettari, Matteo Scanni, Roberto Scarpinato, Gene Sharp,
Filippo Solibello, Riccardo Staglianò, Franco Stefanoni, Luca Steffenoni, theHand,
Bruno Tinti, Gianandrea Tintori, Marco Travaglio, Gianfrancesco Turano, Elena Valdini,
Vauro, Concetto Vecchio, Giovanni Viafora, Anna Vinci, Carlo Zanda, Carlotta Zavattiero.
Autori e amici di
chiarelettere
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“ anipulitenasce
M
inunoStato
aunpasso
dallabancarotta.”
10 luglio 1992. Il presidente del Consiglio Giuliano Amato decide una manovra
finanziaria record (93.000 miliardi di lire) per risanare il debito pubblico.
pretesto1
f pagine 31-32
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“ ’inchiestaManipulitehaprodotto
L
circa1.300dichiarazioni
dicolpevolezza,fracondanne
epatteggiamentidefinitivi...
Circail40percentodegliindagati
sisonosalvatigrazie
allaprescrizione,acavilli
proceduralioamodifichelegislative
sumisura.Quasituttigliindagati
del1992-94edegliannisuccessivi
sonorimastiotornatirapidamente
nellavitapubblica.”
pretesto2
f pagina 823
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“l14luglio1992toccaaPaoloScaroni,
I
amministratoredelegatodellaTechint
(patteggeràunapenadi1annoe4mesi
peraverpagatotangentiincambiodiappalti
dall’Enel).Nel2002ilgovernoBerlusconi
nominaScaroniamministratoredelegato
dell’Enel.”
Dal 2005 Paolo Scaroni è amministratore delegato e direttore generale dell’Eni.
ILGIROD’AFFARIDITANGENTOPOLI
“ acorruzionevale10.000
L
miliardiall’anno,hagenerato
unindebitamentopubblico
trai150.000ei250.000miliardi
dilire,con15-25.000miliardi
direlativiinteressiannui
suldebito.”
Fonte Mario Deaglio, 1992.
pretesto3
f pagine 68, 31
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“nmec’eraundualismo
I
eloconfessavoanchealmiopadre
spirituale.Daunlatolavocazione
all’onestà,maancheildesiderio
difarecarriera.Raccoglierequattrini
perilpartitoeraunmodoperfare
saltidiqualità.”
Luigi Martinelli, democristiano, presidente della Commissione ambiente
della Regione Lombardia, 1992.
“ nch’iocomeClaudioMartelli
A
avevoliberoaccessoalfrigo
dicasaCraxi,maconuna
differenza:iolochampagne
lomettevoinfrigo,luiloprendeva...”
Silvano Larini, titolare del conto Protezione all’Ubs di Lugano, 8 febbraio 1993.
pretesto4
f pagine 65, 88
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“ isognadireciòchetutti
B
sanno:buonaparte
delfinanziamentopubblico
èirregolareoillegaleenessun
partitoèingradodiscagliare
laprimapietra.”
Bettino Craxi, discorso alla Camera dei deputati, 3 luglio 1992.
“ vvertiamoildoverediesprimere
A
conchiarezzadifronteaicittadini
l’opinionematuratasullabasedella
nostraesperienzaprofessionale…
L’indipendenzadelpmrispetto
all’esecutivoel’unicitàdella
magistraturanellastoriadell’Italia
repubblicanaharappresentato
unagaranziaperl’affermazione
dellalegalità.”
Documento firmato da vari magistrati, tra i quali Francesco Saverio Borrelli
e i membri del pool Mani pulite.
pretesto5
f pagine 77, 83
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Soci: Gruppo editoriale Mauri Spagnol Spa
Lorenzo Fazio (direttore editoriale)
Sandro Parenzo
Guido Roberto Vitale (con Paolonia Immobiliare Spa)
Sede: Via Melzi d’Eril, 44 - Milano
ISBN ---53-
Prima edizione: febbraio 22
www.chiarelettere.it
BLOG / INTERVISTE / LIBRI IN USCITA
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Peter Gomez
Marco Travaglio
Mani pulite
Prefazione di Piercamillo Davigo
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Gianni Barbacetto, giornalista, scrive su «il Fatto Quotidiano». È direttore di Omi-
cron (l’Osservatorio milanese sulla criminalità organizzata al Nord). Ha cominciato
a lavorare per la radio (Radio Milano Libera, Radio Città, Radio Rai). Negli anni
Ottanta ha contribuito a fondare il mensile «Società civile», che ha diretto per una
decina d’anni. Si è molto divertito, anni fa, a condurre un programma televisivo di
economia e finanza su una tv privata (Rete A). Ha realizzato, con il regista Mosco
Boucault, il documentario per la rete franco-tedesca Arte sul Lodo Mondadori, mai
trasmesso in Italia. Ha lavorato per la tv (Annozero, Blunotte), il cinema (A casa nostra
di Francesca Comencini), il teatro (A cento passi dal Duomo di Giulio Cavalli). I suoi
libri: Milano degli scandali (con Elio Veltri, Laterza 1991); Campioni d’Italia (Tropea
2002); B. Tutte le carte del Presidente (Tropea 2004); Compagni che sbagliano (il Sag-
giatore 2007); Il guastafeste (intervista ad Antonio Di Pietro, Ponte alle Grazie 2009);
Se telefonando (Melampo 2009); Il grande vecchio (Rizzoli-Bur 2009); Le mani sulla
città (con Davide Milosa, Chiarelettere 2011). Con Peter Gomez e Marco Travaglio
ha pubblicato Mani sporche (Chiarelettere 2007).
Peter Gomez, giornalista de «il Fatto Quotidiano» e direttore de «il Fatto Quotidiano»
online, ha lavorato con Indro Montanelli prima a «il Giornale» e poi a «La Voce».
