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G A B RIELE:
P A N N U N Z IO
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L A P R E P A R A Z I O N E
E L’O P E R A DI GUERRA
L’E R O IC A
M I L A N O
ETTORE COZZAMI
GABRIELE
ANNUNZIO
L A P R E P A R A Z I O N E
E L ’OPERA DI GUERRA
T u tti i diritti
di proprietà artistica e letteraria
sono riservati
per tutti i paesi
C opyright by L'E roica
28 Ottobre J930
P rinted in Itaiy
ALLA MEMORIA
DI
SILVIA GHILARDI CANZIANI
PARTE I.
LA PREPARAZIONE
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La milizia di Gabriele D’Annunzio co­
mincia molto più presto dello scoppio
del conflitto delle nazioni. L’uomo che
la folla dei saputi si compiaceva di rap­
presentarsi come un gaudente intento
solo a coglier della vita e a render nel­
l’arte il piacere, con una sensualità avida
e instancabile, s’era fin dalla prima gio­
vinezza preparato segretamente all’azione,
e tutta la sua opera letteraria e tutti i
suoi « gesti » ne sono una prova.
Quando a Giosuè Carducci la morte
ebbe interrotto il grido della rampogna
e dell’incitamento, ed’il poeta nuovo, at­
tribuendosi con orgoglio consapevole una
eredità così grande e grave, squillò « la
fiaccola che viva Ei mi commette —
l’agiterò sulle più aspre vette », parve a
9
molti ch’egli esagerasse; ma il D’Annun­
zio sentiva nettamente ciò che doveva es­
sere compiuto da lui e da tutti; e la
forza di afferrare egli solo la torcia ac­
cesa (dimenticando persino il grande
fratello romagnolo che aveva comin­
ciato a serrare l’anima dentro la vor­
ticosa strofe degli Inni) gli veniva special-
mente dal ricordo di ciò che egli aveva
già dato alla nostra lirica civile con po­
tenza di ispirazione e chiarezza profe­
tica.
Le « Odi Navali » sono d’un venten­
nio anteriori alla guerra nazionale. Là il
mare ch’egli aveva esaltato con rude
schiettezza di sensi e di forme nel
« Canto Novo », — senza intenti poli­
tici, — ma già sentendolo « gloria, forza
d’Italia », il mare sulle cui rive aveva ca­
valcato febbrile, o s’era disteso a cuo­
cersi al sole come per imbeversi di sale
e temprarsi all’ardore, — dopo essergli
IO
apparso come il mare di tutti gli uomini,
che regge la nave di tutte le glorie uma­
ne, o « il dolce mar funesto », « il bel
mar natale », « il mar meraviglioso », che
amano e sfidano le paranze con le
« rosse latine vele » grandi come ar­
chi di luna, — gli si rivela subitamente
un giorno (« io lo scorgo con un brivido
interrotto ») imputridente del sangue in­
vendicato di Lissa: il movimento tutto
carducciano dell’apparire di Faà di Bruno
che, grande ombra sul deserto, chiede
senza risposta, « Sarà dunque eterna la
vergogna ?» — e del sorgere come in
morgana della visione di Trieste rivolta
a Roma (« sempre a te ! Sempre la stes­
sa ») — annuncia in pieno il nascere
del motivo di guerra nella sinfonia che
il poeta viene spiegando in tutta la sua
vasta architettura: e la rappresentazione
rapida, palpitante, perfetta, della torpe­
diniera, bella «come un’arme nuda»,
I|
11
dà all’inno un tono di originalità e di
giovinezza, che testimonia d’una invitta
sincerità (nel 1914 il D’Annunzio chie­
derà al Governo, per prima domanda
di volontario, d’essere imbarcato sopra
un « Caccia » adriatico); — e il passo
« sotto la bufera cinereo là verso An­
cona, l’Adriatico s’oscura » è già un ac­
cenno profetico, poiché proprio « là,
verso Ancona» nel maggio del 1915
scoppiò il primo tuono d’artiglieria nella
grande guerra.
L’Ode per la festa navale nelle acque
di Genova (8 settembre 1902), quando
egli vide le Speranze della Patria erette
sulle prue taglienti, ha un secondo ac­
cenno profetico : « - odon forse gli eroi
da le tombe profonde » l’inno del « di­
ritto eterno» e della ¡« nuova']forza »
d’Italia; e invero quando, il 5 maggio
del 1915, gli eroi si desteranno nel bron­
zo di Eugenio Baroni, egli sarà là, a
12
levar sul mare, nelle lasse dell’Orazione
per la Sagra dei Mille, il suo « inno » ri-
svegliatore.
Ma il senso augurale dell’impresa adria-
tica, l’immanenza d’un destino di guerra
e di gloria sul Golfo di Venezia, dilagano
in piena dalle liriche in cui si narra la
tragedia della morte dell’Ammiraglio di
Saint-Bon : eroe di Lissa, questi sognava
la riscossa navale: Trieste attendeva; ma
il 23 novembre 1892, il poeta getta il
grido angoscioso: « Dio salvi l’Ammira­
glio ! Dio lo salvi ! La Morte.... » ; le
strofe di esametri paiono sostenute dal
quadrato ottonario che ne interrompe il
fluire fatale e le chiude, come da un
anelito di virile speranza; il 24, nella
dolcezza amorosa dell’ ode saffica, il
poeta si illude : « forse vivrà. Certo vi­
vrà, se vale, — il fervore d’un popolo
ansioso — in un voto »; il 25, quattro
martelliani, rimati con rime oscure come
13
lembi funerei, preannunciano la sventura
nazionale: «Dio protegga l’Italia»; il
26, con un grido che ci fa ancora rab­
brividire la sventura è annunciata: « Ar­
mata d’Italia ! Nel nome d’Italia di Dio
- e del Re, della nostra cattolica fede, Si-
mone di Saint-Bon è morto. Il Grande
Ammiraglio oggi è morto. ». Gli esametri
si ridistendono con sussulti e ingorghi me­
trici che paiono di singhiozzi e di pianto,
e nel cospetto della morte il sogno della
battaglia nautica vittoriosa si spiega in
tutta la sua eroica bellezza senza veli :
non più come presagio, ma come gesta
narrata: il vate che canterà la beffa di
Bùccari « si ricorda » - « dei giorni ancor
non nati » : Trieste leva sùbito il suo
consapevole lamento nella cadenza del
doppio settenario, annobilita di frequenti
ardimenti tecnici, — e sul ritmo d’un
canto oltre oceanico, con l’ampiezza se­
rena d’un periodo musicale di Walt Whit-
14
manti, è sciolto il pianto funebre sulla
tomba : è pianto ormai disperato ; ma
suonano nell’aria di Roma le campane
della risurrezione di Cristo...
Quando Gabriele D ’Annunzio riassu­
merà nella tragedia « La Nave » questo
suo smisurato amore dell’Adriatico, risca­
vando nel macigno delle nostre glorie
medioevali l’immagine del sogno libera­
tore — quando la tragedia sarà trionfal­
mente rappresentata a Trieste, quando
egli battezzerà sdegnato « l’Amarissimo »,
— il suo affanno profetico sembrerà
crescere, come nel presentimento d’ una
imminenza di eventi, e nella certezza
che l’oracolo gli giunge proprio da
Dio.
Poi sorge nella sua anima, come una
costellazione nella fonda notte, 1’ Elettra.
Un senso di aspettazione consapevole è
in ogni strofe degli inni civili, anche di
quelli che paiono più lontani dal presente
15
e più vaghi : sembra che il poeta si sforzi
d’allargare il suo respiro per prepararlo
ad un canto epico, e di distendere l’oriz­
zonte della speranza del popolo, perchè
vi sia spazio per tutte le apparizioni e-
roiche.
Dinanzi alle Montagne, «terribili dòmi
abitati da Dio », ascolta l’anima sua « se
non giunga un messaggio » e vede un
« puro spirito » « schiudere il Futuro »
oltre oscuri abissi di dolore; — al pen­
siero di Dante egli sente che quel nome
solo «come il turbine agita i lembi —
d’un gran vessillo, scuote nei suoi mari e
nei suoi valchi — l’Italia inerme »: iner­
me, sì ; « Ma il cuore della Nazione è co­
me la forza delle sorgenti — meravi­
glioso » : e ci sono in Italia, se pur l’alba
« ancor non sale », le forze ed i forti :
« pel rancore dei forti che patiscono la
vergogna, — pel tremito delle vergini
forze che opprime la menzogna»....
16
Cade ucciso Re Umberto, e nella sin­
cerità e nella gravità che soltanto la morte
sa imporre così grandi, tutti i sogni in­
certi e tentanti, prendono una forma pre­
cisa e s’avviano: e l’inno diventa così net­
tamente profetico, che oggi non si può
rileggere senza sentir quell’« orrore sa­
cro » con cui gli antichi avvertivano la
presenza divina : la notte in cui il
convoglio funebre traversa la penisola
cercando Roma, è piena di baleni, di
febbri, di presagi: Genova e La Spezia
salutano, « le due madri delle navi » ;
principia il nuovo destino; l’Italia rifio­
risce, l’Italia si sveglia ; « Or chi sarà
l’eroe che attendiamo?»; Non c’è dub­
bio, sei tu, « Giovine, che assunto dalla
morte, fosti re sul mare >: « T’elesse il
destino all’alta impresa combattuta * (così
fu): «guai se gli manchi» (così fu: la
rivoluzione, due volte è stata alle porte:
nel maggio del 1915, nell’ottobre del
17
2
1922; e scoppiava, se il Re fosse man­
cato) : la fortuna d’Italia — prese l’ali sul
campo d’una battaglia perduta » (e
riavvenne nel 1917).
« Che vorrai tu sul tuo soglio ?» ; le
domande incalzano nel tumulto dell’anima
invasata « Quale altura è il tuo segno?...
Sai tu come sia bello il tuo regno ? ».
(Nessun Re d’ Italia ne ebbe uno così
bello: in verità): e la certezza tripudia,
lampeggia, minaccia nell’ultima strofe :
« T’elesse il Destino — all’alta impre­
sa audace. — Tendi l’arco, accendi la
face, — colpisci, illumina, eroe latino!
— venera il lauro, esalta il forte ! —
Apri alla virtù le porte — dei dominii
futuri ! — Chè se il danno e la vergogna
duri — quando l’ora sia venuta — tra i
ribelli vedrai da vicino anche colui che
oggi ti saluta ».... (Ricordiamo il 5 mag­
gio a Quarto e le parole « Maestà assente,
ma presente », — che avevano corrette
18
all’ultimo momento quelle già scritte e
dure, «Maestà assente»; — ricordiamo
la marcia di Ronchi).
E l’impresa, non più ormai lontana, si
accenna nel vaticinio, con particolari di
esattezza storica illuminati da un lampo
di preveggenza stupenda: Trento non
pianga, Trento attenda; tornerà Garibaldi,
a riprender la marcia : « Verrà verrà sul
suo cavallo, — con giovine chioma »
(Peppino Garibaldi). « Torrà il nero e
giallo — vessillo dal tuo sacro monte ».
— Ma più, più ancora certo, esatto :
« Non piangere, anima di Trento... Non
fare lamento. Perdona — Prepara in si­
lenzio gli eroi ». C’è tutto Battisti: nel
silenzio e nella preparazione: egli allora
studiava in raccoglimento la geografia del
Trentino e pubblicava le sue opere di
geografia scientifica e di apostolato geo­
grafico: il verso allude a lui e a Filzi,
come una mano addita con l’indice teso.
Tuttavia l’ignavia e la stanchezza, gra­
vavano troppo la vita e l’anima: una
tristezza immane oscurava il destino:
l’azione non appariva nemmeno probabile:
la Potenza lasciava l’Italia, la Bellezza si
esiliava ; ma il poeta traeva dalla dispe­
razione baleni : « E però leva su, vinci
l’ambascia; — anima mia: questa è la
tua vigilia ».
E nella notte di Caprera (e nel di­
scorso ai giovani che la precedette, e che
fu della medesima sostanza infuocata di
quelli di Genova e di Roma nel 1915) egli
evocò gli eroi Garibaldini, nel momento
che trasumanavano, facendoli vivere d’im­
peto sul confine tra la vita e la gloria;
e nelle «Città del silenzio», riscolpì in
strofe di vero bronzo gli eroi comunali
già assunti nei cieli del mito, mostran­
do come tutta la nostra terra fermenti di
un seme di grandezza, e tramutando in
espressioni di potenza guerriera anche le
20
apparenze del lavoro quotidiano, come
quello delle cave di Carrara: « ...e il grido
del bovaro furibondo, — ed echeggiar la
buccina di morte — come squilla che
chiami alla battaglia » ... —.
Anche nei canti funebri la speranza
vampeggia, l’incitamento saetta: nell’inno
per la morte di Giuseppe Verdi il cuore
confida « oltre il destino » e il buon mes­
saggio c’è «chi l’aspetta», poiché «la
forza del dolore » vendicherà forse l’onta.
Nell’inno per il centenario di Vincenzo
Bellini, l’ ansia del poeta che attende
si volge quasi in angoscia, cercando
l’eroe a tutte le contrade della patria:
« sveglia i dormenti e annunzia ai desti :
1 giorni — sono prossimi. Usciamo al­
l’alta guerra ! »
E anche quando parve con l’ispirazione
varcare i confini d’Italia e cantare eroi d’al­
tre genti, la sua anima era umiliata dalla
vergogna della nostra inerzia : l’Ode per il
ri
centenario di Vittorio Hugo non « ripete
°gg' *1 grido, ahi, vano » ? — « E il
cuore — anco spera ? E la fede non lan-
gue? Calpesta dal barbaro atroce, — o
Madre che dormi, ti chiama — una figlia
che gronda di sangue ». Era ancora Trie­
ste, e i giovani giulii battuti in caccia
selvaggia.
E perfino quando, incompreso e bef­
fato come trapiantatore del mito del « su­
peruomo » in Italia, egli esaltò Federico
Nietzche, (e non era forse in lui se non
la brama di sollevare, come in « Più che
l’amore », davanti alla gioventù smarrita,
immagini di schiettezza, di forza e di va­
lore foss’anche dissennato), egli presen­
tiva l’evento : « Io so come si danzi —
sopra gli abissi e come si rida — quan­
do il periglio è innanzi... e come si com­
batta con l’ugne — e col rostro, e come
si uccida, — e come si tessan le ghir­
lande — dopo le pugne ». Un’altra volta
22
egli si ricordava « dei giorni ancor non
nati ».
Allora gli saliva dal cuore col rombo dei
dàttili ansanti la promessa : « verrà dal
silenzio, vincendo la morte — l’Eroe ne­
cessario. Tu veglia alle porte, — ricor­
dati e aspetta». E l’augurio gli squillava
alto sulla testa come un grido d’aquile:
« Così veda tu un giorno il mare latino
coprirsi — di strage alla tua guerra —
....Italia, Italia, — sacra alla nuova Au­
rora — con l’aratro e la prora ».
Il grande evento sognato non nasceva;
ma qualche impresa scosse il sonno la­
tino.
La spedizione in Cina non fu in tutto
esempio di potenza civile che s’espande e
s’impone : pure qualche eroe morì lassù
per l’Italia. Ed ecco l’Ode per i marinai
italiani morti in Cina, con quella trenodìa
superba (una delle più gigantesche pagine
della poesia moderna) nella quale sono
23
rappresentate le madri eroiche, e pur umili
e dolorose, che da tutte le campagne italiane
attendono il messaggio di resurrezione o
di morte : e il messaggio scoppia, uno per
tutte, nel silenzio oscuro : « morti sono i
figli, morti — sono i figli, morti sono —
i figli alla guerra lontana. — .... Ma ve­
duto han la figura grande e sola della
Patria — risplendere sopra la morte ».
Pare una luce d’aurora boreale : subito
spenta. Ma ridivamperà più alta e ampia
e durevole, tra poco.
11 poeta è nel suo esilio oceanico di
Arcachon. S’accende la guerra Libica. Il
fratello romagnolo getta una voce di
gioia e d’angoscia, da Barga, nei periodi
affannosi de « La grande proletaria s’è
mossa » ; Gabriele D ’Annunzio libera al
volo come sparvieri le Canzoni d’oltre
mare.
Questo è proprio il preludio del poema
tragico che si inizierà nel 1915: la guerra
24
è questa volta una guerra grande : « ella
fa dell’Italia dai tre mari — la grande
Patria dalle quattro sponde».