Negli ultimi anni ha seguito tutti i principali scandali italiani su mafia, tangenti
e corruzione. Molti i suoi libri: O mia bedda Madonnina (con Goffredo Buccini,
Rizzoli 1993); L’intoccabile. Berlusconi e Cosa nostra (con Leo Sisti, Kaos Edizioni
1997); Piedi puliti (con Leonardo Coen, Leo Sisti, Garzanti 1999); I complici (con
Lirio Abbate, Fazi editore 2007); Il regalo di Berlusconi (con Antonella Mascali,
Chiarelettere 2009). Con Marco Travaglio ha pubblicato: La repubblica delle banane
(Editori Riuniti 2001); Lo chiamavano impunità (Editori Riuniti 2003); Bravi ragazzi
(Editori Riuniti 2003); Regime (Rizzoli-Bur 2004); L’amico degli amici (Rizzoli-Bur
2005); Inciucio (Rizzoli-Bur 2005); Le mille balle blu (Rizzoli-Bur 2006); Onorevoli
Wanted (Editori Riuniti 2006); E continuavano a chiamarlo impunità (Editori Riuniti
2007); Mani sporche (con Gianni Barbacetto, Chiarelettere 2007); Se li conosci li eviti
(Chiarelettere 2008); Bavaglio (con Marco Lillo, Chiarelettere 2008); Papi (con Marco
Lillo, Chiarelettere 2009).
Marco Travaglio ha lavorato con Indro Montanelli, prima a «il Giornale» e poi a «La
Voce». Ha collaborato con diverse testate, fra cui «Sette», «Cuore», «Il Messaggero»,
«Il Giorno», «L’Indipendente», «Il Borghese», «la Repubblica» e «l’Unità». Oggi, oltre
a collaborare con «l’Espresso», «MicroMega», «A» e con Servizio pubblico di Michele
Santoro, è vicedirettore de «il Fatto Quotidiano», che ha contribuito a fondare nel
2009. Dopo il successo di Promemoria, è in scena nei teatri italiani con Anestesia totale.
Primo spettacolo (poco spettacolare) del dopo B, insieme a Isabella Ferrari. È autore di
molti libri di successo, tra i quali: L’odore dei soldi (con Elio Veltri, Editori Riuniti
2001), Regime (con Peter Gomez, Rizzoli-Bur 2004), Per chi suona la banana (Garzanti
2008), Colti sul fatto (Garzanti 2010). Per Chiarelettere ha pubblicato: Mani sporche
(con Peter Gomez e Gianni Barbacetto, 2007), Se li conosci li eviti (con Peter Gomez,
2008), Il bavaglio (con Peter Gomez e Marco Lillo, 2008), Italia Annozero (con Vauro
e Beatrice Borromeo, 2009), Papi. Uno scandalo politico (con Peter Gomez e Marco
Lillo, 2009), Ad personam (2010), Silenzio, si ruba (dvd+libro, 2011).
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Sommario
Per non dimenticare di Piercamillo Davigo xiii
i p u l i t e
Prologo 5
1992. Mani sporche
1. Mariuoli a Milano - 2. Il «sistema» Milano 22 - 3. «Viva Di
Pietro» 32 - 4. Tangenti bianche, nere, rosse 42 - 5. Milano, Italia
4 - 6. La prima guerra al pool - 7. Autunno 1992, fuga
da Bettino 3
1993. Mani alzate
1. Il tramonto dell’impero 3 - 2. La politica si arrende
3. Le tangenti rosse 35 - 4. Il Cavaliere e l’Ingegnere 53 - 5. Eni,
Montedison, Iri: boiardi e pirati 4 - 6. Al cuore della Fiat 2
7. Tangentopoli, Italia 223 - 8. La guerra dei dossier 23
1994. Mani legate 24
1. La Giustizia nell’urna 24 - 2. Nuovo Governo, vecchi amici
24 - 3. Fiamme gialle, Fiamme sporche 2 - 4. Chi tocca i fili
muore 2 - 5. Tutti contro il pool 32 - 6. Indagine sul presidente
del Consiglio 322 - 7. Di Pietro addio 33 - 8. Berlusconi
arrivederci 35 - 9. Tutti i complotti contro Di Pietro 33
1995. Mani basse 3
1. La Giustizia di Mancuso 3 - 2. Obiettivo Fininvest 3
3. Uscire da Mani pulite 3 - 4. Brescia contro Milano 4
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5. Tutti colpevoli, nessun colpevole 443 - 6. All Iberian: Craxi,
Berlusconi C. 4
1996. Mani lunghe 4
1. Toghe sporche 42 - 2. Il convitato Di Pietro 5
3. Tangentopoli 2, la vendetta 53 - 4. La Fininvest alla sbarra 3
5. I due marescialli - 6. Caccia al magistrato
1997-2000. Mani libere 2
1. Di Pietro corrotto, anzi no 23 - 2. La Giustizia in Bicamerale
4 - 3. Tangenti ad alta velocità 5 - 4. Tolleranza mille
5. All Iberian non si processa 2 - 6. Toghe sporche: la miglior
difesa è il rinvio 4 - 7. I resti di Tangentopoli 55 - 8. C’era una
volta la Giustizia 5
Post scriptum. Gli ultimi 10 anni
Appendice
Com’è andata a finire 23
1. I processi 23 - 2. Gli imputati eccellenti 24 - 3. Il pool 3
Francesco Saverio Borrelli. Memorie di un procuratore 33
Bibliografia 53
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di Piercamillo Davigo
Mani pulite. Vent’anni dopo
Sono passati vent’anni da quando, il 17 febbraio 1992, a Milano fu arrestato
Mario Chiesa, fatto che è stato considerato l’inizio di quelle indagini che
i mezzi di informazione hanno chiamato «Mani pulite». Quella non era la
prima volta in cui un pubblico amministratore veniva sorpreso in flagranza
di corruzione, e non fu l’ultima. Per quale ragione, vent’anni dopo, quell’ac-
cadimento viene ancora ricordato, tanto da portare alla seconda edizione di
un volume che ricostruisce quella vicenda e quelle che seguirono?
Credo che la spiegazione sia da ricercare nel sorprendente (anche per
gli inquirenti) sviluppo delle indagini, innescate da quell’episodio, che in
un tempo relativamente breve (specie se rapportato ai tempi dell’ammini-
strazione giudiziaria) portò alla scoperta di un numero impressionante di
reati e al coinvolgimento di migliaia di politici, funzionari e imprenditori.
Che cosa aveva fatto la differenza fra quelle indagini rispetto ad altre
precedenti e successive?
In questi vent’anni si sono sentite in proposito, da parte di vari com-
mentatori, numerose sciocchezze, quali «lo sapevano tutti», «dov’era prima
la magistratura?», «è stato un golpe» (orchestrato, a seconda dell’ideologia
di chi sosteneva tale tesi, dai comunisti, dalla Cia, dai poteri forti ecc.) e
altre stravaganze. Anzitutto non è vero che «lo sapevano tutti». Né i miei
colleghi né io, pur avendo la percezione che i reati di concussione, corru-
zione, finanziamento illecito dei partiti politici e false comunicazioni sociali
fossero ben più numerosi di quanto risultava dalle statistiche giudiziarie,
immaginavamo le dimensioni dell’illegalità, quali emersero dalle indagini.
Neppure i cittadini immaginavano che la corruzione avesse raggiunto tali
dimensioni e soprattutto che appartenenti a partiti di opposti schieramenti
si dividessero le tangenti, e rimasero attoniti quando Bettino Craxi, alla
Camera dei deputati il 29 aprile 1993, parlò di un sistema di finanziamento
illegale alla politica che coinvolgeva tutti, senza che nessuno dei deputati
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XIV Mani pulite
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presenti in aula (fra cui certamente ve ne erano pure di onesti, ma ignari
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di ciò che era accaduto all’interno dei loro partiti) si alzasse a rivendicare
la propria estraneità e il proprio sdegno nel sentirsi accomunare al generale
ladrocinio.
Del resto nelle statistiche giudiziarie i reati di corruzione apparivano (e
appaiono tuttora) come poco numerosi, ma ciò non deve stupire. La cor-
ruzione ha infatti alcune caratteristiche della mafia, fra cui la sommersione
e il contesto omertoso, e ha una cifra nera (differenza fra delitti commessi
e delitti denunziati) altissima. La corruzione non si commette di fronte a
testimoni; è un reato a vittima diffusa, non viene subita da una persona fisica
determinata che abbia l’interesse a denunciarla; e le pratiche comprate sono
quasi sempre le più «a posto», le più curate; se a ciò si aggiunge che le leggi
vigenti rendono difficile scoprirla e reprimerla, vi sono ragioni sufficienti
per spiegare perché prima (ma anche dopo) sia emerso nelle statistiche
giudiziarie pochissimo di quel sistema di illegalità diffusa che le indagini
del 1992-95 svelarono.
Queste considerazioni rispondono anche alla domanda «dov’era prima la
magistratura?». Mi sono sempre chiesto perché mai tale domanda (almeno
per quel che ne so, ma non mi stupirei del contrario) non sia stata formulata
anche a proposito dei procedimenti di mafia. Le indagini sulla mafia, solo
dalla collaborazione di Tommaso Buscetta in poi, hanno potuto evidenziare
l’esistenza di Cosa nostra come struttura unitaria con regole radicate. Prima
i magistrati e le forze di polizia non avevano la minima idea della struttura
interna a tale organizzazione.
Peraltro è ben possibile che alcuni di coloro che pongono queste domande
retoriche sapessero sia della corruzione che della mafia, ma allora il quesito
da porre a costoro dovrebbe essere: «Se lo sapevi perché non hai informato
le Procure della Repubblica?».
Quanto alla tesi del golpe, un briciolo di buon senso sarebbe sufficiente
a ricordare che chi fa affermazioni così devastanti dovrebbe adempiere
all’onore di supportarle con fatti. Rimane il fatto che in quella vicenda
gli esiti delle indagini furono diversi da quelli di procedimenti anteriori
e successivi, pur talvolta condotti dalle stesse persone fisiche, con uguale
determinazione.
1992. Il sistema entra in crisi
Bisogna allora cercare di individuare le ragioni per le quali questo è avvenuto
e perché allora. Anzitutto perché, come ha insegnato il professor Franco
Cordero, la caccia e la preda sono due cose distinte. Si può andare a caccia
seguendo le regole venatorie e non prendere nulla, così come si può essere
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pessimi cacciatori e tuttavia avere fortuna, tornando dalla battuta con un
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ricco bottino. Tuttavia ritengo che siano individuabili alcuni specifici fattori o ca
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che possono contribuire a spiegare l’esito particolarmente favorevole che
quelle indagini ebbero nel periodo dal 1992 al 1995.
L’enorme debito pubblico e la crisi economica del 1992 avevano deter-
minato la riduzione della spesa pubblica per l’acquisto di beni e servizi e
questa, a sua volta, aveva ridotto la possibilità per i corruttori di traslare
le tangenti sulla pubblica amministrazione e di sperare in futuri lucrosi
appalti. Molti imprenditori, che fino ad allora avevano partecipato a
cartelli corruttivi, si scoprirono concussi e, anziché far fronte comune
con i corrotti, cominciarono a scaricarli, fornendo agli inquirenti l’elenco
delle tangenti pagate. All’inizio i vertici dei partiti scaricavano i soggetti
che venivano arrestati, descrivendoli come mariuoli isolati, singole mele
marce. E quelli, sentendosi abbandonati dai loro complici, descrivevano
il resto del cestino delle mele. Ciò determinò una reazione a catena nelle
chiamate in correità incrociate e quello che in questo volume viene chia-
mato «effetto domino».
Le indagini fecero emergere che la corruzione è un fenomeno seriale e
diffusivo: quando qualcuno viene trovato con le mani nel sacco, di soli-
to non è la prima volta che lo fa. Inoltre i corrotti tendono a creare un
ambiente favorevole alla corruzione, coinvolgendo nei reati altri soggetti,
in modo da acquisirne la complicità fino a che sono le persone oneste a
essere isolate.Ciò indusse ad affrontare questi reati con la consapevolezza
che non si trattava di comportamenti episodici e isolati, ma di delitti seriali
che coinvolgevano un rilevante numero di persone, fino a dar vita ad ampi
mercati illegali.
Nel 1992, con il crollo delle ideologie, era anche entrata in crisi la tra-
dizionale forma-partito come strumento di aggregazione del consenso e
soggetto destinatario dell’assoluta fedeltà degli iscritti. Ricordo che in una
trasmissione televisiva, poco dopo l’arresto del segretario cittadino del Pds,
un iscritto a quel partito, intervistato, commentò il fatto dicendo che da
trent’anni andava ai festival dell’Unità come volontario a cuocere le salamelle
sulla griglia e che ora veniva a sapere che, mentre lui girava le salamelle sulla
griglia, i suoi capi rubavano, e concludeva dicendo che dovevano andare in
galera. L’insieme di queste cause consentì la scoperta della vasta trama di
corruzione, e la reazione dell’opinione pubblica, la cui sensibilità era acuita
dalla crisi economica, ebbe effetti (all’apparenza) dirompenti sul panorama
politico: scomparvero dalla scena politica cinque partiti, quello di maggioran-
za relativa (Democrazia cristiana) e altri quattro (Partito socialista italiano,
Partito socialdemocratico italiano, Partito repubblicano italiano e Partito
liberale italiano), tre dei quali avevano più di cento anni.