Pare che tutta la materia delle « città
del silenzio » e del gran poema garibal­
dino, riarda, s’ammorbidisca rovente, per­
chè il poeta possa rifoggiarla in una
forma nuova : tutte le glorie seminate dai
secoli nella nostra terra e, su tutte, le
glorie marinare, di Genova, di Venezia,
di Pisa, d’Amalfi, e tutte le passioni che
egli stesso nella sua recente vita ha se­
minate nel cuore dei giovani, grandeg­
giano mature nella luce torrida delPAfrica,
ed egli le addita a testimonianza che la fede
non era vana: e, nel modo di Pindaro,
canta gli eroi d’oggi legando la loro sorte
alle memorie delle loro città; e segue lo
svolgersi della gesta con un movimento
così concitato di terzine, che pare si ser­
rino addosso agli eventi e agli uomini
incalzandoli ingigantiti.
25
Governa le canzoni un senso d’ebrezza,
che solo a tratti è vinto dallo sconforto
dell’uomo, il quale, nato per essere eroe
con «la forza che sognar faceagli il fato
— e il pallore del giovin Bonaparte » —
patisce anche adesso « l’ignavia delle vane
carte »: ma il senso d’orgoglio che gli dà
il veder finalmente la sua profezia avve­
rarsi, soverchia ogni tristezza e ogni dub­
bio. Ciò che però fa anche più fremere
alla lettura di questi squilli guerrieri, è
il vaticinio che corre anche i nuovi inni :
la gesta d’oggi è cantata; ma con chia­
rezza è sognata l’impresa di domani ; an­
che qui, come in « Elettra >, c’è l’aspet­
tazione e la speranza: più lucide, più pre­
cise, come più vicine al loro compiersi
nella realtà : « Che l’Africa non è se non
la cote — ove affilammo il ferro, per
l’acquisto — supremo, contra le fortune
ignote — » ; — « e riluce per noi nell’in­
travisto — futuro un bene che per rive­
26
larsi — vale il martirio d’ un novello
Cristo » (il fante del Carso).
Egli sente che c’è un annuncio nuovo
da dare: e ode il Signore in cerca del
Messaggero : « chi mando, — o gridatore
e indovinatore — di cose sante ?» E vor­
rebbe esser lui : « manda me, Signore » :
e vorrebbe essere di nuovo giovane ; e
sente in sè colui che sarà, tra poco, sul
cielo di Pola e di Vienna, sul mare di
Bùccari, sulle sassaie del Veliki e del Faiti:
« principe della gioventù, traendo — i
miei compagni a me duce e pilota —
meco giurati a un patto più tremendo ».
E, quando il poema delle dieci canzoni
si chiude perfetto con quell’« ultima », che
è forse la più bella per il profondo e
sincero dolore che ne trabocca, una sola
immagine permane in noi ; la schiera dei
ritornanti che s’avvia, come gente che
tende a un’altra mèta: «taciturna così per
la deserta — notte s’avanza la quadrata
27
schiera, — con i suoi segni, — verso
l’alba certa — simile al vóto d’una pri­
mavera — sacra che salga verso un fato
augusto... » mentre nel cuore del poema
ondeggia, tra le figure degli eroi, la fi­
gura monacale d’Elena di Francia, pre­
parata dalla sua esperienza libica e da
questo canto alla missione che la farà,
nella grande guerra, maestra e signora
della carità; e già s’incupisce e attorva
nella Canzone dei Dardanelli la delu­
sione che torcerà il cuore all’ Italia vit­
toriosa per l’ingiustizia delle nazioni com­
pagne, e si leva ostile e osteggiata la
la figura dell’uomo politico che il poeta
si troverà primo di traverso alla sua rotta,
quando nel maggio 1915 rientrerà in Ita­
lia per la guerra di riscossa : « questa
Canzone della Patria delusa fu mutilata
da mano poliziesca, per ordine del Ca­
valiere Giovanni Giolitti, capo del Go­
verno d’Italia».
28
Il terribile luglio 1914 lo trova ancora
in Francia: la guerra scoppia, ed egli
prova quel primo senso d’irreale che tutti
provammo, come se d’improvviso, in una
vicenda che ci toglieva il respiro, ci av­
volgesse un lontano passato, un futuro
anche più lontano : ma sùbito egli si
orienta : — la guerra prepara «gli spazii
mistici per le apparizioni ideali ». Egli
sente che metton foce nel gran mare della
realtà i fiumi canori delle sue predizioni :
« mi tornano nello spirito le melodie che
non furono udite e che perciò a taluno
devono oggi sembrare più belle ».
La sua « esule malinconia » lo trava­
glia ; a quando a quando lo spirito si
smarrisce tra il desiderio dell’azione e il
sospetto che le forze sieno ormai fiaccate,
e la preparazione insufficiente: « ho per­
duto il mio mondo e non so se ne tro-
29
vero un altro »; — « chi sono ? dove
vado? e che ho mai fatto? ».
Ma gli eventi lo avviano alla mèta,
come colpi di timone una barca potente :
il pontefice mite se ne va; un altro sale
la cattedra di S. Pietro ; il Poeta riassume
in poche linee preveggenti il tormento
italiano dei quattro anni prossimi; «si so­
gna che in quest’ora sia vestito della tu­
nica bianca e coperto »del camauro ver­
miglio un papa giovine... capace di con­
tenere nel suo petto il coraggio sovru­
mano d’Ildebrando ». Quante volte non
ci rammaricammo, in quattro anni d’an­
sia, ad ogni atto e gesto del Pastore,
con questo medesimo sogno che non ci
voleva morire ?
Il barbaro invade il suolo della Francia,
calpesta le memorie dell’ « Isola » bene­
detta ; il poeta segue ogni fatto di guerra
con una crescente passione : e in tutti
gli aspetti della terra ospite, vede un
30
aspetto della patria lontana; e, con quel­
l’amore che nei momenti decisivi parve
sempre unire Italia e Francia in uno stesso
sentimento latino di grandezza, di peri­
colo, di volontà eroica, prepara l’anima
sua a quel ritorno in Patria, che qual­
che coscienza invigliacchita nella politica
gli rinfacciò come un mercato !o
« Il mio cuore gridava d’angoscia verso
la mia patria prima, verso l’Italia inerme
e irresoluta ».
Percorre contrade in agonia all’appros-
simarsi dell’uragano germanico, vede Sois-
son e Reims nell’ora del martirio, e la
cattedrale unica al mondo, transustan-
ziarsi nel fuoco; e, nelle pause dell’an­
goscia, quando in una villa solitaria ri­
prende i giochi con i suoi levrieri, ogni
aspetto ed ogni atto della terra, delle
ammirate belve, delle creature umane gli
assume un atteggiamento guerriero.
«Nulla più valeva, fuorché l’azione, fuor-
31
chè il combattimento a oltranza, fuorché
il sangue inesausto. La furia della muta
si apprendeva alle nostre vene ». E le
verità eterne, le materiali e le ideali, della
vita gli si rivelano. « Sentivo dentro me
il mio scheletro prigioniero, involuto di
carne riconversa in argilla ».
«Ma questa guerra sembra interamente
rifondere tutte le stirpi nella materia ori­
ginale affinchè i loro genii possano al
fine rifoggiarle nel fango sanguinoso e
risollevarle alla vita con un soffio più
vasto ».
« Occidente, splendore dello spirito
senza tramonto, nessun barbaro potè mai
spegnerti, nessuno mai ti spegnerà nei se­
coli, finché l’uomo porti sui suoi soprac­
cigli una fronte per rispecchiarti ».
Sono le chiavi di volta di tutto l’edi­
ficio di parole e di pensiero che egli le­
verà su tra un atto e l’altro durante la
guerra: ma una delle profezie batte le ali
32
lontano, supera la vittoria, guarda dall’alto
i giorni dell’armistizio torbido e della pace
acre: « E la vera legge marziale sarà su
noi instaurata dopo la guerra delle armi :
chè uccidere e distruggere sarà ben facile
compito in paragone di quel che i super­
stiti troveranno dinanzi a loro ». Si pensi
che queste parole del secondo tomo della
« Licenza » fan parte della « Leda senza
cigno », pubblicata nel 1916, e che per­
ciò si rivelano pensate nel 1915 o forse
nel 1914, — e che c’è lo schema del­
l’Italia del 1923.
Egli è ormai pronto, spirito e corpo :
« Sono leggero e spedito per andare verso
l’avventura, verso il pericolo e verso la
morte. Forse mi sarà dato di sentire in
me la stupenda novità che si prepara,
prima di disciogliermi. Ma già la ricevo
in forma di annunciazione ».
«Egli è pronto; ma l’Italia non si
muove: la Francia ansa e si contorce sot­
33
to la pesante mano che !e stringe la gola:
il poeta sente più di tutti questo sussulto
di agonia di cui freme la terra alla quale
poggia i piedi, e si volge con il cuore
alla patria, se oda la voce della deci­
sione.
Silenzio.
Una specie di furore epico lo dilania.
Bisogna decidersi : egli compirà qualche
atto irreparabile che violenti il destino.
Un giorno della primavera del 1915,
nel suo studio remoto di Rue de Geof-
froy, a Parigi, con Peppino Garibaldi,
preso come in un’atmosfera di leggenda,
egli si artiglia il cervello per trovare un
modo di ritornare in Italia che valga un
ammonimento, e che tagli il nodo della
sorte, quand’ecco gli giunge un messag­
gio: un giovane poeta gli annuncia dal­
l’Italia che, nel prossimo anniversario della
partenza dei Mille da Quarto, si scoprirà
sullo scoglio un grande bronzo, a cui gli
34
eventi danno un significato, per la folla
improvviso, ma a lungo meditato e pre­
parato nel cuore dello scultore: è la ri­
surrezione dei morti: gli eroi di tutte le
cospirazioni e le guerre dell’indipendenza
ribalzano dalla terra, stracciando i loro
sudarii ; e Garibaldi è fra loro : li rac­
coglie, li regge e li guida, simili a un
flutto che urti la sua persona come uno
scoglio. La vittoria giovane, perchè gari­
baldina, scaturisce dal gruppo affannoso,
e incorona il Condottiere.
Si vuole che il poeta torni in patria,
sbarcando sul lido « fatale », e interpreti il
bronzo e compia il prodigio, davvero: la
risurrezione dei morti s’inizi per coman­
damento di lui.
Una accensione sùbita prende l’esule
e lo travaglia. In pochi giorni egli pensa,
scrive, e trascrive, in forma d’una can­
zone di gesta a larghe lasse di prosa,
d’un ritmo d’onda temporalesca, la sua
«Orazione perla Sagra dei Mille».
35
Quello stesso giovane poeta ha gettato
frattanto in Italia l’invito a tutte le anime
perchè si purifichino, si accordino, si rac­
colgano a Quarto per un rito augurale,
che, appunto, egli ha chiamato Sagra.
Gabriele D’Annunzio ritorna.
Giorni di febbre: l’ansia diventa ango­
sciosa: si annuncia che il Re sarà pre­
sente allo Scoglio : è la guerra ! poiché il
poeta ha serrato nelle lasse della Orazione
parole decisive.
Ma d’un tratto egli legge nei giornali,
mentre si stacca da Parigi, salutato dai tre­
pidi amici dell’Italia che sperano nell’inter­
vento imminente, che il Re non verrà più:
allora è la neutralità, perpetua! Ebbene:
egli scenderà lo stesso in mezzo alla folla:
colui che ha salutato il giovane Re assunto,
adempirà la minaccia : « Che se il danno
e la vergogna duri — quando l’ora sia
venuta — tra i ribelli vedrai da vicino —
anche colui che oggi ti saluta ». « Maestà
36
assente » comincerà il suo discorso : que­
sta chiamata sarà una condanna.
Egli rientra in patria; ma prima di
partire, il 25 e il 27 aprile, in due prose
« L’amarissimo Adriatico » e « Il cemento
romano » fa pubbliche in Francia, con la
solita nettezza, le dichiarazioni che « de­
terminano — come egli stesso affermò poi
in Roma, il 24 maggio del ’19 — i no­
stri confini e i nostri diritti, tutti i nostri
diritti, specialmente quelli che non consi­
dera il magro patto di Londra e la rat­
toppatura di Moriana ».
Ma, passato appena il confine, egli
incontra il giovane poeta il quale lo ras­
sicura che il Re è 'trattenuto a Roma
dal precipitare degli eventi : si saprà solo
più tardi che il Re non poteva interve­
nire perchè la notte del 4 maggio il trat­
tato d’alleanza con l’Austria era stato
denunciato.
L’arrivo a Genova, a sera inoltrata, la
37
vigilia, gli dovette dare il senso dell’ab­
braccio quasi fisico della Patria: quanta
aspettazione, quanta fede, quanta speran­
za !
Nessun annuncio ufficiale, nessun in­
vito ; ma l’atrio e le scalèe della stazione
Principe, sono un solo gorgo di folla, al
fondo del quale, come dentro la punta
d’un imbuto, splende la testa nuda del
poeta: la moltitudine gli si stringe ad­
dosso fino a soffocarlo: lo vediamo im­
pallidire: a stento una catena di brac­
cia e di spalle maschie lo isola e lo
salva.
Un’automobile lo afferra e lo porta,
prima a stento entro la calca, poi di volo
per strade deserte, all’Albergo Eden. Ma
lassù già un turbine di gente lo attende,
pone l’assedio a l’edificio in cui egli è
scomparso, lo chiama. Egli si affaccia :
nel buio del giardino, rotto qua e là dai
raggianti globi elettrici tra gli alberi, sulla
38
moltitudine fluttuante dei visi pallidi di
commozione, e delle bandiere (è il fiore
dell’ « interventismo » ligure — i giovani
mischiati con i veterani garibaldini) egli
getta il primo dei suoi discorsi: poche
frasi, bellissime, nella nudità muscolosa e
palpitante che un poco s’indebolì amplian­
dosi nella trascrizione pubblicata poi. La
linea del pensiero v’è segnata con una
sicurezza sovrana, dalla preghiera alla
decisione, dalla meditazione all’azione: si
pensa che finalmente il sordo rimescolìo
delle coscienze, il fermento degli affanni
anelanti della patria, abbiano trovato una
voce chiara, libera: si sente che l’Italia
si rivela a se stessa nel suo poeta. E il
bronzo fasciato di stoffa purpurea là sullo
scoglio, era da lui raffigurato come vigi­
lante sul Tirreno oscuro, nella notte senza
luna, tutto rosso d’un ardore che lo ar­
roventava.
Il mattino dopo, sotto il cielo raggiante
39
percorso dai velivoli che ancora stupivano
col loro volo sicuro, su un mare azzur­
rissimo e fiottante alle prode, in mezzo
a un popolo che continuava a fluire da
Genova, per la strada litoranea, come
una fiumana perenne, Gabriele D’Annun­
zio scandì con la sua voce metallica e
ferma l’Orazione: cominciava: «Maestà
assente ma presente » : il drappo sangui­
gno che aveva coperto la mole, la quale
in realtà pareva un rogo come il poeta
aveva divinato, scivolò giù dalle forme
bronzee, e l’opera sembrò davvero come
il D’Annunzio la definì, « un comanda­
mento alzato sul mare ».
L’orazione pubblicata la mattina stessa
dal « Corriere della Sera», percorse con
uno squillo di diana tutta l’Italia : e recò
la certezza.
Ma la bocca del poeta fu proprio da
quel momento come la bocca della for­
nace percossa dall’asta di ferro: non si
40
chiuse più, fino a che l’annunciatore non
divenne combattente : e ne sgorgava una
lava furibonda.
In Genova stessa, il 5 maggio, il 6, il
7, i discorsi s’incalzarono, sempre più
affocati di passione, sempre più affannati
d’amore, ma sempre sorretti da una soli­
dità di pensiero politico e da una anti­
veggenza mirabili.
Al banchetto dei Mille, tra i superstiti
bianchi e curvi che lo covavano cogli
occhi riaccesi dal fuoco di giovinezza eroi­
ca, egli riassunse la realtà di quell’ora
in parole esatte : « sembra che da stamani
noi respiriamo non so che odor di mi­
racolo, dove s’avvicendano in una sorte
di balenìo la verità e il sogno, la vita
attuale e la più lontana favola »; e già
mirava a Roma: « A Roma io bevo » —
Nei giardini del palagio di Andrea D ’Oria,
ricevendo in dono il gesso del leone di
Trieste, che è murato in una casa dei
41
Giustiniani, egli richiama le glorie ma­
rinare della Superba, per avventarle sul­
la costa del « Golfo di Venezia » a riaf­
fermare il diritto d’Italia; nella sala di
palazzo San Giorgio, dopo lo scabro
ardente saluto dell’apuano Ceccardo, rie­
voca i vanti civili di Genova, e chiude
la breve orazione con un’ « immagine
di fiamma »; ai Dalmati che gli offrono
un libro di testimonianza della loro ita­
lianità, giura « nello stile di Roma » la
salvazione.
Ma la sua eloquenza sale ai vertici della
potenza, quando nell’ateneo genovese,
gli studenti convenuti da tutta l’Italia lo
prendono nell’uragano del loro entusiasmo.