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La restaurazione
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In realtà il sistema politico si è rapidamente ricomposto in forme nuove,
continuando tuttavia a calpestare sia la volontà dell’opinione pubblica (ad
esempio aggirando l’esito del referendum sull’abrogazione del finanziamento
pubblico dei partiti politici, che oggi ottengono dallo Stato più denaro di
prima del referendum, giustificato come rimborsi per spese elettorali) che le
esigenze, imposte anche da istanze internazionali (Onu, Consiglio d’Europa,
Unione europea, Fondo monetario internazionale, Ocse), di ridare legalità e
trasparenza alle istituzioni e al mercato. Da allora (e fino a non molto tempo
fa) è invece stato avviato un tentativo di restaurazione, che ha ottenuto il
duplice risultato di far crollare il numero delle condanne per corruzione e di
far precipitare l’Italia, negli indici della corruzione percepita, al penultimo
posto (nel senso degli ultimi della classe) nel mondo occidentale, dietro
molti paesi africani e asiatici.
Il numero di condanne per corruzione, ridotto a un decimo di quello di
quindici anni fa, non appare dunque frutto di una riduzione della corru-
zione, ma della difficoltà a fronteggiarla. Il clima in cui da anni operano i
magistrati (attaccati da ogni parte e perennemente «minacciati» di riforme
volte a ridurre la loro indipendenza e la loro possibilità di azione) e lo sfascio
della giustizia non impedito e talora accentuato da parte delle maggioranze
parlamentari che si sono trasversalmente avvicendate in questi vent’anni,
spiegano sia le maggiori difficoltà delle indagini che l’esito negativo dei
processi, sempre più spesso conclusi con pronunzie di prescrizione. Non
ci si deve quindi stupire se la corruzione è probabilmente aumentata e,
se mai, ci si deve domandare perché questi reati dovrebbero emergere in
procedimenti giudiziari.
La normativa sulla corruzione, per il numero e la frammentazione delle
fattispecie, consente di inquinare agevolmente le prove: basta un’occhiata
d’intesa fra due soggetti per passare, con lievi modifiche delle dichiarazioni,
dalla concussione alla corruzione, dalla corruzione propria a quella impro-
pria, con rilevanti effetti sia sulla pena che sulla prescrizione. Perciò non si
può indagare su un caso di corruzione se i protagonisti possono comunicare
fra loro. Inoltre la serialità e diffusività di questi reati integra pressoché
sempre il pericolo di reiterazione dei reati. L’esperienza insegna anche che
questo pericolo non viene meno neppure con l’allontanamento dei corrotti
da incarichi pubblici, perché li si ritrova di lì a poco a svolgere il ruolo di
intermediari fra i vecchi complici non scoperti.
In un interrogatorio reso nel 1992, una persona sottoposta a indagi-
ni, riferendo di appalti relativi a un importante ente pubblico a livello
nazionale, dichiarò che esisteva un cartello di circa duecento imprese
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che si spartivano tali appalti, che si pagava praticamente chiunque, sia
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con riferimento alla struttura dell’ente sia ai segretari amministrativi dei
partiti di maggioranza e dei principali partiti di opposizione, e che ciò «è
standardizzato da almeno vent’anni».1 Essendo questo il quadro, secondo
le regole del codice di procedura penale, nessuno dei soggetti che delin-
quono da anni, inseriti in un contesto criminale e criminogeno, dovrebbe
essere in stato di libertà.
Ma le campagne mediatiche contro le presunte «manette facili» (chissà
perché riferite solo ai crimini dei colletti bianchi e non, ad esempio, agli
scippatori) hanno sortito effetto: oggi i magistrati arrestano molto meno
per questi reati e comunque si ricorre agli arresti domiciliari, anziché alla
custodia in carcere, con il risultato che molte indagini vengono irrimedia-
bilmente inquinate.
Gli indagati, anche quando fingono di collaborare, confessano solo quel
che non possono negare o che immaginano sarà comunque provato e lo
raccontano a modo loro, spesso dopo aver concordato versioni di comodo
con i complici e ritagliando spazi di omertà da far valere per assicurarsi
un futuro politico ed economico basato sulla capacità di ricatto acquisita
con il silenzio mantenuto. Nel sistema ci sono meno smagliature in cui gli
inquirenti possono infilarsi per scoprire la verità. La legge elettorale vigente
fa dipendere l’elezione dalla collocazione in lista, sicché i vincoli verso coloro
che formano le liste elettorali si sono rinsaldati e la tendenza a fare quadrato
prevale su ogni altra considerazione.
D’altro canto a rapporti diretti di corruzione sembrano essersi affiancati
comitati d’affari che rendono ancora più difficile ricondurre le relazioni a
fattispecie penali, non essendo stato inserito nel codice penale il delitto di
traffico d’influenza, alla cui introduzione pure le convenzioni internazionali
obbligano l’Italia. L’unica spinta di segno contrario alla protezione della
corruzione proviene infatti dalle istanze internazionali. Le poche leggi che
mirano a rendere più facile la scoperta e il perseguimento di questi reati
derivano da convenzioni internazionali. Tuttavia la Convenzione penale sulla
corruzione del Consiglio d’Europa, dopo essere stata firmata nel 1999, non
è stata ancora ratificata dall’Italia.
Altre convenzioni, in sede di ratifica, non sono state attuate o sono state
depotenziate. Ad esempio: è stata introdotta nel codice penale la confisca per
equivalente (cioè di beni di pari ammontare) del prezzo, ma non del profitto
di reato. La legge, come ha confermato una recente pronuncia della Corte
di cassazione a sezioni unite in materia di peculato, infatti, non consente
1
Si veda P. Davigo, G. Mannozzi, La corruzione in Italia. Percezione sociale controllo penale,
Laterza, Roma-Bari 2007.