Parve allora che tutta la sua anima di­
vampasse, come vampe fischiavano e rug­
givano nell’anima dei giovani: l’aria stessa
ardeva! E c’era, presente ed ignoto, Vit­
torio Locchi : « Se è vero, come è vero,
come io giuro esser vero che gli Italiani
42
hanno riacceso il fuoco su l’ara d’Italia,
prendete i tizzi con le vostre mani, sof­
fiate sopra essi, teneteli in pugno, scuo­
teteli, squassateli ovunque possiate, ovun­
que voi andiate. E appiccate il fuoco,
miei giovani compagni, appiccate il fuoco
pugnace ! Siate gli incendiari intrepidi del­
la grande Patria! »
Furono ! Non erano trascorse molte ore
e già un po’ dappertutto la polizia do­
veva accorrere ad ogni momento a spe­
gnere qualcuno di questi incendi che cre­
pitavano nel vento. E lo seppe il Giolitti,
fischiato e per poco non percosso, alla
stazione di Torino.
Ma il poeta, che non si placa, e tra
discorso e discorso, visita le grandi ac­
ciaierie liguri, le fucine che vampeggiano
notte e giorno senza tregua approntando
i cannoni, tendeva ormai a Roma: la
preparazione delle anime era compiuta:
l’aspettazione aveva messo la febbre in
43
tutta la nazione: ora bisognava andare a
battere il nemico nella sua fortezza !
Chi scrive, lo vide passare, raggiante
di fede, sicuro, dalla Spezia : ne udì pa­
role in cui era la più lucida certezza.
Durante il viaggio e nelle prime ore
romane raggiungono il poeta le notizie
delle frodi tentate, dei baratti, del tradi­
mento.
La febbre della lotta lo investe: è il 12
maggio ; egli getta la sua « arringa al po­
polo accalcato nelle vie e acclamante »: an­
cora l’orazione per la Sagra gli si dibatte
nel cuore, ma si tramuta: « lo vi porto il
messaggio di Quarto, che non è se non
un messaggio romano alla Roma di Villa
Spada e del Vascello » ; il senso profe­
tico dà alle sue parole un’audacia crudele:
« Che la forza e lo sdegno di Roma ro­
vescino alfine i banchi dei barattieri e
dei falsari »; le immagini sobbalzano dal­
la sua bocca con una potenza carnale :
44
« gettato è il dado su la rossa tavola
della terra ». E i ricordi s’ingorgano nella
sua anima dalla storia, dalla poesia, dalla
sua stessa vita lontana, ed egli comincia
quella rievocazione del mito dei Mille, che
accompagna, data per data, di visioni
eroiche la nuova orazione più vasta, che
egli poi intitolò « La legge di Roma »
e di cui ogni discorso è un lassa.
Nella giornata del 13 maggio, con
uno sforzo di allargare la sua azione a
tutta l’Italia, e di tenere i contatti, getta
un messaggio ai Genovesi, che pare un
foglio d’ordini : « ogni giorno adunatevi
in gran numero... e manifestate il vostro
sdegno, gridate la vostra minaccia... Alla
riscossa, popolo di Genova! Italiani, alla
riscossa ! »
Ma la minaccia illividisce il cielo come
un temporale imminente, e Roma si agita,
lo spirito del poeta è entrato nella mol­
titudine come un lievito, l’ha resa sensi­
45
bile come carne ferita: l’uomo che un
giorno aveva tracciata con stile duro la
vita di Cola di Rienzo, dovette sentir ri­
vivere in sè la potenza e l’autorità tribu­
nizia del veto. Quello stesso 13 maggio
il governo di Antonio Salandra si di­
mette : passa per l’Italia un’ondata di sgo­
mento : è la neutralità insuperabile ? è
l’ignominia? Tutta Roma ribolle: le vie
sono percorse non più da folle, ma da
bande risolute : qua e là si levano le pri­
me barricate. Quella medesima sera il
poeta arringa di nuovo « il popolo in tu­
multo ». Il dubbio del tradimento che era
soltanto come « un orribile odore» è di­
ventato una certezza che stronca l’anima
con tuttto il suo « peso obbrobrioso »: il
poeta stesso ora incalza il popolo all’a­
zione, lo guida, gli segna le mète ; e as­
sume su di sè la responsabilità della ri­
bellione aperta, armata: « se considerato
è come crimine incitare alla violenza i
46
cittadini, io mi vanterò di questo crimine,
10 lo prenderò sopra me solo ». Il suo
discorso è guerresco : ha lo stridere aqui­
lino di quelle brevi parole che il Duca
D’Aosta soleva poi in piena campagna
gridare, come strappandosi il fegato a
brano a brano, alle sue chiuse falangi di
elmetti grigio-verdi; e c’è già l’ansia di­
sperata della marcia di Ronchi, che ge­
nerò poi la marcia su Roma : ogni pe­
riodo è per chi ascolta come un col­
po di maglio; e tra l’una e l’altra romba
s’ode l’ansito della folla ebbra di quel-
l’ incitamento : « Ascoltatemi. Intendete­
mi ».... - « Udite ! ».... - « Udite? ».... -
« Intendete ? Avete inteso ? » : pare che
11 poeta abbranchi il popolo con due pu­
gni artigliati e lo scuota : « Nella Roma
vostra si tenta di strangolare la Patria
con un capestro prussiano maneggiato da
quel vecchio boia labbrone le cui calca­
gna di fuggiasco sanno la via di Berlino ».
47
E’ il sarcasmo tragico che si vedrà ri­
balenare sulla moltitudine a Fiume negli
originali dialoghi del poeta e della folla.
Come gli rispondesse il popolo di
Roma, il D’Annunzio stesso ha raccon­
tato in una tra le più belle pagine del « Not­
turno» con una commossa sincerità umana.
La sera del 14 maggio al Teatro Co-
stanzi, gremito, egli appare d’improvviso,
sale sul palcoscenico.
Davanti alla moltitudine che ascoltò
in un silenzio impressionante, con una
sola faccia di mille facce sbiancate dalla
sofferenza, e che poi scattò in un urlo
di sdegno, egli pronunciò l’accusa pub­
blica.
La sua voce metallica disegnava le
parole spietate con la nitidezza d’un
ferro di chirurgo: «Udite. Udite. Gra­
vissime cose io vi dirò, da voi non co­
nosciute. State in silenzio. Ascoltatemi.
Poi balzerete in piedi, tutti ».
48
Egli rivela che il 4 maggio, la vigilia
di Quarto, la Triplice era stata dichiarata
« decaduta e nulla » e che s’erano già
presi « impegni gravi » con le nazioni al­
leate; e che Giovanni Giolitti, pure in­
formato di tutto questo, aveva tentato di
sostituirsi al Governo responsabile, trat­
tando l’abdicazione della volontà nazio­
nale con Bulow : « Egli dunque tradisce
il Re, tradisce la Patria ; contro il Re,
contro la Patria, serve lo straniero. Egli
è colpevole di tradimento, non per un
modo di dire ingiurioso, non per eccesso
di frase polemica, ma in realtà, ma in
verità, secondo la figura nota di esso
delitto ». E impone di « armarsi di tut­
te le armi » — e non rifugge nem­
meno dal pensiero della insurrezione
sanguinosa : « Perciò, ripeto, ogni buon
cittadino è soldato contro il nemico
interno, senza tregua, senza quartiere.
Se anche il sangue corra, tal sangue
49
4
sia benedetto come quello versato nella
trincea ».
E’ l’uomo di Fiume : esatto : ognuno 1°
giudichi come può e vuole, e sa; ma
nessuno potrà dire che egli si sia smen­
tito o tradito.
11 15 maggio sa che gli studenti del-
l’Ateneo sono « adunati per deliberare la
violenza»; non può intervenire; manda
un messaggio: lancia tra loro l’ombra di
Oberdan, rievoca loro la « battaglia su­
blime di Calatafimi », congiunge i loro
cuori, con i cuori degli studenti Geno­
vesi : « appiccate il fuoco ! Siate gli in­
cendiarli intrepidi della Grande Patria ! »
Ancora una volta tenta di allacciare con
le loro stesse arterie le due città che ha
inebbriate della sua febbre.
Passano le ore negli «estenuanti indugi»;
la politica tentacolare si travaglia a cercare
con palpamenti e avvinghiamenti vischiosi
la risoluzione della crisi parlamentare.
50
Il 16 maggio il poeta (è l’anniversario
della marcia garibaldina da Calatafimi a
Palermo) parla agli artisti: forse la folla
è altra da quella dei giovani e del po­
polo, forse lo umiliano i troppo lunghi e
anguillosi tentativi politici; è meno ispi­
rato, meno fremente: una sola verità gran­
dissima balena sopra la sua breve ora­
zione : la gente latina « è l’artefice chiara
delle stirpi confuse. In lei soltanto la ma­
teria immensa e incandescente della nova
vita troverà i grandi conii perfetti ».
Anche oggi ci specchiamo in queste
parole e sentiamo che si avvereranno nei
secoli.
Un corteo tumultuante ha traversata
Roma.
Il 17 maggio è la giornata epica: la
sua eloquenza diventa una colata di bronzo:
il popolo l’ascolta in una esaltazione pro­
fetica. Egli richiama ancora una volta le
glorie di Roma e le glorie garibaldine ;
51
definisce l’atteggiamento del Re, prepara
gli spiriti all’adunata imminente della Ca­
mera, da cui vuole esclusi i traditori ; a
ogni suo grido che saluta una virtù della
Patria « il popolo unanime risponde con
una immensa acclamazione, dalle scalina­
te, dalla piazza, dalle vie »; e quando
qualcuno reca al poeta la spada di Nino
Bixio ed egli, con parole di gloria, la snu-
ba e la bacia, « una nuova immensa ac­
clamazione sale nell’aria accesa dal tra­
monto. Il grido : « Guerra ! Guerra ! »
supera ogni altro clamore » e mentre il
poeta, ormai duce di un popolo, esclama:
« O Romani, è questo il vero parlamento.
Qui oggi da voi si delibera e si bandisce
la guerra. Sonate la Campana», davvero,
come mossa dal vento di quella ebbrezza,
la campana del Campidoglio si mette a
sonare a stormo : « tutto il popolo, sotto
il rombo, acclama la guerra ».
Il 20 maggio egli conforta ancora e
52
ammonisce il popolo che s’accalca intor­
no a Montecitorio, in un’ansia fosca; e
quando esce dall’aula dove il parlamento
ha ritrovato se stesso, e la sorte è stata
affrontata, egli ancora arringa la moltitu­
dine: rievoca un anniversario miracoloso :
la battaglia di Montebello in cui gli Ita­
liani, 5.000 contro 20.000, attaccano a
ferro freddo gli Austriaci e li fugano ; e
getta il grido ancora una volta profetico :
« La vittoria è di coloro che nella vitto­
ria credono, che nella vittoria giurano.
Noi crediamo, noi giuriamo di vincere».
11 23, il duca d’Avarna comunica al
Governo austriaco la dichiarazione di
guerra dell'Italia.
Nell’alba del 25, Gabriele D’Annunzio
chiude con un fermo sigillo la sua vigilia,
parlando ai compagni: è l’addio prima
dell’azione ! Egli celebra il silenzio di
Roma che significa duro proposito, si
vota con sincerità commossa alla morte;
53
si libera per l’azione : « Ecco l’alba, o
compagni, ecco la diana; e fra poco sarà
l’aurora. Abbracciamoci e prendiamo com­
miato. Quel che abbiamo fatto è fatto.
Ora bisogna che ci separiamo e che poi
ci ritroviamo. 11 nostro Dio ci conceda
di ritrovarci o vivi o morti, in un luogo
di luce ».
54
PARTE II.
L ’ A Z I O N E
Le parole di congedo sono state pro­
nunciate il 25 maggio : sono un taglio ri­
soluto, netto — fra la preparazione e
Tazione. Ora non c’è nell’anima del Poeta
che una volontà e una necessità: essere
il primo nel sacrificio come è stato il
primo nell’incitamento : da questa fine di
maggio al novembre 1918, e poi ancora,
fino alla Marcia di Ronchi, la sua vita
è dominata da questa legge : avvalorare la
parola con l’atto; trasformare il verbo in
carne.
Ci potrà essere stato il desiderio della
gloria, la voluttà del rischio, il sapore
dell’avventura : tutteT quel che si vuole ;
ma c’era sopra ogni cosa questa fonda-
mentale espressione di onestà civile, che
resterà nella storia del nostro popolo co­
57
me un esempio raro a tutti gli apostoli e
a tutti i profeti : adempiere per primo e
con più rigorosa obbedienza, il dovere
esaltato nell’inno ed imposto nell’orazione:
essere veramente un Capo; il quale sa
che i gradi d’una gerarchia poggiano non
tanto sopra un crescere di potere, quanto
sopra un giganteggiare di responsabilità.
Ma l’atmosfera ardente della guerra
non è riuscita a liquefare le croste dei
sistemi intorno all’intelligenza negli «abi­
tuali » : e i ministeri sono ancora, come
in tempo di pace, diffidenti, prolissi, ca­
sisti : il poeta deve consumare gli ultimi
5 giorni di maggio e la prima quindicina
di giugno ad ottenere l’arruolamento re­
golare nell’esercito.
Luigi Cadorna, che ha compreso l’im­
portanza di questa volontà d’azione pronta
ad ogni scatto, e di questo fermento ca­
pace di far lievitare le moltitudini ar­
mate, come già ha sommosse le folle,
58
consente, in una lettera del 25 maggio, col
desiderio del poeta di essere diretto par­
tecipe dell’impresa « alla cui preparazione
Ella ha portato un alto contributo ideale »;
ma bisogna riconoscere che nessuno,
nemmeno i più illuminati, hanno ancora
compreso di che cosa sarà capace l’uomo:
il Cadorna stesso, nella medesima lettera,
disponendo che il D ’Annunzio «sia desti­
nato al Comando dell’Armata che opera
agli ordini di S. A. R. il Duca D’Aosta >,
parla, sì, d’un « contributo d’opera e di
pensiero, ch’io reputo prezioso », ma crede
che il poeta si recherà via via « presso i
comandi delle varie Armate, per assistere
agli atti che si verranno svolgendo sul­
l’intera fronte dell’esercito», — e ha
« la certezza che la vita così vissuta
a contatto con la parte operante dell’E-
sercito suggerirà al poeta, a guerra ulti­
mata, il proposito di narrarla ».
Ma gli impiegati del Ministero non
59
condividono nè le maggiori nè le minori
speranze, e s’attardano in ricerche di do­
cumenti regolari e di convenienze legali,
tanto che il D’Annunzio, dall’ansia all’im­
pazienza alla collera, irrompe in lettere
amare a S. E. Antonio Salandra, una delle
quali — del 18 giugno — accenna già
velatamente a quel lavorìo di nemici in­
terni che il poeta ha già intuito, e che
porterà al Paese tanto disonore e tanta
rovina: « E’ la prima volta che iò chiedo
qualcosa al Governo del mio paese, e
non chiedo se non di servire » (par di
cogliere il gesto iroso della mano che sot­
tolinea la frase !) « Alla mia offerta si op­
pongono piccole formalità che, nel mio
caso riconosciuto « particolare » dal Co­
mandante Supremo, non hanno alcuna
importanza ».
« I giorni passano, e io sono qui nel­
l’inerzia, mentre tutti mi attendono là dove
io debbo essere». « Forse i burocrati del
60
Regno d’Italia desiderano che io ritorni
nella Landa remota. Ritornerò alla soli­
tudine dopo la guerra. Ma penso che la
lotta anche quella ideale, sia da prose­
guire ; e in proposito Le rivelerò qualcosa
di molto grave, quando Ella potrà rice­
vermi ».
Finalmente, il 19 giugno, nello stesso
bollettino che nomina Guglielmo Marconi
tenente di complemento in un battaglione
ciclisti, Gabriele D’Annunzio è nominato
tenente di complemento dei Lancieri No­
vara, e assegnato al quartier generale di
Filiberto di Savoia.
La sua fede « apostolica » dà ancora
qualche sprazzo: il 24 giugno, alla folla
di sei mila persone che s’aduna a Parigi
nel Trocadero, per celebrare l’anniversario
di Solferino, rammentando in un bellis­
simo telegramma che in quella battaglia
dei popoli fratelli « nella rotta austriaca
ebbe parte un fierissimo temporale che
61
lottò dal cielo con i nostri », sentenzia
con gioia : « il sole è sempre con i La­
tini ».
Ma ormai le espressioni di oratore di­
ventano secondarie; egli parte incontro
alla guerra e alla morte e per questo,
come ogni fante italiano, come il Fante
di Eugenio Baroni, nel monumento del
San Michele, anche lui va a prendere il
commiato dalla sua madre mortale: il
« Notturno » rievoca quel momento con
schietta commozione: accolto in trionfo
a Pescara, cerca d’isolarsi, — risale con
devota umiltà le scale della sua vec­
chia casa, traversa le stanze piene dei
ricordi della sua infanzia, va a prostrarsi
davanti alla santa che lo benedice nella ca­
mera nuziale, presso il talamo in cui egli
è nato: è l’il luglio.