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la confisca dei beni per l’equivalente del profitto sottratto. Si può soltanto
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confiscare l’equivalente del prezzo del reato. Come se si sequestrasse all’au-
tore di una rapina l’equivalente della paga avuta per partecipare al delitto,
ma non l’equivalente della refurtiva.
Leggi salvacorrotti
La sequenza di leggi di origine soltanto nazionale è invece di segno oppo-
sto. Molte pronunzie assolutorie sono derivate dalla sopravvenuta (per
leggi nel frattempo approvate) inutilizzabilità di prove prima utilizzabili
e – nel silenzio dei mezzi d’informazione – presentate come attestazioni
di innocenza. Elevatissimo è stato il numero di sentenze di non dover-
si procedere per prescrizione, mai rinunziata dagli imputati, anche da
coloro che hanno ricoperto cariche pubbliche, dimentichi che l’articolo
54 della Costituzione richiede a costoro «disciplina ed onore», senza che
mai nessuno all’interno dello stesso o di opposti schieramenti ricordasse
il dovere dell’onore.
La legge «ex Cirielli», oltre a ridurre i termini di prescrizione e a mandare
in fumo decine di migliaia di processi in più, ha sortito un effetto spesso
ignorato: prima, se ad esempio un corrotto riceveva tangenti per dieci anni,
tutte le corruzioni rientravano in un unico disegno criminoso e l’istituto
della continuazione gli riduceva la pena: ma la prescrizione decorreva
dall’ultimo episodio di corruzione. Con la legge ex Cirielli invece ogni
reato in continuazione si prescrive autonomamente. Le conseguenze sono
che non è più possibile risalire nel tempo a investigare precedenti episodi
per individuare i complici e risalire ai fatti più recenti da costoro realiz-
zati. Chi vuol corrompere un funzionario pubblico deve avere dei fondi
neri, cioè deve falsificare i bilanci. Dietro un bilancio falso molto spesso si
nascondono anche tangenti.
Le leggi più dannose sono state perciò quella approvata dalla maggio-
ranza di centrosinistra sui reati finanziari e quella della maggioranza di
centrodestra sul reato di false comunicazioni sociali. La prima ha ridotto
la punibilità per l’annotazione di fatture per operazioni inesistenti (il
sistema più usato per creare fondi neri) solo ai casi in cui si riverberano
oltre una certa soglia sulla dichiarazione dei redditi: basta indicare spese
gonfiate o inventate fra i costi non deducibili anziché fra quelli detraibili
e si ottengono risorse fuori bilancio senza più commettere reato. Con la
seconda (riforma del falso in bilancio del 2001) sono state abbassate le pene
e dunque ridotta la prescrizione, sicché è quasi impossibile concludere i
processi in tempo utile.
Ma soprattutto, per le società non quotate, il delitto è stato reso perse-
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guibile solo a querela della parte offesa, creditore o azionista. Il creditore
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non è danneggiato dalle false comunicazioni, ma dall’insolvenza: se viene pitolo di o
pagato non sporgerà querela. I soci di minoranza di solito ignorano le
falsità contabili, ma se anche le conoscessero verrebbero tacitati. Il socio di
maggioranza di solito è il mandante e il beneficiario del reato (altrimenti,
invece di denunciare l’amministratore, lo sostituirebbe), sicché stabilire la
perseguibilità del falso in bilancio a querela dell’azionista è come pretende-
re la perseguibilità del furto a querela del ladro. Con entrambe le riforme
sono state comunque introdotte soglie di non punibilità molto alte: è stata
così prevista la liceità penale della «modica quantità» di fondi neri, come
per la droga!
I risultati di queste modifiche normative non si sono fatti attendere: al
solo processo per l’aggiotaggio Parmalat si sono costituite circa 40.000 parti
civili, cioè 40.000 vittime che volevano essere risarcite. Quanto impiega uno
scippatore a fare 40.000 vittime?
Quanto all’abuso d’ufficio (reato utilissimo per iniziare a indagare) è
stato depenalizzato quello non patrimoniale e sono state abbassate le pene
per quello patrimoniale, così vietando la custodia cautelare.
Oggi sembra (sembra?) che i partiti, quasi sempre, continuino a difendere
i propri uomini che finiscono nei guai. Quella che viene chiamata la casta
fa quadrato, nessuno (o quasi) viene scaricato. L’opinione pubblica è stata a
lungo indifferente o rassegnata o semplicemente non informata. Nel 1992
giornali e tv raccontavano i fatti, e questi erano più importanti dei commenti
perché parlavano da soli. Peraltro i commenti erano frequentemente favorevoli
all’opera di pulizia, come l’editoriale di Giulio Anselmi La torta è finita, sul
«Corriere della Sera» del 2 maggio 1992, talora perfino imbarazzanti per gli
inquirenti, come gli articoli di Vittorio Feltri (poi convertito) che arrivava a
scrivere: «Che Dio salvi Di Pietro» («L’Indipendente» del 15 giugno 1992)
e a parlare di «regime putrido» («L’Indipendente» del 16 dicembre 1992) e
molti altri ricordati nel libro.
Successivamente molto spesso i fatti vennero nascosti, filtrati e manipolati
da un sistema mediatico controllato da potentati politici e imprenditoriali,
frequentemente coinvolti nei procedimenti giudiziari. Il commento fuor-
viante ha finito per prevalere sulla cronaca, relegata in posizioni marginali
per consentire ai mezzi di informazione di parlar d’altro. Frequentissimi
sono stati gli attacchi ai singoli magistrati, a interi uffici giudiziari e alla
magistratura nel suo complesso, ma ciò nonostante la magistratura sembra
aver complessivamente tenuto. Negli anni ’80, quando subì il referendum
sulla responsabilità civile dopo le prime indagini sulla corruzione e il crimi-
ne organizzato, la magistratura ne era uscita più indebolita di quanto non
appaia ora (e tuttavia mancavano cinque anni a Mani pulite).
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Oggi, come nel 1992
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Per l’insipienza di chi li sferrava, gli attacchi hanno investito non solo i
magistrati del pubblico ministero, ma anche tutti i giudici di ogni grado,
fino alle Sezioni unite della Corte suprema di cassazione, così ottenendo il
risultato di tenere uniti i magistrati.