Il 12 riparte in automobile per Roma;
il 15 ha l’ultimo contatto con la folla del
vecchio mondo, la quale l’ha riconosciuto,
62
mentre egli, alle porte dell’albergo, s’im­
barca per Mestre, e gli leva intorno un
rumore d’applausi che forse infastidiscono
l’uomo ormai liberato da ogni ricordo
della vita « di prima » e armato spirito e
corpo per la battaglia: il 20 luglio dona
a Ferrara il manoscritto della Parisina :
altra separazione dalle memorie, e altro
gesto per accendere altari di fede ita­
liana: ma il dono è già datato dalla
fronte.
Le prime prodezze sono sul mare :
l’Amarissimo da lui tante volte agitato, il
mare delle « Odi Navali » e della « Nave »
non è più finalmente un mare imbelle :
ed egli vi accorre come per sciogliere
un voto : nell’anniversario di Lissa (sarà
sempre del suo stile di guerra legare i
suoi atti più prodi alle date più grandi,
fauste ed infauste, della storia d’Italia) sul
cacciatorpediniere Impavido, col capitano
63
di fregata Pietro Orsini — posa uno
sbarramento di torpedini contro la costa
nemica : e ripeterà l’azione pericolosa ¡1
19 agosto. La sua vita s’immedesima sù­
bito con quella del popolo combattente:
egli non si accrocca agli alti comandi :
scende tra i fanti della terra e del mare:
convive con loro: piega per loro in ar­
ringhe soldatesche la sua armoniosa elo­
quenza: il 22 saluta un reparto di mari­
nai che parte da Venezia per la linea ;
li invita a vendicare con un’azione pru­
dente e audace l’Amalfi e la Garibaldi
pugnalate a tradimento ; e già fin d’allora
si sente che la sua figura, giganteggiando
nell’opera civica e poi in queste prime
mosse di guerra, assume caratteri leggen­
darii: l’Austria lo vede come un incubo
sopra il suo cielo; con un bando eroi­
comico proibisce in tutto l’impero la rap­
presentazione di qualsiasi « pellicola girata
in Italia dopo il 23 maggio» perchè tutte...
64
sono opera « d’un nemico accanitissimo»:
Gabriele D ’Annunzio.
E in vero egli si prepara ad essere
un’ala sul cielo nemico. Mentre la con­
vivenza con gli ufficiali di marina e i ma­
rinai gli si salda in una fraternità che lo
onora, ed egli si accinge, in mezzo a
questi fratelli, alle prodezze dell’ottobre,
comincia — altro segno di coerenza —
a delinearsi in lui poeta, la visione d’una
necessità più alta: egli deve essere sulle
battaglie, non più per una immagine d’inno,
ma in una realtà storica, l’arcangelo che
annuncia e stermina: già forse prende
linee sicure nel suo pensiero quel pro­
getto di battaglia concorde della terra e
del cielo, di cui un giorno detterà le nor­
me strategiche e tattiche, e che effettuerà
con una così geniale larghezza di prepa­
razione.
Ma intanto egli vuol portare a Trieste
un primo messaggio per le vie dell’aria.
5
65
E senz’altro inizia l’allenamento con
quel Tenente di vascello Giuseppe Mira-
glia, comandante della stazione degli idro­
volanti di Venezia, il quale sarà per troppo
breve tempo il suo compagno perfetto,
e diventerà uno dei più caldi rimpianti
della sua vita, e avrà monumento perenne
d’amore e di gloria nel «Notturno ».
Ma all’ultimo momento, sulla fine di
luglio, la pigra Roma dei Ministeri tenta
di tarpargli le ali : forse non hanno fede
nell’aviazione marittima, che è alle prime
prove ; forse temono di lasciarlo troppo
esporsi e di perderlo, dando al nemico
soddisfazione e sollievo : il fatto è che
l’autorità militare gli proibisce i voli.
Fu come sfrugonare un ceppo ardente ;
l’ira divampa magnanima in una lettera
ad Antonio Salandra (30 luglio) in cui il
poeta scatta: « Come è dunque possi­
bile, a proposito di me, parlare seria­
mente di « vita preziosa », del dovere
66
«di non esporsi », e di simili «luoghi co­
muni » ?... « Ma io non ho vissuto, mio
caro e grande amico, non ho vissuto se
non per questo momento. Togliermelo è
menomarmi, mutilarmi, annientarmi »...
11 divieto è tolto : e il volo si compie
il 7 agosto. Partono alle 3,30 pomeri­
diane : alle 4,40 sono su Trieste : il poeta
ha lavorato tutto il giorno a scrivere di
suo pugno il messaggio, a preparare i
sacchetti sventolanti di fiamme tricolori :
i sacchetti son gettati con una nube d’al­
tre bandiere italiane appesantite di piombi,
tra Piazza Grande e San Giusto : il mes­
saggio annunzia agli irredenti — che non
sanno se non quanto dice al loro cuore
ansioso il rombo della battaglia che or
s’avvicina or s’allontana — le prime pic­
cole vittorie su tutta la fronte dal Tren­
tino all’Isonzo — e giura prossima la fine
del martirio : « l’alba della nostra alle­
grezza è imminente »! Un velivolo au-
67
siriaco sorge in faccia dal vallone di Mug-
gia : proiettili esplosivi si schiacciano a
poppa della macchina italiana : i piloti
rientrano incolumi, le bombe lasciate ca­
dere sui bersagli militari, i messaggi sulle
case pacifiche.
Le azioni dal mare e dall’aria conti­
nuano .intersecandosi, e i discorsi guer­
reschi precedono e seguono le azioni : il
poeta discende in sommergibile e resta som­
merso sei ore all’agguato, risalendo esau­
sto, ma fiero e ilare ; in presenza di Um­
berto Cagni, a un equipaggio pronto per
l’incursione, parla : « E’ necessario scol­
pire la statua della più grande Italia nella
più dura pietra del Carso, in vista del­
l’Adriatico » ; rivola su Trieste per una
ricognizione (28 agosto), e, al ritorno, sof­
fermatosi a Grado, si impiglia nella folla
che lo riconosce e gli si assiepa intorno :
egli la investe con una breve orazione
gioiosa.
68
Trieste non lo rende immemore di
Trento.
Per Trento, come per Trieste, parte un
pomeriggio : del 20 settembre : ma il volo
è aspro : nuvolaglie impressionanti sbar­
rano la rotta ; foschìa compatta : il veli­
volo è squassato dal vento che ne ab­
branca ogni momento la prua ; ma proce­
dono ; finalmente, in fondo a un vortice
di nubi, si scopre la città : in memoria
dei 21 fucilati del Castello nel ’48, sono
gettate 21 copie del messaggio, che è
ampio, rievocatore, promettitore ; fa una
cronistoria fedele e provata dei progressi
italiani sulla fronte ; giura : « Non torne­
remo indietro se dalla Chiusa di Verona
l’Adige non refluisca verso la sorgente ».
La via per il campo è più rischiosa an­
cora, ma più facile : il vento in poppa si
aggiunge al motore ; l’apparecchio è sol­
levato via a 130 chilometri l’ora: pare
una foglia mulinata : shrapnels lo inse­
69
guono il capitano Ermanno Beltramo,
giovine pilota, ma già esperto d’ogni ar­
dimento, confesserà poi di non aver mai
fatto un volo così drammatico sull’orlo
del pericolo.
Nel messaggio a Trento una frase ci im­
pressiona : alludendo all’« obbedisco » di
Garibaldi, prelude a Fiume. « Quella paro­
la, non scritta, ma vivente, sta su ciascuno
di noi non come segno di divieto o di ri­
nuncia ma sì d’incitamento a operare e a pa­
tire cose più grandi che le nostre forze stes­
se. Noi non obbediamo, non possiamo ob­
bedire se non al genio inesorabile che ci
spinge sempre più oltre ». La sera stessa
dell’incursione il poeta parte in automo­
bile e passa metà della notte in trincea :
inizia così una sua lunga visita che egli
compie come osservatore e incitatore, se­
condo le già superate previsioni del Ca­
dorna, lungo tutto il fronte Trentino.
E come l’incitamento valga, dimostra
70
la lettera d’un ufficiale pubblicata T ll ot­
tobre dal « Corriere » : vi si parla d’un
discorso tenuto a un reggimento vittorioso,
nella cerimonia della consegna d’una meda­
glia d’argento al Generale Zanchi e del gran­
de effetto prodotto sulle milizie ascoltanti.
La visita al fronte si stende via via a
tutte le linee della Carnia, del Goriziano,
del Carso ; ma non cessano i voli : il
21 ottobre, con una squadriglia da bom­
bardamento, superando vento e nebbia
avversi, il D ’Annunzio si abbassa audace
e lancia le sue bombe sul campo d’avia­
zione di Aisovizza. Ma farà di più: l’a­
zione è la sua vera espressione: la sua
prosa s’è rinnovata, s’è fatta quasi metal­
lica; ma non può eguagliarsi alla musica
delle armi.
Mescolatosi ancora più con i marinai,
li accompagna ed assiste nel tumulto della
battaglia, con una cooperazione che pare
l’allenamento alle gesta del Faiti e del
Timavo.
71
Parlando di Umberto Cagni nel « Not­
turno » il poeta stesso si lascia sfuggire
un grido di orgoglio : « Egli sa quel che
io feci, coi marinai, nell’ottobre del 1915 » ;
e a Milano, nel teatro alla Scala, il 19
gennaio 1916, esclamerà: « Nelle gior­
nate sanguinose di ottobre ero in quella
mite Isola Morosina tutta dorata e tre­
mula di pioppi, divenuta un inferno di
fragore, divenuta la più grande e potente
nave d’Italia, munita di cannoni navali
serviti dai nostri marinai che compiono
ogni giorno gesta sublimi ».
Infatti il Cagni, che era a Venezia con
la sua divisione, smantellava dei cannoni
di grosso calibro, momentaneamente inu­
tili, certe navi e l’arsenale e, come egli
narra in una lettera, mandava i suoi
uomini a portare e piazzare i pesantis­
simi pezzi, nei pantani e nei canneti
della laguna, più vicino che fosse pos­
sibile al nemico : era un disegno ge­
72
niale ed eroico : avveniva come se si fos­
sero ancorate navi insommergibili a tiro
della costa nemica ; ma bisognava scavare
a braccia i canali per il passaggio dei grossi
pontoni che portavano gli affusti e le boc­
che. L’orlo della laguna e gli isolotti diven­
tavano un’ossessione per i nemici che con­
centravano su quella terra bassa il loro
fuoco più rabbioso. Le prodezze dei no­
stri uomini si succedevano superandosi
d’ardimento : il poeta era sempre tra uffi­
ciali e marinai, presente dove, sulle artiglie­
rie scatenate, infieriva di più il bombar­
damento nemico, a consolare, a incitare,
a sospingere con la parola i reparti, a
raccogliere con le braccia i feriti, a sor­
reggerli durante le medicazioni in una
commovente dedizione.
Ma la sua vena di poeta non ri­
stagna : nelle pause della battaglia egli
evoca le grandi Ombre, gli Dei e i De­
stini, e canta al cuore della Nazione il can­
to della fede e del sacrificio.
73
Il 2 novembre pubblica sul « Cor­
riere » : « Tre salmi per i nostri morti » :
il modo metrico è un suo modo di guerra,'
che riadoprerà sovente, perchè molto a-
datto a contenere senza necessità d’ar­
tificio i getti improvvisi : sono versetti
biblici liberi da ogni costrizione di rima,
di verso e di strofe ; ma la libertà è
solo apparente : fermenta nei disuguali
periodi una voglia di canto che pare abbia
vergogna di mostrarsi : in effetto non si
capisce come questa forma si sia creata :
gli endecasillabi di tanto in tanto ondeg­
giano colmi innalzandosi, e poi si rove­
sciano in se stessi come cavalloni marini
dentro un mareggiare di prosa musicale ;
ma sono essi interrotti dalla fretta che
non permette troppo lunghi indugi all’ar­
tefice, e si hanno quindi ondate di canto,
tra le quali il poeta ha lasciata fluire la
prosa, — oppure il poeta ha voluto espri­
mersi in prosa, per bisogno di farsi umile
74
e disadorno, ma contro la sua stessa vo­
lontà, la prosa s’è innalzata, per il pre­
potente impeto dell’ispirazione, in sonori
versi, e ne sono balzate inconsciamente
le strofe compiute, per riatterrare in per­
fette cadenze ritmiche ?
I Morti sono glorificati e santificati con
una certezza impressionante della vittoria
(siamo nel 1915), pur nella consapevolezza
ormai piena delle crescenti difficoltà e della
vastità del sacrificio inevitabile ; e note
profetiche audacissime, come l’ accenno
alla spartizione delle terre e dei mari dopo
la guerra, e la grandezza e il peso del­
l’ossame del S. Michele, si legano a mo­
tivi musicali e poetici, come le carezzanti
parole d’amore per Zara, che ritroveremo
in una musica più spiegata e raggiante
nel cantico per l’Ottava della vittoria.
I Salmi sono compresi dal popolo e
ammirati ; Genova li vorrebbe ascoltare
detti alla moltitudine ; ma il D’Annunzio,
75
che non vuole nè dimenticare nè sciupare
i giorni di Quarto, promette che scriverà
per Genova un canto nuovo: e il 10,
nella Superba, aristocrazia e popolo, cir­
condano la prima volta con un abbraccio
d’amore i feriti e i convalescenti e, al
Carlo Felice — nello stesso luogo in cui
un giorno Goffredo Mameli aveva lanciato
alla moltitudine il suo Inno « Fratelli d’I­
talia » ancor caldo dell’incudine — ascol­
tano la prima delle « Preghiere dell’Av-
vento », pronunciata, dopo i « Tre Sal­
mi », dalla voce di pianto e di canto
d’Italia Vitaliani : « Per i morti del mare » !
In maschie strofe saffiche si evocano i
morti colati a picco dal tradimento, e par
che singhiozzi lo stesso dolore virile e si
incupisca la stessa nostalgia della battaglia
navale non combattuta, che agita i carmi
per l’Ammiraglio di Saint-Bon delle Odi
Navali : dai fondi marini gli eroi atten­
dono che Roma li chiami al resurressi.
76
Indimenticabile giornata : la voce del
poeta ha ancora la virtù suscitatrice del
maggio.
E non resta.
Per il palazzo comunale di Cervignano,
la prima città liberata, detta una epi­
grafe; per Zara prepara un disegno con la
pianta della città e l’autografo di un passo
dei « Salmi » ; per la Serbia scrive la sca­
bra ode « imbevuta di sangue » che egli
sa intonare così bene all’epica popolare
di quel popolo primitivo — e che la cen­
sura gli mutila cautamente ; ma egli se la
stampa per conto suo, integra, e la dona
agli amici.
Una febbre improvvisa lo obbliga all’i­
nerzia, gli fa pregustare i lunghi martirii
morali e fisici del Notturno ; ma una feb­
bre più maligna gli è inoculata dagli av­
versari della guerra.
Un deputato socialista, in pieno parla­
mento, e proprio mentre il poeta dà prove
77
così chiare della sincerità della sua fede,
gli lancia in viso l’accusa che egli ha
mercanteggiato il suo ritorno dalla Fran­
cia, ed è venuto a Quarto accompagnato
da donne, facendo mantenere sè e le a-
miche dall’ospitale Comune.
Ne nasce un’incresciosa polemica, che,
secondo il nostro costume di frugatori
delle nostre ferite, si trascina per i gior­
nali : per quasi un mese il tanfo del pet­
tegolezzo ci ammorba : il poeta è obbli­
gato a intervenire un paio di volte con
scudisciate : l’8 dicembre egli afferma (e
si nota, perchè questa è un’altra testimo­
nianza della sua preveggente fede) : « Io
non ho mai pensato di lasciare l’italia
dopo la guerra. Ritornai nell’ora del pe­
ricolo per dare alla mia patria tutto me
stesso. Resterò nella mia patria per lottare
con tutte le mie forze contro il nemico
interno, che, come l’esterno, deve essere
perseguitato e annientato. Io ho nell’una
e nell’altra vittoria una fede ¡robusta^».
78
Finalmente chi scrive queste note potè
recare una prova che troncò la polemica
di colpo, dimostrando la falsità e la mala
fede dell’accusa.
11 12 dicembre esce la seconda delle
Preghiere dell’Avvento : « Per la gloria ».