Il fatto che in tutta Italia ci siano ancora inchieste e processi sui reati della
classe dirigente, nati quasi sempre da iniziative giudiziarie e quasi mai dalle
forze di polizia (che non hanno le guarentigie di indipendenza dal potere
politico che tutelano i magistrati, sicché tale iniziativa non è da loro esigibi-
le), è segno che la magistratura è riuscita a conservare la sua indipendenza.
La crisi economica che oggi, come nel 1992, grava sul paese probabilmente
ridarà slancio a iniziative serie per ridurre la corruzione e di conseguenza
a una repressione più incisiva. Tuttavia tanti anni sono passati invano ed
è necessario ricominciare dall’inizio a fronteggiare questi fenomeni, che
contribuiscono a rendere l’Italia poco efficiente e poco credibile sul piano
internazionale, per l’ingente sperpero di risorse pubbliche, i tempi biblici
per la realizzazione di opere pubbliche e la scarsa qualità dei beni e servizi
acquistati dalle pubbliche amministrazioni, quantomeno sotto il profilo
qualità-prezzo. Allora è necessario ricordare i fatti accaduti vent’anni or sono
perché quello è stato il momento in cui le reali dimensioni della corruzione
in Italia sono cominciate a emergere e dai fatti accertati possono essere tratti
elementi utili per fronteggiare seriamente queste attività delittuose.
Il volume di Gianni Barbacetto, Peter Gomez e Marco Travaglio è un
ottimo compendio di quei fatti. Uscì nella sua prima edizione nel 2002,
dieci anni dopo l’inizio di quelle indagini, nel momento in cui cominciava
ad affievolirsi il ricordo di quanto era accaduto e i mezzi di informazione
tentavano di accreditare l’idea che i magistrati avevano esagerato in passato,
che in ogni caso erano stati parziali, avendo salvato alcune forze politiche,
ma che ora si era finalmente tornati alla normalità e via discorrendo di simili
amenità, anziché guardare inorriditi il fango che era emerso, l’ipocrisia di
un’intera classe dirigente, il palese spregio del giuramento prestato da parte
di moltissimi funzionari pubblici.
Il racconto dei fatti, ricostruiti con certosina pazienza e con la maestria
che contraddistingue gli autori, spazza via le sciocchezze e le menzogne
che per anni sono state divulgate dai mezzi di informazione. Accanto ai
delitti commessi emerge con nitore l’incapacità (se non peggio) della clas-
se dirigente di questo paese di creare le condizioni perché si possa vivere
secondo le regole comunemente accettate del mondo occidentale, del quale
dichiariamo di voler far parte.
Quest’opera è un vademecum che aiuterà a ricordare ciò che è accaduto,
perché è l’oblio dei misfatti che lentamente consuma la libertà delle istituzioni.
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Ringraziamenti
Gli autori ringraziano, oltre ai personaggi intervistati, tutti coloro che li
hanno aiutati nel lavoro di raccolta dei dati e dei documenti e in quello
di controllo e di rilettura. Un grazie particolare a Paolo Biondani, Piero
Colaprico, Luca Fazzo, Pier Francesco Fedrizzi, Luigi Ferrarella, Giuseppe
Guastella, Paolo Flores d’Arcais, Daria Lucca, Caterina Malavenda, Marco
Mensurati, Renato Pezzini, Mario Portanova, Emilio Randacio, Franca
Selvatici, Leo Sisti, Carmine Spadafora, Corrado Stajano.
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«L’attuazione delle leggi era venale e arbitraria. Un criminale benestante
non solo poteva ottenere l’annullamento di una giusta sentenza
di condanna, ma anche infliggere all’accusatore, ai testimoni
e al giudice la punizione che più gli piacesse.»
(Edward Gibbon, Declino e caduta dell’impero romano, I edizione, 1776-1788)
«Il crimine, una volta scoperto, non ha altro rifugio che nella sfrontatezza.»
(Tacito)
«Il nostro lavoro stava smuovendo le coscienze, rompendo i sentimenti
di accettazione della convivenza con la mafia, che costituiscono la vera
forza della mafia [...]. La lotta alla mafia non doveva essere soltanto
una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale
che coinvolgesse tutti, e soprattutto le giovani generazioni, le più adatte
a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare
il puzzo del compromesso morale [...]. Questa stagione di “tifo” per noi sembrò
durare poco, perché ben presto sopravvenne quasi il fastidio, l’insofferenza
al prezzo che la lotta alla mafia doveva essere pagato dalla cittadinanza:
l’insofferenza alle scorte, l’insofferenza alle sirene, l’insofferenza alle indagini,
l’insofferenza che finì per legittimare un garantismo di ritorno che ha finito
per legittimare a sua volta provvedimenti legislativi che hanno estremamente
ostacolato la lotta alla mafia, o peggio hanno fornito un alibi
a chi – dolosamente spesso, colposamente ancor più spesso
– di lotta alla mafia non ha voluto o non ha più voluto occuparsi...»
(Paolo Borsellino, commemorando Giovanni Falcone il 25 maggio 1992 nella chiesa
di San Domenico a Palermo, due mesi prima di morire assassinato in via d’Amelio)
«Legalità.» «Moderiamo i toni!»
(ElleKappa)
«Una volta un giudice giudicò chi aveva dettato le leggi.
Prima cambiarono il giudice. E subito dopo la legge.»
(Fabrizio De André)
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Prologo il
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Lunedì 17 febbraio 1992, ore 17,30. Un imprenditore di 32 anni, Luca
Magni, si presenta in via Marostica 8 a Milano, nell’ufficio di Mario Chiesa,
presidente del Pio Albergo Trivulzio. Magni è titolare di una piccola impresa
di pulizie, la Ilpi di Monza, che lavora anche per il Trivulzio, la storica casa
di ricovero per anziani fondata nel Settecento. Chiesa è un esponente del
Partito socialista italiano e non nasconde le sue ambizioni politiche: sogna
di diventare, in un futuro che spera prossimo, sindaco di Milano.
Dopo mezz’ora di anticamera, Magni viene ricevuto. Deve consegnare
al presidente 14 milioni, la tangente pattuita su un appalto da 140 milioni.
Nel taschino della giacca ha una penna che in realtà è una microspia. In
mano stringe la maniglia di una valigetta che nasconde una telecamera. «A
dir la verità – ricorderà Magni – avevo una paura pazzesca, ero agitatissimo.