E’ d’una quasi rabbiosa violenza pro­
fetica : rappresenta in sintesi epica il pe­
riodo della neutralità : da una parte gli
incitamenti quasi ostili dei futuri alleati,
dall’altra gli sconci blandimenti senili degli
alleati d’allora e del servidorame romano :
l’Italia che attende in ambascia, meditando
la sorte, pare nel canto una statua di
bronzo ; quando si slancia, come leo­
nessa nella lotta, la strofa si dilata e ac­
cende : e il grido profetico affiorato già
nei « Tre Salmi >, sfugge al poeta che
già (1915 !) ha noverati i morti e presen­
tita la dimenticanza dei popoli camerati :
« Di poi verranno i savii partitori —
e distribuitori della terra ; — sicché cia­
79
scuno, giusta la sua guerra, — godrà la
parte e succerà gli onori. — Ma tu fa,
Dio d’Italia, che al tuo cenno — gettiam
nelle bilancie lor cortesi — un ferro ancor
temibile, che pesi — più della spada bar­
bara di Brenno ».
Non è ancora il poeta della « Canzone
dei Dardanelli » e dell’« Ode alla Na­
zione Serba » ? non è già il poeta della
Marcia di Ronchi e di « Contro uno e
contro tutti » — sebbene permanga in
lui così serena la fede nella rinascita e
nella missione latina nel mondo ?
E l’avvenire, costantemente aperto da­
vanti ai suoi occhi, illumina le strofe ;
dopo avere scritte altre « Preghiere »,
« Per il Re », « Per la Regina », getta
giù la più maschia : quella « Per il Ge­
neralissimo » il quale gli pare, in figura
e in spirito, più grande del Colleoni, e
fin d’allora, gli si mostra, come poi tutti
lo vedemmo, ritornante alla sua Pallanza,
« sol di silenzio pago ».
80
La frase non poteva ancora significare
l’amarezza che traboccò nella lettera scritta
dal Cadorna l’8 ottobre del 1923 : ma i
poeti hanno infallibili presentimenti.
Il 21 dicembre è una delle più tristi
date della sua vita.
Giuseppe Miraglia, in un volo di prova
nel cielo di Venezia, precipita, e muore
insieme con Giorgio Fracassini. Egli era
l’eletto dal destino a compagno di pro­
dezze del Poeta : colui che poteva dire :
« Se proponessi a Gabriele D’Annunzio
di volare su Vienna, risponderebbe sem­
plicemente : « Andiamo » ; si siederebbe
sul seggiolino e non si volterebbe più in­
dietro ».
Formavano « la coppia virile, la coppia
da battaglia, conduttore e feritore », vo­
tati com’erano con eguale serenità e de­
cisione alla morte : « la necessità eroica
della coppia alata, quando sia sopraffatta,
è l’arsione totale ; — sapevamo che la
81
nostra impresa era disperata — e non
desideravamo di sfuggire alla bella sorte ».
Si preparavano : il poeta vuol gettare,
in una incursione su Zara, un appello agli
Italiani della Dalmazia : è un desiderio di
consolarli, ed è il bisogno di un’ideale
presa di possesso di fronte ai nemici e
agli alleati : è già preparato il sacco dei
messaggi « come quelli di Trieste » ; su­
perate le solite limitazioni odiose degli
uffici, i due fratelli hanno già allenato
anima e corpo in parecchie incursioni ae­
ree sulla costa nemica dall’agosto al di­
cembre : hanno infine scelta la data : il
23 ; ma il 21 il sogno si spezza.
La prima parte del « Notturno » è tutta
premuta dal dolore del poeta per quella
morte.
Egli vorrebbe tuttavia eseguire l’incur­
sione ; gli pare che, se non compirà l’atto,
sconsacrerà la fede : e la sua ira è sopra
tutto contro la morte che gioca a rispar­
82
miarlo : già una volta Alfredo Barbieri è
stato mitragliato nel capo, sedendo al po­
sto esatto che avrebbe dovuto occupare
Gabriele D ’Annunzio, se un incidente non
gli avesse impedito di partire : egli re­
spira l’atmosfera delle morti sublimi e delle
resurrezioni, e vorrebbe essere nel nu­
mero di questi consacrati : Luigi Bailo,
Oreste Salomone.
Ma il volo su Zara gli è vietato.
Egli non si disanima, e continua a
prodigarsi nei voli alterni dell’ala e del­
l’ispirazione : col tenente di vascello Bo­
logna compie una lunga serie di fruttifere
ricognizioni sulla costa istriana, e pubblica
frattanto a celebrazione della Notte di
Natale una lirica nuova : « Il Rinato » :
Gesù nasce in trincea, è fasciato nelle
fasce da piedi ; soffre tutti i disagi, ma
« colui che è il più forte era il suo nome ».
La sua poesia frattanto s’espande e mo­
stra d’essere veramente seme eroico : L’O ­
83
de alla Nazione Serba è tradotta dai pri­
gionieri serbi del Castello di Cavi in Li­
guria, i quali una strofe v’aggiungono per
fraterno compenso : l’ultima : « Iddio con­
servi il poeta latino — e ne diffonda la
gloria nel mondo — fin che il bosco s’a-
dorni d’alloro, fin che vi saran canti ed
eroi » : e promettono al cantore, nei modi
della loro lirica barbara, due focacce per
il suo pane di gloria... Chi se le divorò
nei giorni delle trattative di pace ?
Trieste è sempre la prediletta delle sue
incursioni : il poeta rivola su San Giu­
sto il 17 gennaio 1916: in un caldo
messaggio annuncia la morte di Timeus,
Venezian, Slataper, Pitteri : ripromette più
saldo la liberazione ; al ritorno lascia ca­
dere sulla piazza San Marco di Venezia,
alla folla, un messaggio di risposta della
sorella schiava.
Potranno parere « gesti », se pure com­
piuti nel rischio e con valore ; ma il sor­
84
riso degli scettici si spegnerà quando essi
sapranno che a Trieste, nella stessa sera
in cui era stato gettato, il messaggio, non
ostante gli occhi irrequieti ed aguzzi di
poliziotti e di spie, correva segretamente
la città in un’edizione poligrafata di 10.000
copie, letto avidamente, si vorrebbe dire
mangiato avidamente, come pane dell’a-
nima affamata.
Ma il pensiero dei fratelli insidiati dal­
l’Austria non faceva dimenticare al poeta
quelli che insidiava il disfattismo. Il 19
gennaio viene a Milano in automobile da
Venezia, invitato a leggere alla Scala le
due nuove « Preghiere per i Combattenti
e per i Cittadini ».
Si può immaginare la folla : il teatro è
un vortice umano.
Egli parla : ancora una volta profeta, af­
ferma : « Anzi io dico che da oggi le sorti
della guerra, non tanto dipendono dalla
prodezza dei soldati, indubitabile, quanto
85
dalla pertinacia dei cittadini » ; — «ogni
cittadino sia un combattente » ; l’entusia­
smo dei Milanesi rammenta quello dei
Romani nel maggio al Costanzi : si ven­
dono suoi manoscritti per gli orfani di
guerra ; il popolo si riversa in città ri­
temprato alla resistenza ; il poeta riparte
il 20, per andar a inaugurare un ricordo
marmoreo al Miraglia.
Ed ecco che, nel mezzo della sua ope­
rosità più febbrile ed efficace, il destino
gli ritraversa la strada.
In un periodo di fervore grandissimo,
durante il quale si prepara al volo su Lu­
biana, e dopo che ha assistito alla ceri­
monia della consegna della medaglia d’oro
al capitano Salomone — durante una delle
tante rischiose ricognizioni su Trieste e
l’Istria, è costretto ad atterrare, con l’i-
drovolante pilotato dal tenente di vascello
86
Bologna, in vicinanza del nemico : nel­
l’ammarraggio l’apparecchio ha un urto
d’estrema violenza : il poeta è ferito al­
l’occhio destro : gli si produce un ampio
distacco di rètina con una pericolosa e-
morragia retinica. Egli non se ne pre­
occupa, e vuol compiere la sua mis­
sione : tornato, non soltanto non si lascia
nè curare nè visitare, ma riprende due o
tre volte i voli, fin che non s’accorge che
l’occhio gli s’è spento del tutto. Allora si
concede ai dottori.
La sua prima sosta è in un ospedaletto
da campo, « su la riva dell’Ausa, nericcia
come una gora di gualchiere » : i ciechi
e i feriti agli occhi, tutti bendati, gli si
accalcano intorno : mormorano : lo chia­
mano per nome, lo palpano : uno dice
con una indefinibile voce di dolore e stu­
pore : « Questo è quell’uomo ».
Nel «Notturno » la rievocazione di quel­
l’ora è una delle pagine più belle, pure.
87
11 poeta è trasportato a Mestre il 25
febbraio, poi a Venezia : lo assistono il
prof. Orlandino e il medico d’ Ago­
stino.
La ferita appare subito grave e di gravi
conseguenze, sopra tutto perchè fu tra­
scurata : c’è il pericolo della cecità totale,
specie se il poeta tenterà di rivolare a
grandi altezze.
Pare che il sogno eroico si sfasci e pre­
cipiti, come un velivolo dentro una palude.
Ma Gabriele D’Annunzio ha fede nella
sua volontà di ferro : sa che supererà
anche questo frangente.
E comincia allora il sottile martirio.
Egli s’è raccolto a curarsi a Venezia
nella « Casetta Rossa » del Principe Fe­
derico Hohenlohe — già presa in fitto,
da quando l’Austriaco, sebbene nato a
Venezia e innamorato dell’Italia, ha do­
vuto migrare in Svizzera : è un gingillo
caduto a qualche giovinetta Morgana pe­
88
regrinante a volo sul canale : piccola, ricca,
fragile come una scatoletta di porcellana,
e preziosamente settecentesca « dal cam­
panello della porta, alla gabbia del cana­
rino placcata e dorata ».
Mesi di pazienza eroica, scossa da im­
provvisi desideri d’azione come sopras­
salti della volontà guerriera, tormentata
dalla costrizione all’immobilità e dal de­
lirio lucido, — vita di morto che medita,
e anela alla resurrezione : il poeta l’ha
rappresentata nel « Notturno » con po­
tenza drammatica e con così sagaci a-
nalisi del suo stato fisico e psichico, che
qualche studioso ha potuto considerare
le sue pagine come documento di espe­
rienze scientifiche. « Il capo più basso dei
piedi, i piedi congiunti, i gomiti contro i
fianchi, la bocca aperta e arida, il cuore
ambasciato, avvolto nel torpore, nel su­
dore, nel patimento, nel tedio, nella di­
sperazione », egli subisce i giorni, le ore,
89
i minuti come un peso che Io soffoca ;
ma vuol guarire, e resiste : e non perchè
gli premano salute e bellezza : vuol ri­
prendere le armi : il senso della guerra la
quale è intorno a lui senza ch’egli vi par­
tecipi è la sua vera tortura : qualcuno parla
nella camera attigua alla sua : « Odo il
nome di Patria, e un gran brivido mi at­
traversa ».
Appena la notizia della sua ferita si
diffonde, una pioggia di telegrammi si
rovescia sulla « Casetta Rossa », a pro­
vare quale posto egli abbia occupato nel-
l’anima della nazione combattente: ci
sono i potenti e gli umili, i grandi e gli
ignoti, gli Italiani e gli stranieri: il Ca­
dorna, il Duca D’Aosta, il Salandra, il
Marconi, il Salomone. Il suo stato d’a­
nimo è riassunto nella risposta a Filiberto
di Savoia: « perchè io possa presto ria­
vere l’onore di servire sotto gli ordini del
Capo che deve condurci al di là del
90
Carso a Trieste » : la mente è vigile, il
cuore la scalda; al Salomone risponde
fraterno che si curi anche lui, che ricon­
quisti le forze, e si prepari ; al Presidente
della Lega Aerea Nazionale, che tutti gli
Italiani si iscrivano « accomunati nella vo­
lontà di rendere sempre più vasta e po­
tente l’ala d’Italia»; e, in un poetico
dispaccio al Barrès, dopo avere espressa
la sua ansia per la battaglia di Douamont:
« non impensieritevi dei miei occhi, fra­
tello, ma salvate la bellezza del mondo
per gli occhi novelli ». Trento, Trieste,
Zara gli rivolgono commoventi parole per
bocca dei loro fuorusciti; i marinai del­
l’isola Morosina gli rendono il conforto
che ebbero da lui nei giorni dell’otto­
bre; e, mentre i giornali italiani seguono
ansiosi le vicende della sua cura, quelli
di Francia esaltano l’opera del poeta, ri­
conoscendo schiettamente che egli è stato
anche per il loro Paese un risvegliatore
91
e un incitatore : il « Figaro » gli telegrafa
provocando una risposta in cui il D’An­
nunzio rammenta e documenta la veridi­
cità di sue predizioni che il « Figaro »
stesso ha pubblicate in primavera «in Arie­
te » ; e il Rostand, con movimento di
grazia artificiosa, gli chiede d’oltre le Alpi:
« Sento che siete curato da vostra figlia :
si tratta della vittoria italiana? »
In queste condizioni di corpo e di spi­
rito il poeta riceve l’annuncio della me­
daglia d’argento per le sue imprese tra
il maggio e il febbraio: al Ministro che
lo ha informato il 23 marzo, risponde :
« Trenta anni di amore alla marina hanno
ora il loro suggello »: c’è la gioia ma­
schia dell’uomo che ha attuato eroica­
mente il suo sogno!
E poiché la decorazione fa raffittire i te­
legrammi di saluto e di augurio, egli, a
quanti può, risponde, variando con fresca
fantasia l’espressione d’una medesima osti­
92
nata fede, che è più nettamente incisa
in un dispaccio al « Gazzettino » : «Scrivo
a occhi chiusi, spero di ricombattere a
occhi aperti ».
Da principio il limìo del non poter ado-
prar la penna era stato per il poeta un
insopportabile tormento : « Quando la du­
ra sentenza del medico mi rovesciò nel
buio, m’assegnò nel buio lo stretto spa­
zio che il mio corpo occuperà nel sepol­
cro... dalla prima ansia confusa risorse il
bisogno d’esprimere, di significare ». Gli
era vietato il discorrere ; non poteva vin­
cere con la dettatura « il pudore segreto
dell’arte che non vuole intermediarii fra
la materia e colui che la tratta »; l’espe­
rienza lo dissuadeva « dal tentare a oc­
chi chiusi la pagina». Ma il mito delle
Sibille « che scrivevano la sentenza breve
sulle foglie disperse al vento del fato »,
gli suggerisce d’improvviso la maniera.
E comincia a riempire della sua scrit­
93
tura robusta i cartigli che Renata gli
taglia « in liste... stese sul tappeto della
stanza attigua, al lume d’una lampada
bassa », mentre « il fruscio regolare della
carta » evoca al poeta « quello della ri­
sacca a piè delle tamerici e dei ginepri
riarsi dal libeccio ». «Sollevo leggermente
le ginocchia per dare inclinazione alla ta­
voletta che v’è posata. — Scrivo sopra
una stretta lista.... che contiene una riga.
Ho tra le dita un lapis scorrevole. Il pol­
lice e il medio della mano destra, pog­
giati sugli orli della lista, la fanno scor­
rere via via che la parola è scritta. Sento
con l’ultima falange del mignolo destro
l’orlo di sotto e me ne servo come d’una
guida per conservare la dirittura ».
Così finalmente può liberare il suo
pensiero che si torturava nella clausura,
ed esprimere le visioni che gli s’accendono
nel fondo dell’occhio ferito, con un’eccita­
zione nervosa a cui concorre la ferita stessa.
94
La cura sopportata con la pazienza di
uno stilita par che giovi all’occhio ; ma
appena egli — che a volte ha impeti
di ribellione in cui vorrebbe strapparsi
le bende e saltare a terra — tenta
di alleggerirne i divieti, sul principio di
aprile, il regime deve essere rincrudelito;
le forze non sono più adeguate alla sop­
portazione: l’esaurimento nervoso minac­
cia la vita del poeta. Allora, dopo il cin­
que maggio (l’anniversario dei Mille inon­
da di nuovo di rimpianti e d’auguri la
« Casetta Rossa ») si chiama per un nuo­
vo consulto il Cirincione dell’Università
di Roma : la diagnosi conferma la gravità
della ferita (« inferto ematico sottocoroi-
dale sollevante insieme corolla e rètina »)
e la scienza rimprovera al malato le brevi
fughe dei giorni trascorsi, quando egli si
faceva condurre di soppiatto per qualche
ora in uno dei più bei giardini della Giu-
decca, a respirare se non a contemplare il
95
verde e l’azzurro : tuttavia i medici gli con­
sentono che si rimetta in piedi: soltanto
dovrà camminare lento, cauto, con la fac­
cia sollevata come i ciechi : e soltanto di
sera potrà tentare i primi passi all’aperto.
In queste contingenze gli viene offerta
una seconda volta la consegna della sua
medaglia d’argento: ostinato egli rifiuta
ancora: non la vuol ricevere se non in
arsenale, appena guarito, e pronto ai voli
nuovi : da vivo, non da morto : par che
si sforzi di porsi davanti una mèta.
E continuano le visite, i telegrammi :
gli amici di Francia gli mandano in aprile
lo scienzato Laudolt, che rechi notizie
dirette : quegli non sa se stupirsi più della
gravità dello « scollamento della rètina »
o della pazienza delle otto settimane di
immobilità, ammirevole per un tempera­
mento così irrequieto e avido. E il D ’An­
nunzio può annunciare questa visita al
Capus con una lettera di suo pugno.
96
Nel maggio, l’anniversario della guerra
riaccende intorno al poeta l’attenzione
e la speranza degli spiriti più colti :
innumerevoli i messaggi : caratteristiche
alcune ambascerie come quella dei rap­
presentanti della Scuola Italiana : egli
approfitta d’ogni occasione per svolgere
almeno il suo apostolato di fede e di
forza: ridimostra l’inevitabilità dell’inter­
vento, rievoca la battaglia civile da Ge­
nova a Roma, chiama quei giorni, i più
belli della sua vita: — i giornali diffon­
dono il seme della sua parola.
Ma ecco, scoppia l’offensiva austriaca
nel Trentino: i Tedeschi irrompono oltre le
nostre linee; l’esercito s’accavalla in on­
date contro la minaccia : il Cadorna fa in
poche ore balzare in piedi un esercito im­
provviso, manovra per la controffensiva, ri­
caccia su per le gole l’Austriaco: — la
marea degli elmetti grigi, fiottando di
baionette, refluisce sulle linee del Carso,
7
97
e, come in una vasta ondata di risuc­
chio, passa l’Isonzo, circonda Gorizia, la
scrolla: Gorizia è presa.
Dalla fine di maggio ai primi d’agosto
il patimento del poeta per la sua immobi­
lità diventa insopportabile : le nostre trin­
cee finalmente avanzano: l’esercito cam­
mina: avvenimenti forse decisivi, sono
prossimi ; ed egli non può che aspettare
le notizie : è un escluso : « Le giornate di
Santa Gorizia mutarono ogni ansia ed ogni
impazienza in una disperazione risoluta».
— « Seppi allora quel che significassero
le parole di Michelangelo: « Non nasce
in me pensiero che non vi sia dentro
scolpita la morte ».
Certo l’Italia ha perduto in quei mesi
molta luce di bellezza eroica per l’assenza
del poeta dalla fronte.
Sarà la prima e l’ultima volta.
Ormai tutto fa sperare che la condanna
sia scontata. Sulla fine di giugno, Mau­
98
rice Barrés pubblica a Parigi la narra­
zione d’una visita al D’Annunzio, che
rincora: ha assistito col poeta ai con­
certi della «Casetta Rossa », tenuti da ar­
tisti in grigio-verde; l’ha accompagnato
in una passeggiata romantica nel cuore
notturno di Venezia, fra le tenebre e
i lumini azzurri: i grossi occhiali neri,
il corpo perduto nel largo mantello d’uf­
ficiale, il volto e le mani smagrite dalla
sofferenza, ma la parola sempre più fiera
e vigorosa e colorita: egli è ancora, pur
così logorato, l’animatore della nazione,
colui che « ha precipitato » il destino, «a
grandi colpi di discorsi-odi»; colui che ha
battuto il partito dello straniero, incalzan­
dolo da Genova a Roma.
A questi riconoscimenti s’aggiunge una
gioia intima: la Renata del «Notturno»
che gli agitava l’anima di dolcezza quando
il mattino leggeva a lui cieco i cartigli
che egli aveva scritti nella notte, quella
99
che riempie le pagine del martirio d’una
commozione pura e umana quale il D ’An­
nunzio non rivelò mai così semplice, si
sposa con il Tenente di Vascello Silvio
Montanarella.
E’ il segno della liberazione ? La cu­
stode ferrea e delicata dei divieti si ritira,
perchè i divieti non han più valore?
Il 18 d’agosto infatti Gabriele D’An­
nunzio, in piedi, all’aperto, parla: il suo
occhio può resistere al tremito metallico
della sua parola scandita : egli porge il sa­
luto dei camerati superstiti a un caduto:
all’aviatore francese Jean Ronher: è il
canto della bella morte, cantato da lui
che la morte non volle prendere ; l’inno
al sorriso latino della Francia, che san­
guina sotto il furore tedesco.
E allora tutte le città d’Italia gli chie­
dono la parola che è alimento : egli
promette; promette a Roma l’orazione
inaugurale dell’ esposizione garibaldina :
100
« mostrare al popolo le sublimi reli­
quie è accendere nel paese un focolare
di eroismo » ; promette a Genova l’ora­
zione per Nazario Sauro, che ha cono­
sciuto ed amato e per cui ha tanto tre­
mato d’angoscia.
Ma non manterrà: l’azione lo ripren­
derà tutto fra poco.
Egli si riavvicina alla fronte: a Venezia si
incontra col ministro Scialoia, rievoca le glo­
rie aviatorie dell’Italia e s’accende: a Capo
d’istria visita la vedova del martire, rie­
voca l’Eroe profondamente amico e si
sublima nella aspirazione ad eguagliarlo...
E’ alle soglie della vita nuova.
Le varca.
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PARTE III.
DALLA RESURREZIONE
ALLA VITTORIA
« La data della mia rinascita è il 13
settembre 1916 ».
Egli era guarito, di certo ; ma non
ostante sette mesi di crucciosa inerzia il
« visus » dell’occhio destro era abolito,
« in modo assoluto e permanente >.
E di più una predizione infausta : se vo­
lerà a grande altezza, o gli sbalzi di pres­
sione, o i sussulti e i tremiti della mac­
china gli riapriranno la ferita : e questa
volta soffrirà e poi se n’andrà anche roc­
chio sano : sarà la cecità totale.
Egli assume sopra di sè la responsabi­
lità, e rivola.
In un’azione in grande stile, un’incur­
sione di idrovolanti su Parenzo, riprova
il suo sangue freddo ; ma per fortuna non
105
risente nè delle vibrazioni del motore, nè
del sobbalzar del velivolo in acqua.
« O giornate di Parenzo, pomeriggio
di settembre torbo e chiaro, con qual
segno ti segnerò nella mia tavola votiva?
Conducevo il secondo gruppo dei bom­
bardieri navali: Luigi Bologna, che era
di nuovo il mio pilota, conosceva la mia
prova, e la secondava maschiamente, con
un cuore senza fenditure. Il bordo della
carlinga sulla mia destra, era libero a di­
segno. Avevo preso tra le mie gambe
una giunta di quattro bombe in gabbia,
da lanciare a mano ; e avevo messo con­
tro l’altimetro il pronostico della cecità
subitànea.
« A partire dai duemila metri di quota
feci alternativamente l’osservazione oftal­
mica e la fumata per tenere il gruppo
riunito dietro la mia fiamma blu.
« A tremila metri il monòcolo vedeva.
A tremila e duecento metri vedeva. A
106
tremila e quattrocento vedeva, « pur con
l’uno ».
« Il pilota si voltava a un tratto verso
di me con un cenno; con un cenno gli
davo il risultato dell’osservazione. Dialogo
indimenticabile dell’amicizia guerriera nella
grande altezza »...
Giunto al punto d’attacco « Luigi Bo­
logna calò a milleseicento metri... Nel
brusco cangiamento di pressione, vedevo
ancora». Il poeta si sentiva così lieto,
che lassù « avrebbe potuto cogliere una
stella dell’empireo » e giù al ritorno, gli
parve che i compagni aspettanti, nel sol­
levarlo sopra le loro spalle, lo « esaltas­
sero alla cima della loro gioventù ».
Riaperta la strada al suo ardimento,
sùbito lo riprese la foga dell’animatore,
l’avidità del combattente: come può an­
dare all’inaugurazione della mostra gari­
baldina, che egli vorrebbe tenuta nel ri­
scattato Palazzo Venezia ? Si prepara
107
l’offensiva del Carso : meglio oprare che
parlare : manda il manoscritto de « La
notte di Caprera » chiuso nel fermo di
sicurezza di una delle bombe di Parenzo :
ricorda, come per incitamento a se stesso,
la sua invitta ostinatezza contro l’Austriaco,
e la spada senza elsa donata da Trieste
a quel Menotti che un giorno egli ha por­
tato morto sulla sua spalla : quella spada
vorrebbe recare al Cadorna egli stesso.
Ogni suo gesto, ogni sua parola ha
una vibrazione bellica.
Al padre del Miraglia, celebrato a Na­
poli in memoria dell’eroe, telegrafa: « Egli
è qui con me al suo posto di combat­
tente » ; al Generale Gandolfo, promosso
per le prove del San Michele, manda una
copia delle orazioni « Per la più grande
Italia » ; agli studenti di Busto Arsizio,
che gli chiedono di intitolare a lui il loro
Convitto, risponde che ha gioia dell’atto
sol perchè l’annuncio gli giunge in trincea.
108
Par proprio ch’egli voglia riscattare i
suoi mesi di inerzia.
E siamo giunti infatti al periodo delle
sue prodezze più belle, tra la fine d’ot­
tobre e il principio di novembre : « le
giornate del Vallone, di Doberdò, Quota
265, del Veliki, del Faiti ».
Per evitare il disagio della benda « fa­
stidiosissima nel servizio aereo », si era
voluto per qualche mese tenere alla terra :
accolto come tenente di complemento in
servizio di collegamento nella 111 Armata,
era stato assegnato alla 45a divisione :
l’esercito preparava l’azione : egli prepa­
rava se stesso : e non era facile ! la
virtù visiva sregolata, non misurava più
le distanze : le ineguaglianze ed asprez­
ze del terreno carsico moltiplicavano
la gravità del difetto : quando correva
erano continui inciampiconi e cadute da
cui si rialzava sanguinante, rimpiangendo
le ali : « senz’ali non può ».
109
Nacque allora, dal suo tormento e dalla
costrizione del suo pensiero, quel « me­
moriale » a Luigi Cadorna, nel quale, con
entusiasmo di poeta fecondato da una si­
cura preveggenza pratica, egli, primo, det­
tava le norme per la tattica di azioni com­
binate tra squadriglie di aerei e battaglioni
di fanti : azioni che poi vennero in realtà
condotte con straordinari effetti ; egli non
soltanto seppe allora immaginare una bat­
taglia che a un poeta poteva rammentare
la lotta degli arcangeli che nei poemi
classici sorvola,, incitando e aiutando, la
battaglia degli uomini, — ma precisò di
simile sforzo i piani, e contribuì poi ad
attuarli con sorprendenti doti di soldato.
In quei giorni di preparazione conobbe
il suo ardimento la punta del saliente o-
rientale della 111 armata (San Giovanni,
Quota 28). Ma il suo eroismo si affermò
nelle giornate del Veliki Kribach e del
Faiti Krib.
HO
Nella prima fase in cui l’esercito pal­
pava il terreno dell’azione, egli, acuendo
la vista con uno sforzo della volontà,
si cacciava sempre in prima linea, per o-
rientarsi sulla natura dei luoghi e sugli
scopi del combattimento ; riportava dati
precisi, vedute tattiche geniali ; e frattanto
incuorava i soldati che erano orgogliosi
e rassicurati di quel vederselo sempre ac­
canto operoso, scoperto, intrepido : in una
dolina avanzata parlò ai difensori sotto il
tiro, a pochi passi dal nemico : e i sol­
dati ne furono tanto commossi, che bat­
tezzarono la dolina col suo nome.
Ma quando l’assalto scoppiò con il ro­
vinoso impeto d’una bordata di proiettili,
egli fu tra i soldati a gomito a gomito,
con calma, con sprezzo del pericolo, li
incitò, li sospinse : distribuiva, ritto in
mezzo a loro, parole che mordevano il
cuore, e bandiere che subito sventolavano
sopra la rapina dell’assalto.
i l i
Furono le giornate del 10-13 ottobre;
poi del 1-3 novembre : indescrivibili ; egli
ne uscì promosso capitano per merito di
guerra, e proposto per una nuova me­
daglia d’argento ; ma ne ebbe premio più
grande : tre prose eroiche composte in
esaltazione del suo valore da quel Gio­
vanni Randaccio che fu maestro di ardi­
mento ai più prodi : il fante dei fanti. Fe­
rito al Faiti e portato all’ospedale da cam­
po 031, il Randaccio, il 7 novembre, chiese
un foglio : non c’era : trasse dalle tasche
della sua giubba la carta topografica che
gli era servita per dirigere la battaglia, e
scrisse sul rovescio i tre inni in prosa che
piacquero al poeta più d’ogni altro onore.
11 D ’Annunzio stesso ha dipinta quella
battaglia come in un affresco nell’orazione
« La corona del Fante » rivolta nel 1917
ai suoi compagni superstiti : Ai lupi della
Brigata Toscana: 70° Reggimento, se­
condo Battaglione.
112
« Era la ferie d’Ognissanti... Una bat­
taglia d’oro in una luce d’Oriente... certo,
tutti i santi della Patria avevano gettato
le loro aureole in quel punto dell’aria dove
i soldati balzavano all’assalto. Non s’era
mai veduto tanto rilucere gli uomini, tanto
le cose rilucere. 11 sole s’avanzava come
una trasfigurazione... la dolina... la bocca
della caverna... lo zaino di tela sulla schiena
dei fanti... le croci d’abete splendevano,
le barèlle splendevano, e i dischi della
conquista splendevano come ostensorii. E
più di tutto splendeva il sangue... Le gra­
nate talvolta avevano un suono chiaro di
grandi cimbali percossi. Pareva che anche
gli scoppi si dorassero. Erano talvolta co­
me potenti battute di timpano nell’oro...
Gli assalitori cantavano... I Fanti morde­
vano l’azzurro. La luce moltiplicava d’at­
timo in attimo l’impeto. L’impeto era una
ascensione celeste. La forza rimbalzava
dalla morte... Bastarono cinquanta minuti
113
di ebbrezza. A mezzogiorno il Veliki era
nostro. I prigionieri balbettavano : « Co-
m’è possibile »...
« Si rinnovava il portento del Sabo­
tino... Come la gran lena della nostra vit­
toria superò la groppa feroce precipitan­
dosi giù per i rovesci, così abbandonò
essa dietro di sè il Veliki ignudo e deserto
per correre più oltre ».
Il D ’Annunzio ch’è rimasto sempre in
piedi tra i fanti, seguendo l’assalto nel
suo vortice progressivo, ha data una ben
chiara prova di giovinezza.
Con i compagni ufficiali partecipa al
consiglio di guerra, tenuto dopo il primo
assalto vittorioso in una caverna : « acco­
sciati sul sasso nella cripta selvaggia, la
bandiera spiegata sulle nostre ginocchia...
un solo mozzicone di candela ardeva a
terra... Coi guizzi e colle ombre serviva
a rendere piò crudo, fra mento e fronte,
l’intaglio del proposito in quei volti os­
suti. Quando si spense, ciascuno ebbe la
114
sua luce in sè. Tutti balzammo in piedi,
primo Giovanni Randaccio ».
E mossero alla conquista del Faiti.
Una granata scoppia presso il poeta e
lo ricopre di schegge ricadenti : il Ran­
daccio ordina a un fante che ne stacchi
con la baionetta l’armilla di rame : « ne
faremo una corona per il nostro compa­
gno ».
« Di quella baionetta fu irto l’estremo
saliente del nostro sforzo orientale tra Ca­
stagnevizza e il Vipacco ».
Il 3 novembre il Comandante detta alle
truppe il suo Ordine del giorno conclu­
sivo dell’azione : « Ufficiali, graduati e sol­
dati del secondo battaglione, siete tutti
eroi ».
Si può ben dire che mai come questa
volta la Poesia s’è tramutata in prodezza
in chi l’ha creata e in chi l’ha ricevuta.
La medaglia d’argento è consegnata al
D ’Annunzio il 5 dicembre ; la motivazione
115
dice : « Entusiasta e ardito in ogni suo
atto, l’esempio dato fu pari alla parola e
gli effetti efficaci e completi » : nella rozza
sintassi soldatesca, l’eroismo raggia più
schietto.
Una pausa : non un vuoto.
Il 21 dicembre il poeta è a Venezia,
per le onoranze al Miraglia ; a metà gen­
naio, nei giorni in cui Milano si riesalta
a udire la sua « Preghiera per i cittadini »,
— il colonnello De Gròndrecourt conse­
gna al capitano D ’Annunzio, decorato e
mutilato, la croce di guerra francese, e il
Generale Lyautey accompagna l’offerta
con una lettera da Roma « al grande I-
taliano che predicò una guerra santa dal­
l’alto del Campidoglio... incitò l’eroica le­
vata degli scudi latini... scelse per l’inces­
sante battaglia l’arma più audace e più
rischiosa ».