L’ingegner Chiesa era al telefono e io sono rimasto dieci minuti in piedi
ad aspettare che finisse di parlare. Poi gli ho dato una busta che conteneva
7 milioni. Gli ho detto che gli altri sette per il momento non li avevo.»
Chiesa non reagisce. Domanda soltanto: «Quando mi porta il resto?». «La
settimana prossima», risponde concitato Magni. Poi saluta. E, uscendo,
quasi si scontra con un carabiniere in borghese.
Mentre l’imprenditore telefona a casa («Per tranquillizzare mia madre e
mia sorella, che sapevano dell’operazione ed erano preoccupate per me»),
una squadretta di investigatori blocca il presidente del Trivulzio, che capi-
sce di essere caduto in trappola. «Questi soldi sono miei», azzarda. «No,
ingegnere, questi soldi sono nostri», replicano gli uomini in divisa. Allora
chiede di andare in bagno e si libera delle banconote di un’altra tangente
da 37 milioni, incassata poco prima, gettandole nella tazza del gabinetto.
Poi viene arrestato e portato nel carcere di San Vittore.
L’intervento è stato preparato con cura. Le prove sono schiaccianti: una
ogni dieci delle banconote di Magni è stata firmata da un lato dal capitano
dei Carabinieri Roberto Zuliani, dall’altro dal sostituto procuratore Antonio
Di Pietro. La ditta di Magni, che si occupa di speciali trattamenti ospedalieri,
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6 RIMAMani pulite
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lavora per il Trivulzio da qualche anno. Nel 1990, con i primi appalti con-
sistenti, sono arrivate anche le prime richieste di denaro. Racconta Magni:
«I soldi Chiesa me li ha chiesti con poche parole secche, com’è sua abitu-
dine: “Mi deve dare il 10 per cento”». In meno di due anni l’imprenditore
porta a Chiesa una quarantina di milioni, in sei o sette consegne, sempre
in contanti, dentro una busta bianca. «Io non immaginavo certo che cosa
sarebbe successo dopo la mia decisione di andare dai Carabinieri. Per me era
un problema economico. Il 10 per cento è troppo, anche perché nel nostro
settore non possiamo recuperare gonfiando i prezzi. E poi le buste Chiesa
le voleva subito, mentre noi i pagamenti li vedevamo molti mesi dopo. Era
una situazione insostenibile.»
Così Magni chiede aiuto all’Arma. Il 13 febbraio telefona alla caserma
milanese di via Moscova. Il capitano Zuliani gli fissa un appuntamento per le
10 del giorno seguente, venerdì 14. Lo ascolta, raccoglie la sua denuncia e la
presenta al magistrato con cui lavora: Di Pietro. Il pm e l’ufficiale preparano
il blitz per il lunedì: quel giorno Di Pietro è di turno, quindi l’inchiesta sarà
assegnata a lui. L’appuntamento è per le 13 del 17 febbraio, alla caserma
di via Moscova. Luca Magni arriva con la sua auto Mitsubishi e con i suoi
7 milioni. Il capitano lo accompagna subito a Palazzo di giustizia: «Ero un
po’ teso – ricorderà l’imprenditore – perché non mi aspettavo di incontrare
un magistrato. Però mi sono subito tranquillizzato, perché Di Pietro è stato
molto gentile. Ha fatto uscire dalla sua stanza tutti quelli che vi stavano
lavorando, mi ha messo a mio agio e mi ha chiesto di raccontargli i fatti,
senza alcun atteggiamento inquisitorio».
In caserma, le banconote vengono siglate e fotocopiate. Si provano la
penna-trasmittente e la valigetta-telecamera (che alla fine non risulterà
granché utile). Poi un corteo di quattro auto, la Mitsubishi di Magni e tre
mezzi dei Carabinieri, parte per il Pio Albergo Trivulzio (il Pat, che i milanesi
chiamano familiarmente «Baggina» perché ha sede sulla strada che porta a
Baggio). Sta nascendo Mani pulite, l’inizio della fine di un sistema politico.
Ma nessuno, quel giorno, può ancora immaginarlo.
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«L’ingegner Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano,
una casa di riposo per anziani, è stato arrestato questa sera dai Carabinieri
con l’accusa di concussione. Lo hanno reso noto gli investigatori con un
comunicato diramato in serata.» Così recita il dispaccio Ansa delle ore 22,16
del 17 febbraio 1992. I quotidiani, il giorno successivo, danno la notizia senza
enfasi: in manette per una tangente un amministratore socialista. Dovranno
passare alcune settimane prima che si imponga all’attenzione della stampa
il «caso Chiesa», che poi diventa il «caso tangenti» e che esploderà solo tra
aprile e maggio. Il sistema di corruzione che verrà alla luce sarà chiamato
«Tangentopoli» e l’indagine sarà per tutti «Mani pulite».
«Chiesa l’abbiamo preso con le mani nella marmellata», è l’unico com-
mento, rigorosamente ufficioso, del magistrato della Procura di Milano
che segue l’inchiesta, Antonio Di Pietro. Pressoché sconosciuto, il sostituto
procuratore è un ex poliziotto molto abile nel lavoro investigativo. E ha due
punti di forza. Il primo è che si è già occupato di altri casi di corruzione:
nel 1988 ha condotto, insieme al collega Piercamillo Davigo, l’inchiesta
«carceri d’oro» sulle tangenti pagate dal costruttore Bruno De Mico. Poi
ha indagato su Lombardia Informatica, una società della Regione, e sulle
forniture all’Atm, l’azienda dei trasporti pubblici milanesi. Così si è convinto
che la corruzione non sia un’eccezione patologica nel rapporto tra politici e
imprenditori. Ma che sia un metodo, un sistema. E lo ha descritto in alcuni
articoli, come quello pubblicato nel maggio 1991 su un piccolo mensile
milanese, «Società civile»: «Più che di corruzione o di concussione, si deve
parlare di dazione ambientale ovvero di una situazione oggettiva in cui chi
deve dare il denaro non aspetta più nemmeno che gli venga richiesto; egli,
ormai, sa che in quel determinato ambiente si usa dare la mazzetta o il pizzo
e quindi si adegua».