Il poeta risponde in una concisa ora­
zione, che l’onorificenza gli è il segno più
116
ambito da un combattente, perchè « è
quello medesimo del quale si fregiano i
petti che sulla Marna miracolosa e nei
carnai sublimi di Verdun hanno salvato il
volto del mondo ».
Ma ecco un dolore.
Il 27 gennaio 1917 la madre del poeta
si diparte da lui : a 77 anni muore tra le
braccia delle figlie e della vecchia ancella,
in quella Pescara dov’era venuta sposa a
18 anni, in quella casa dove i Pescaresi
l’avevan veduta per anni ogni mattina,
starsi un poco affacciata al balcone tra i
garofani e i gerani e rispondere dalla rin­
ghiera di ferro ai saluti dei paesani che
le chiedevano notizie del lontano : il tran­
sito di Luisa De Benedictis è come il
transito d’una santa : essa raccoglie nella
pace il premio dell’umiltà con cui ha ri­
cevute tante gioie, della fermezza con cui
ha resistito al fendersi della sua casa e
del suo cuore.
117
Il poeta che ha dal Cadorna stesso l’an­
nuncio, parte per la terra natale ; rivede
la « piccola patria » come l’ha riveduta
nei giorni del commiato : « le mura di
Pescara, l’arco di mattone ; la chiesa scre­
polata, la piazza coi suoi alberi patiti,
l’angolo della mia casa negletta » ; entra
come allora : sale le scale in mezzo a un
silenzio che « è pietà e pudore ». Varca
le stanze di soglia in soglia rivivendo
« terribilmente » le cose della sua infanzia.
S’inginocchia davanti alla Morta composta
ormai nel talamo.
I funerali si svolgono tra il compianto
d’un popolo, il primo di febbraio : il poeta
se ne accora e turba : lo prende la febbre ;
migliora : riparte per il fronte.
Grandi eventi incalzano : l’America s’a­
gita : basta forse di note alla Germania :
il lievito degli ideali gonfia e tende quella
volontà, che pare così lenta a muoversi:
si avvicina anche per gli Stati Uniti l’ora
dell’azione ?
118
11 tre di aprile il poeta, unica voce
che sappia levarsi, in Europa, non già
nel nome della politica gretta, o di una
rettorica inerte, ma per il sentimento
profondo delle più alte verità, getta il
suo Messaggio agli Americani per l’in­
tervento :
« Oggi per l’anima d’Italia il Campi­
doglio di Washington è divenuto un luogo
eccelso di luce come l’arce romana... E
sembra che in questo aprile di passione
e di tempesta riecheggi il grido di un A-
prile già torbido di allegrezza e di cor­
doglio nella storia degli stati : « O capi­
tano ! O mio capitano ! Sorgi ed ascolta
il rombo dei bronzi. Lèvati ! Per te la
bandiera sventola ».
« L’Associated Press » diffonde il mes­
saggio tradotto in tutta l’America : « Ora
la bellezza precipita e trabocca sul mondo
come un torrente di maggio. Non abbiamo
petti abbastanza capaci per raccoglierla e
119
contenerla ». « 11 gran popolo della ban­
diera stellata, alzandosi in piedi per di­
fendere lo spirito eterno dell’uomo, oggi
aumenta a dismisura questa somma di
bellezza opposta al furore e al fragore
della barbarie ». Il 6 aprile, Woodrow
Wilson dichiara formalmente lo stato di
guerra e mobilita la flotta : « Eravate una
massa enorme e ottusa di ricchezza e di
potenza. Ed ecco vi trasfigurate in spiri­
tualità ardente e operante ».
La fatica dell’animatore non ostacola
quella del combattente.
E’ del 13 aprile l’incursione navale su
Pola alla quale egli partecipa, con i pic­
coli motoscafi costruiti apposta per sca­
valcare le ostruzioni senza far scoppiare
gli ordegni in agguato.
Alla fine dello stesso mese riprende i
suoi voli, ed è assegnato a una squa­
driglia di bombardamento. Intanto in Paese
i suoi versi sono ancora dovunque ripe­
120
tuti a incitare e incuorare : a Milano li
legge, in una memorabile sera, Senatore
Borletti, colui che affiancherà così gene­
rosamente il poeta nell’impresa di Fiume.
E si avvicina il secondo anniversario
della guerra : non trova come il primo il
poeta riverso in un letto come in una
bara : lo trova in piedi, armato di ardi­
menti nuovi e di antica costanza.
Già il 23 maggio egli prende parte al
bombardamento dall’alto in appoggio alle
truppe della Terza Armata.
L’azione aerea è stata da lui propu­
gnata, egli stesso l’ha preparata con lun­
ghe e numerose incursioni di osservazione :
appena si scatena la potente offensiva da
Castagnevizza al mare, che sbalordì il
nemico, prendendogli nel primo solo sbalzo
novemila prigionieri, è lui ad animare la
pertinacia dei 130 velivoli che rovesciano
sugli Austriaci 10.000 chilogrammi di
bombe.
121
Ettore Cozzani - Gabriele D'Annunzio. La preparazione e l'opera di guerra (1930)
Ettore Cozzani - Gabriele D'Annunzio. La preparazione e l'opera di guerra (1930)
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  • 5. E T T O R E C O Z Z A N I G A B RIELE: P A N N U N Z IO I S1PFT>''-W. fpsj L A P R E P A R A Z I O N E E L’O P E R A DI GUERRA L’E R O IC A M I L A N O
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  • 9. ETTORE COZZAMI GABRIELE ANNUNZIO L A P R E P A R A Z I O N E E L ’OPERA DI GUERRA
  • 10. T u tti i diritti di proprietà artistica e letteraria sono riservati per tutti i paesi C opyright by L'E roica 28 Ottobre J930 P rinted in Itaiy
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  • 14. ’ IHSKwí Mv ' ÿ^'îï^iV:?41*' i ■ .■ j.s 5 ' S l S i f S ¿MÁtif'f e 1W t / i f c ' - ' - '%'$ ■-S•-. ■■-“ c, .......... .. ' J'., . ... > -■ -- . ->Vvi 't- , J ' ; v*v=V • ‘V •-* ' l 1 . *V-1 ,;v^: . ;.ì "wÿfa ; Vf. ■::"i
  • 15. La milizia di Gabriele D’Annunzio co­ mincia molto più presto dello scoppio del conflitto delle nazioni. L’uomo che la folla dei saputi si compiaceva di rap­ presentarsi come un gaudente intento solo a coglier della vita e a render nel­ l’arte il piacere, con una sensualità avida e instancabile, s’era fin dalla prima gio­ vinezza preparato segretamente all’azione, e tutta la sua opera letteraria e tutti i suoi « gesti » ne sono una prova. Quando a Giosuè Carducci la morte ebbe interrotto il grido della rampogna e dell’incitamento, ed’il poeta nuovo, at­ tribuendosi con orgoglio consapevole una eredità così grande e grave, squillò « la fiaccola che viva Ei mi commette — l’agiterò sulle più aspre vette », parve a 9
  • 16. molti ch’egli esagerasse; ma il D’Annun­ zio sentiva nettamente ciò che doveva es­ sere compiuto da lui e da tutti; e la forza di afferrare egli solo la torcia ac­ cesa (dimenticando persino il grande fratello romagnolo che aveva comin­ ciato a serrare l’anima dentro la vor­ ticosa strofe degli Inni) gli veniva special- mente dal ricordo di ciò che egli aveva già dato alla nostra lirica civile con po­ tenza di ispirazione e chiarezza profe­ tica. Le « Odi Navali » sono d’un venten­ nio anteriori alla guerra nazionale. Là il mare ch’egli aveva esaltato con rude schiettezza di sensi e di forme nel « Canto Novo », — senza intenti poli­ tici, — ma già sentendolo « gloria, forza d’Italia », il mare sulle cui rive aveva ca­ valcato febbrile, o s’era disteso a cuo­ cersi al sole come per imbeversi di sale e temprarsi all’ardore, — dopo essergli IO
  • 17. apparso come il mare di tutti gli uomini, che regge la nave di tutte le glorie uma­ ne, o « il dolce mar funesto », « il bel mar natale », « il mar meraviglioso », che amano e sfidano le paranze con le « rosse latine vele » grandi come ar­ chi di luna, — gli si rivela subitamente un giorno (« io lo scorgo con un brivido interrotto ») imputridente del sangue in­ vendicato di Lissa: il movimento tutto carducciano dell’apparire di Faà di Bruno che, grande ombra sul deserto, chiede senza risposta, « Sarà dunque eterna la vergogna ?» — e del sorgere come in morgana della visione di Trieste rivolta a Roma (« sempre a te ! Sempre la stes­ sa ») — annuncia in pieno il nascere del motivo di guerra nella sinfonia che il poeta viene spiegando in tutta la sua vasta architettura: e la rappresentazione rapida, palpitante, perfetta, della torpe­ diniera, bella «come un’arme nuda», I| 11
  • 18. dà all’inno un tono di originalità e di giovinezza, che testimonia d’una invitta sincerità (nel 1914 il D’Annunzio chie­ derà al Governo, per prima domanda di volontario, d’essere imbarcato sopra un « Caccia » adriatico); — e il passo « sotto la bufera cinereo là verso An­ cona, l’Adriatico s’oscura » è già un ac­ cenno profetico, poiché proprio « là, verso Ancona» nel maggio del 1915 scoppiò il primo tuono d’artiglieria nella grande guerra. L’Ode per la festa navale nelle acque di Genova (8 settembre 1902), quando egli vide le Speranze della Patria erette sulle prue taglienti, ha un secondo ac­ cenno profetico : « - odon forse gli eroi da le tombe profonde » l’inno del « di­ ritto eterno» e della ¡« nuova']forza » d’Italia; e invero quando, il 5 maggio del 1915, gli eroi si desteranno nel bron­ zo di Eugenio Baroni, egli sarà là, a 12
  • 19. levar sul mare, nelle lasse dell’Orazione per la Sagra dei Mille, il suo « inno » ri- svegliatore. Ma il senso augurale dell’impresa adria- tica, l’immanenza d’un destino di guerra e di gloria sul Golfo di Venezia, dilagano in piena dalle liriche in cui si narra la tragedia della morte dell’Ammiraglio di Saint-Bon : eroe di Lissa, questi sognava la riscossa navale: Trieste attendeva; ma il 23 novembre 1892, il poeta getta il grido angoscioso: « Dio salvi l’Ammira­ glio ! Dio lo salvi ! La Morte.... » ; le strofe di esametri paiono sostenute dal quadrato ottonario che ne interrompe il fluire fatale e le chiude, come da un anelito di virile speranza; il 24, nella dolcezza amorosa dell’ ode saffica, il poeta si illude : « forse vivrà. Certo vi­ vrà, se vale, — il fervore d’un popolo ansioso — in un voto »; il 25, quattro martelliani, rimati con rime oscure come 13
  • 20. lembi funerei, preannunciano la sventura nazionale: «Dio protegga l’Italia»; il 26, con un grido che ci fa ancora rab­ brividire la sventura è annunciata: « Ar­ mata d’Italia ! Nel nome d’Italia di Dio - e del Re, della nostra cattolica fede, Si- mone di Saint-Bon è morto. Il Grande Ammiraglio oggi è morto. ». Gli esametri si ridistendono con sussulti e ingorghi me­ trici che paiono di singhiozzi e di pianto, e nel cospetto della morte il sogno della battaglia nautica vittoriosa si spiega in tutta la sua eroica bellezza senza veli : non più come presagio, ma come gesta narrata: il vate che canterà la beffa di Bùccari « si ricorda » - « dei giorni ancor non nati » : Trieste leva sùbito il suo consapevole lamento nella cadenza del doppio settenario, annobilita di frequenti ardimenti tecnici, — e sul ritmo d’un canto oltre oceanico, con l’ampiezza se­ rena d’un periodo musicale di Walt Whit- 14
  • 21. manti, è sciolto il pianto funebre sulla tomba : è pianto ormai disperato ; ma suonano nell’aria di Roma le campane della risurrezione di Cristo... Quando Gabriele D ’Annunzio riassu­ merà nella tragedia « La Nave » questo suo smisurato amore dell’Adriatico, risca­ vando nel macigno delle nostre glorie medioevali l’immagine del sogno libera­ tore — quando la tragedia sarà trionfal­ mente rappresentata a Trieste, quando egli battezzerà sdegnato « l’Amarissimo », — il suo affanno profetico sembrerà crescere, come nel presentimento d’ una imminenza di eventi, e nella certezza che l’oracolo gli giunge proprio da Dio. Poi sorge nella sua anima, come una costellazione nella fonda notte, 1’ Elettra. Un senso di aspettazione consapevole è in ogni strofe degli inni civili, anche di quelli che paiono più lontani dal presente 15
  • 22. e più vaghi : sembra che il poeta si sforzi d’allargare il suo respiro per prepararlo ad un canto epico, e di distendere l’oriz­ zonte della speranza del popolo, perchè vi sia spazio per tutte le apparizioni e- roiche. Dinanzi alle Montagne, «terribili dòmi abitati da Dio », ascolta l’anima sua « se non giunga un messaggio » e vede un « puro spirito » « schiudere il Futuro » oltre oscuri abissi di dolore; — al pen­ siero di Dante egli sente che quel nome solo «come il turbine agita i lembi — d’un gran vessillo, scuote nei suoi mari e nei suoi valchi — l’Italia inerme »: iner­ me, sì ; « Ma il cuore della Nazione è co­ me la forza delle sorgenti — meravi­ glioso » : e ci sono in Italia, se pur l’alba « ancor non sale », le forze ed i forti : « pel rancore dei forti che patiscono la vergogna, — pel tremito delle vergini forze che opprime la menzogna».... 16
  • 23. Cade ucciso Re Umberto, e nella sin­ cerità e nella gravità che soltanto la morte sa imporre così grandi, tutti i sogni in­ certi e tentanti, prendono una forma pre­ cisa e s’avviano: e l’inno diventa così net­ tamente profetico, che oggi non si può rileggere senza sentir quell’« orrore sa­ cro » con cui gli antichi avvertivano la presenza divina : la notte in cui il convoglio funebre traversa la penisola cercando Roma, è piena di baleni, di febbri, di presagi: Genova e La Spezia salutano, « le due madri delle navi » ; principia il nuovo destino; l’Italia rifio­ risce, l’Italia si sveglia ; « Or chi sarà l’eroe che attendiamo?»; Non c’è dub­ bio, sei tu, « Giovine, che assunto dalla morte, fosti re sul mare >: « T’elesse il destino all’alta impresa combattuta * (così fu): «guai se gli manchi» (così fu: la rivoluzione, due volte è stata alle porte: nel maggio del 1915, nell’ottobre del 17 2
  • 24. 1922; e scoppiava, se il Re fosse man­ cato) : la fortuna d’Italia — prese l’ali sul campo d’una battaglia perduta » (e riavvenne nel 1917). « Che vorrai tu sul tuo soglio ?» ; le domande incalzano nel tumulto dell’anima invasata « Quale altura è il tuo segno?... Sai tu come sia bello il tuo regno ? ». (Nessun Re d’ Italia ne ebbe uno così bello: in verità): e la certezza tripudia, lampeggia, minaccia nell’ultima strofe : « T’elesse il Destino — all’alta impre­ sa audace. — Tendi l’arco, accendi la face, — colpisci, illumina, eroe latino! — venera il lauro, esalta il forte ! — Apri alla virtù le porte — dei dominii futuri ! — Chè se il danno e la vergogna duri — quando l’ora sia venuta — tra i ribelli vedrai da vicino anche colui che oggi ti saluta ».... (Ricordiamo il 5 mag­ gio a Quarto e le parole « Maestà assente, ma presente », — che avevano corrette 18
  • 25. all’ultimo momento quelle già scritte e dure, «Maestà assente»; — ricordiamo la marcia di Ronchi). E l’impresa, non più ormai lontana, si accenna nel vaticinio, con particolari di esattezza storica illuminati da un lampo di preveggenza stupenda: Trento non pianga, Trento attenda; tornerà Garibaldi, a riprender la marcia : « Verrà verrà sul suo cavallo, — con giovine chioma » (Peppino Garibaldi). « Torrà il nero e giallo — vessillo dal tuo sacro monte ». — Ma più, più ancora certo, esatto : « Non piangere, anima di Trento... Non fare lamento. Perdona — Prepara in si­ lenzio gli eroi ». C’è tutto Battisti: nel silenzio e nella preparazione: egli allora studiava in raccoglimento la geografia del Trentino e pubblicava le sue opere di geografia scientifica e di apostolato geo­ grafico: il verso allude a lui e a Filzi, come una mano addita con l’indice teso.