Il secondo punto di forza è che, quando arresta Chiesa, Di Pietro ha già a
disposizione molte informazioni su di lui. Da mesi, infatti, conduce un’in-
dagine per diffamazione nata da una querela, presentata nel giugno 1990 da
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un amico di Chiesa, Mario Sciannameo, proprietario di alcune imprese di
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pompe funebri. Sciannameo ha denunciato Nino Leoni, cronista del quo-
tidiano «Il Giorno», per un articolo su un presunto «racket del caro estinto»
al Pio Albergo Trivulzio. Secondo Leoni, Sciannameo aveva l’esclusiva per
i funerali degli anziani morti nella casa di riposo, anche se poi ne «cedeva»
una piccola parte ai concorrenti in cambio di denaro: 100.000 lire a salma.
Di Pietro, per la diffamazione, ha chiesto l’archiviazione. Ma, fiutando
reati contro la pubblica amministrazione, ha continuato a lavorare sul Pat,
aprendo il fascicolo numero 6380/91: quello che nel febbraio 1992 si riem-
pirà dei primi atti del «caso Chiesa». Intanto ha interrogato un concorrente
di Sciannameo, Franco Restelli, che era la «gola profonda» di Leoni; e ha
messo sotto controllo i telefoni di tutti i protagonisti. Dalle intercettazioni
ha ricavato una buona conoscenza dei metodi di lavoro e della situazione
patrimoniale e finanziaria del manager socialista, che con Sciannameo ha
molti rapporti d’affari.
Da tempo alla ricerca di un bandolo per districare la matassa del sistema
delle tangenti, Di Pietro cuoce Chiesa a fuoco lento: guai se, anche questa
volta, l’inchiesta si limitasse a un singolo episodio. Blocca i suoi conti bancari,
anche quelli intestati ai genitori e alla segretaria Stella Monfredi. Sequestra
cassette di sicurezza, libretti al portatore, azioni, titoli di Stato. «Avvocato,
riferisca al suo cliente che l’acqua minerale è finita», dice un giorno a Nerio
Diodà, il difensore del manager socialista. Chiesa capisce al volo: il pm ha
scoperto anche i suoi conti svizzeri, denominati «Fiuggi» e «Levissima». In
totale, gli fa sequestrare una dozzina di miliardi.
Il caso potrebbe essere chiuso in poche settimane, con la rituale richiesta di
rinvio a giudizio per la minuscola tangente ritirata quel fatidico 17 febbraio.
Borrelli, scettico sulle possibilità di «sfondare», è per questa soluzione. Ma, se
fosse andata così, Mani pulite non sarebbe mai nata. Invece Di Pietro finge
di dimenticare le scadenze procedurali e non deposita gli atti nei termini
previsti per la celebrazione del processo per direttissima. Poi fa filtrare alla
stampa una notizia: di Chiesa sta parlando un certo Vito Occhipinti, in
carcere a Busto Arsizio per una vicenda che i giornali associano ad affari
truffaldini e ambienti in odore di mafia. Occhipinti, in realtà, ha poco di
veramente rilevante da dire. Ma così l’attenzione dell’opinione pubblica sul
caso Chiesa resta viva.
1. Mariuoli a Milano
Il Psi si prepara alle elezioni politiche del 5 aprile. E l’arresto in flagrante
di un tangentomane, in campagna elettorale, non è una bella propaganda.
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Soprattutto per un partito già nel mirino della stampa e della satira per i suoi o ca
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rapporti conflittuali con il codice penale. Chiesa viene subito abbandonato
al suo destino. Già il giorno dopo l’arresto la federazione provinciale del Psi
diffonde un comunicato in cui ribadisce «la sua più assoluta estraneità sotto
ogni profilo rispetto ai fatti e agli addebiti mossi dal magistrato nei confronti
dell’ingegner Chiesa» e comunica di aver «assunto la determinazione di
sospendere in via cautelare lo stesso dal partito». Il 22 febbraio interviene
Craxi in persona: «Ci siamo trovati – dice parlando a Lodi, senza mai
nominare Chiesa – in una situazione spiacevolissima. Voglio dire però che
la disonestà non è la nostra, ma di chi l’ha compiuta. Abbiamo immediata-
mente separato le responsabilità e preso per parte nostra i provvedimenti che
dovevamo. Un conto però è manifestare indignazione per quanto accaduto,
un conto cercare di dipingere il Psi per qualcosa di diverso da quello che è».
Craxi torna più volte sull’argomento nei giorni successivi. Il 3 marzo al
Tg3 definisce Chiesa, sempre senza nominarlo, un «mariuolo» che dan-
neggia il partito:
Io mi preoccupo di creare le condizioni perché il Paese abbia un Governo che
affronti i momenti difficili che abbiamo davanti e mi trovo un mariuolo che
getta un’ombra su tutta l’immagine di un partito che a Milano in cinquant’an-
ni – non in cinque, ma in cinquant’anni – non ha mai avuto un amministratore
condannato per reati gravi commessi contro la pubblica amministrazione.
Un amministratore inquisito e arrestato per gravi reati contro la pubblica
amministrazione, in verità, c’era già stato: Antonio Natali, padre politico di
Craxi, per tanti anni presidente della Metropolitana milanese, considerato
l’inventore del sistema scientifico di spartizione delle tangenti a Milano.
Accusato nel 1987 da un imprenditore di aver preteso una mazzetta di 488
milioni per la costruzione di un tratto di metropolitana. Natali era stato
salvato dal partito con una formidabile barriera protettiva. Craxi, allora
presidente del Consiglio, aveva chiesto subito di visitarlo in carcere. Poi lo
aveva fatto eleggere al Senato e, nel maggio 1990, l’assemblea di Palazzo
Madama aveva respinto l’autorizzazione a procedere per concussione chiesta
dal magistrato milanese Marco Maria Maiga. L’aula aveva accolto l’esito del
voto con vivi «applausi finali da destra, dal centro e da sinistra».
Chiesa invece si è lasciato prendere con le mani nel sacco e per di più
in campagna elettorale: un vero «mariuolo». Il 5 marzo Carlo Tognoli, ex
sindaco socialista di Milano e suo padre politico, dichiara:
Il caso Chiesa è il caso Chiesa, noi siamo tutto il resto. Appare singolare che le
cosiddette «pecore nere» vengano individuate solo nel Psi e proprio in questo
periodo. A mio avviso qui gatta ci cova. Credo che, se fosse stato di un altro