  • 26. Tuttavia l’ignavia e la stanchezza, gra­ vavano troppo la vita e l’anima: una tristezza immane oscurava il destino: l’azione non appariva nemmeno probabile: la Potenza lasciava l’Italia, la Bellezza si esiliava ; ma il poeta traeva dalla dispe­ razione baleni : « E però leva su, vinci l’ambascia; — anima mia: questa è la tua vigilia ». E nella notte di Caprera (e nel di­ scorso ai giovani che la precedette, e che fu della medesima sostanza infuocata di quelli di Genova e di Roma nel 1915) egli evocò gli eroi Garibaldini, nel momento che trasumanavano, facendoli vivere d’im­ peto sul confine tra la vita e la gloria; e nelle «Città del silenzio», riscolpì in strofe di vero bronzo gli eroi comunali già assunti nei cieli del mito, mostran­ do come tutta la nostra terra fermenti di un seme di grandezza, e tramutando in espressioni di potenza guerriera anche le 20
  • 27. apparenze del lavoro quotidiano, come quello delle cave di Carrara: « ...e il grido del bovaro furibondo, — ed echeggiar la buccina di morte — come squilla che chiami alla battaglia » ... —. Anche nei canti funebri la speranza vampeggia, l’incitamento saetta: nell’inno per la morte di Giuseppe Verdi il cuore confida « oltre il destino » e il buon mes­ saggio c’è «chi l’aspetta», poiché «la forza del dolore » vendicherà forse l’onta. Nell’inno per il centenario di Vincenzo Bellini, l’ ansia del poeta che attende si volge quasi in angoscia, cercando l’eroe a tutte le contrade della patria: « sveglia i dormenti e annunzia ai desti : 1 giorni — sono prossimi. Usciamo al­ l’alta guerra ! » E anche quando parve con l’ispirazione varcare i confini d’Italia e cantare eroi d’al­ tre genti, la sua anima era umiliata dalla vergogna della nostra inerzia : l’Ode per il
  • 28. ri centenario di Vittorio Hugo non « ripete °gg' *1 grido, ahi, vano » ? — « E il cuore — anco spera ? E la fede non lan- gue? Calpesta dal barbaro atroce, — o Madre che dormi, ti chiama — una figlia che gronda di sangue ». Era ancora Trie­ ste, e i giovani giulii battuti in caccia selvaggia. E perfino quando, incompreso e bef­ fato come trapiantatore del mito del « su­ peruomo » in Italia, egli esaltò Federico Nietzche, (e non era forse in lui se non la brama di sollevare, come in « Più che l’amore », davanti alla gioventù smarrita, immagini di schiettezza, di forza e di va­ lore foss’anche dissennato), egli presen­ tiva l’evento : « Io so come si danzi — sopra gli abissi e come si rida — quan­ do il periglio è innanzi... e come si com­ batta con l’ugne — e col rostro, e come si uccida, — e come si tessan le ghir­ lande — dopo le pugne ». Un’altra volta 22
  • 29. egli si ricordava « dei giorni ancor non nati ». Allora gli saliva dal cuore col rombo dei dàttili ansanti la promessa : « verrà dal silenzio, vincendo la morte — l’Eroe ne­ cessario. Tu veglia alle porte, — ricor­ dati e aspetta». E l’augurio gli squillava alto sulla testa come un grido d’aquile: « Così veda tu un giorno il mare latino coprirsi — di strage alla tua guerra — ....Italia, Italia, — sacra alla nuova Au­ rora — con l’aratro e la prora ». Il grande evento sognato non nasceva; ma qualche impresa scosse il sonno la­ tino. La spedizione in Cina non fu in tutto esempio di potenza civile che s’espande e s’impone : pure qualche eroe morì lassù per l’Italia. Ed ecco l’Ode per i marinai italiani morti in Cina, con quella trenodìa superba (una delle più gigantesche pagine della poesia moderna) nella quale sono 23
  • 30. rappresentate le madri eroiche, e pur umili e dolorose, che da tutte le campagne italiane attendono il messaggio di resurrezione o di morte : e il messaggio scoppia, uno per tutte, nel silenzio oscuro : « morti sono i figli, morti — sono i figli, morti sono — i figli alla guerra lontana. — .... Ma ve­ duto han la figura grande e sola della Patria — risplendere sopra la morte ». Pare una luce d’aurora boreale : subito spenta. Ma ridivamperà più alta e ampia e durevole, tra poco. 11 poeta è nel suo esilio oceanico di Arcachon. S’accende la guerra Libica. Il fratello romagnolo getta una voce di gioia e d’angoscia, da Barga, nei periodi affannosi de « La grande proletaria s’è mossa » ; Gabriele D ’Annunzio libera al volo come sparvieri le Canzoni d’oltre mare. Questo è proprio il preludio del poema tragico che si inizierà nel 1915: la guerra 24
  • 31. è questa volta una guerra grande : « ella fa dell’Italia dai tre mari — la grande Patria dalle quattro sponde». Pare che tutta la materia delle « città del silenzio » e del gran poema garibal­ dino, riarda, s’ammorbidisca rovente, per­ chè il poeta possa rifoggiarla in una forma nuova : tutte le glorie seminate dai secoli nella nostra terra e, su tutte, le glorie marinare, di Genova, di Venezia, di Pisa, d’Amalfi, e tutte le passioni che egli stesso nella sua recente vita ha se­ minate nel cuore dei giovani, grandeg­ giano mature nella luce torrida delPAfrica, ed egli le addita a testimonianza che la fede non era vana: e, nel modo di Pindaro, canta gli eroi d’oggi legando la loro sorte alle memorie delle loro città; e segue lo svolgersi della gesta con un movimento così concitato di terzine, che pare si ser­ rino addosso agli eventi e agli uomini incalzandoli ingigantiti. 25
  • 32. Governa le canzoni un senso d’ebrezza, che solo a tratti è vinto dallo sconforto dell’uomo, il quale, nato per essere eroe con «la forza che sognar faceagli il fato — e il pallore del giovin Bonaparte » — patisce anche adesso « l’ignavia delle vane carte »: ma il senso d’orgoglio che gli dà il veder finalmente la sua profezia avve­ rarsi, soverchia ogni tristezza e ogni dub­ bio. Ciò che però fa anche più fremere alla lettura di questi squilli guerrieri, è il vaticinio che corre anche i nuovi inni : la gesta d’oggi è cantata; ma con chia­ rezza è sognata l’impresa di domani ; an­ che qui, come in « Elettra >, c’è l’aspet­ tazione e la speranza: più lucide, più pre­ cise, come più vicine al loro compiersi nella realtà : « Che l’Africa non è se non la cote — ove affilammo il ferro, per l’acquisto — supremo, contra le fortune ignote — » ; — « e riluce per noi nell’in­ travisto — futuro un bene che per rive­ 26
  • 33. larsi — vale il martirio d’ un novello Cristo » (il fante del Carso). Egli sente che c’è un annuncio nuovo da dare: e ode il Signore in cerca del Messaggero : « chi mando, — o gridatore e indovinatore — di cose sante ?» E vor­ rebbe esser lui : « manda me, Signore » : e vorrebbe essere di nuovo giovane ; e sente in sè colui che sarà, tra poco, sul cielo di Pola e di Vienna, sul mare di Bùccari, sulle sassaie del Veliki e del Faiti: « principe della gioventù, traendo — i miei compagni a me duce e pilota — meco giurati a un patto più tremendo ». E, quando il poema delle dieci canzoni si chiude perfetto con quell’« ultima », che è forse la più bella per il profondo e sincero dolore che ne trabocca, una sola immagine permane in noi ; la schiera dei ritornanti che s’avvia, come gente che tende a un’altra mèta: «taciturna così per la deserta — notte s’avanza la quadrata 27
  • 34. schiera, — con i suoi segni, — verso l’alba certa — simile al vóto d’una pri­ mavera — sacra che salga verso un fato augusto... » mentre nel cuore del poema ondeggia, tra le figure degli eroi, la fi­ gura monacale d’Elena di Francia, pre­ parata dalla sua esperienza libica e da questo canto alla missione che la farà, nella grande guerra, maestra e signora della carità; e già s’incupisce e attorva nella Canzone dei Dardanelli la delu­ sione che torcerà il cuore all’ Italia vit­ toriosa per l’ingiustizia delle nazioni com­ pagne, e si leva ostile e osteggiata la la figura dell’uomo politico che il poeta si troverà primo di traverso alla sua rotta, quando nel maggio 1915 rientrerà in Ita­ lia per la guerra di riscossa : « questa Canzone della Patria delusa fu mutilata da mano poliziesca, per ordine del Ca­ valiere Giovanni Giolitti, capo del Go­ verno d’Italia». 28
  • 35. Il terribile luglio 1914 lo trova ancora in Francia: la guerra scoppia, ed egli prova quel primo senso d’irreale che tutti provammo, come se d’improvviso, in una vicenda che ci toglieva il respiro, ci av­ volgesse un lontano passato, un futuro anche più lontano : ma sùbito egli si orienta : — la guerra prepara «gli spazii mistici per le apparizioni ideali ». Egli sente che metton foce nel gran mare della realtà i fiumi canori delle sue predizioni : « mi tornano nello spirito le melodie che non furono udite e che perciò a taluno devono oggi sembrare più belle ». La sua « esule malinconia » lo trava­ glia ; a quando a quando lo spirito si smarrisce tra il desiderio dell’azione e il sospetto che le forze sieno ormai fiaccate, e la preparazione insufficiente: « ho per­ duto il mio mondo e non so se ne tro- 29
  • 36. vero un altro »; — « chi sono ? dove vado? e che ho mai fatto? ». Ma gli eventi lo avviano alla mèta, come colpi di timone una barca potente : il pontefice mite se ne va; un altro sale la cattedra di S. Pietro ; il Poeta riassume in poche linee preveggenti il tormento italiano dei quattro anni prossimi; «si so­ gna che in quest’ora sia vestito della tu­ nica bianca e coperto »del camauro ver­ miglio un papa giovine... capace di con­ tenere nel suo petto il coraggio sovru­ mano d’Ildebrando ». Quante volte non ci rammaricammo, in quattro anni d’an­ sia, ad ogni atto e gesto del Pastore, con questo medesimo sogno che non ci voleva morire ? Il barbaro invade il suolo della Francia, calpesta le memorie dell’ « Isola » bene­ detta ; il poeta segue ogni fatto di guerra con una crescente passione : e in tutti gli aspetti della terra ospite, vede un 30
  • 37. aspetto della patria lontana; e, con quel­ l’amore che nei momenti decisivi parve sempre unire Italia e Francia in uno stesso sentimento latino di grandezza, di peri­ colo, di volontà eroica, prepara l’anima sua a quel ritorno in Patria, che qual­ che coscienza invigliacchita nella politica gli rinfacciò come un mercato !o « Il mio cuore gridava d’angoscia verso la mia patria prima, verso l’Italia inerme e irresoluta ». Percorre contrade in agonia all’appros- simarsi dell’uragano germanico, vede Sois- son e Reims nell’ora del martirio, e la cattedrale unica al mondo, transustan- ziarsi nel fuoco; e, nelle pause dell’an­ goscia, quando in una villa solitaria ri­ prende i giochi con i suoi levrieri, ogni aspetto ed ogni atto della terra, delle ammirate belve, delle creature umane gli assume un atteggiamento guerriero. «Nulla più valeva, fuorché l’azione, fuor- 31
  • 38. chè il combattimento a oltranza, fuorché il sangue inesausto. La furia della muta si apprendeva alle nostre vene ». E le verità eterne, le materiali e le ideali, della vita gli si rivelano. « Sentivo dentro me il mio scheletro prigioniero, involuto di carne riconversa in argilla ». «Ma questa guerra sembra interamente rifondere tutte le stirpi nella materia ori­ ginale affinchè i loro genii possano al fine rifoggiarle nel fango sanguinoso e risollevarle alla vita con un soffio più vasto ». « Occidente, splendore dello spirito senza tramonto, nessun barbaro potè mai spegnerti, nessuno mai ti spegnerà nei se­ coli, finché l’uomo porti sui suoi soprac­ cigli una fronte per rispecchiarti ». Sono le chiavi di volta di tutto l’edi­ ficio di parole e di pensiero che egli le­ verà su tra un atto e l’altro durante la guerra: ma una delle profezie batte le ali 32
  • 39. lontano, supera la vittoria, guarda dall’alto i giorni dell’armistizio torbido e della pace acre: « E la vera legge marziale sarà su noi instaurata dopo la guerra delle armi : chè uccidere e distruggere sarà ben facile compito in paragone di quel che i super­ stiti troveranno dinanzi a loro ». Si pensi che queste parole del secondo tomo della « Licenza » fan parte della « Leda senza cigno », pubblicata nel 1916, e che per­ ciò si rivelano pensate nel 1915 o forse nel 1914, — e che c’è lo schema del­ l’Italia del 1923. Egli è ormai pronto, spirito e corpo : « Sono leggero e spedito per andare verso l’avventura, verso il pericolo e verso la morte. Forse mi sarà dato di sentire in me la stupenda novità che si prepara, prima di disciogliermi. Ma già la ricevo in forma di annunciazione ». «Egli è pronto; ma l’Italia non si muove: la Francia ansa e si contorce sot­ 33
  • 40. to la pesante mano che !e stringe la gola: il poeta sente più di tutti questo sussulto di agonia di cui freme la terra alla quale poggia i piedi, e si volge con il cuore alla patria, se oda la voce della deci­ sione. Silenzio. Una specie di furore epico lo dilania. Bisogna decidersi : egli compirà qualche atto irreparabile che violenti il destino. Un giorno della primavera del 1915, nel suo studio remoto di Rue de Geof- froy, a Parigi, con Peppino Garibaldi, preso come in un’atmosfera di leggenda, egli si artiglia il cervello per trovare un modo di ritornare in Italia che valga un ammonimento, e che tagli il nodo della sorte, quand’ecco gli giunge un messag­ gio: un giovane poeta gli annuncia dal­ l’Italia che, nel prossimo anniversario della partenza dei Mille da Quarto, si scoprirà sullo scoglio un grande bronzo, a cui gli 34
  • 41. eventi danno un significato, per la folla improvviso, ma a lungo meditato e pre­ parato nel cuore dello scultore: è la ri­ surrezione dei morti: gli eroi di tutte le cospirazioni e le guerre dell’indipendenza ribalzano dalla terra, stracciando i loro sudarii ; e Garibaldi è fra loro : li rac­ coglie, li regge e li guida, simili a un flutto che urti la sua persona come uno scoglio. La vittoria giovane, perchè gari­ baldina, scaturisce dal gruppo affannoso, e incorona il Condottiere. Si vuole che il poeta torni in patria, sbarcando sul lido « fatale », e interpreti il bronzo e compia il prodigio, davvero: la risurrezione dei morti s’inizi per coman­ damento di lui. Una accensione sùbita prende l’esule e lo travaglia. In pochi giorni egli pensa, scrive, e trascrive, in forma d’una can­ zone di gesta a larghe lasse di prosa, d’un ritmo d’onda temporalesca, la sua «Orazione perla Sagra dei Mille». 35
  • 42. Quello stesso giovane poeta ha gettato frattanto in Italia l’invito a tutte le anime perchè si purifichino, si accordino, si rac­ colgano a Quarto per un rito augurale, che, appunto, egli ha chiamato Sagra. Gabriele D’Annunzio ritorna. Giorni di febbre: l’ansia diventa ango­ sciosa: si annuncia che il Re sarà pre­ sente allo Scoglio : è la guerra ! poiché il poeta ha serrato nelle lasse della Orazione parole decisive. Ma d’un tratto egli legge nei giornali, mentre si stacca da Parigi, salutato dai tre­ pidi amici dell’Italia che sperano nell’inter­ vento imminente, che il Re non verrà più: allora è la neutralità, perpetua! Ebbene: egli scenderà lo stesso in mezzo alla folla: colui che ha salutato il giovane Re assunto, adempirà la minaccia : « Che se il danno e la vergogna duri — quando l’ora sia venuta — tra i ribelli vedrai da vicino — anche colui che oggi ti saluta ». « Maestà 36
  • 43. assente » comincerà il suo discorso : que­ sta chiamata sarà una condanna. Egli rientra in patria; ma prima di partire, il 25 e il 27 aprile, in due prose « L’amarissimo Adriatico » e « Il cemento romano » fa pubbliche in Francia, con la solita nettezza, le dichiarazioni che « de­ terminano — come egli stesso affermò poi in Roma, il 24 maggio del ’19 — i no­ stri confini e i nostri diritti, tutti i nostri diritti, specialmente quelli che non consi­ dera il magro patto di Londra e la rat­ toppatura di Moriana ». Ma, passato appena il confine, egli incontra il giovane poeta il quale lo ras­ sicura che il Re è 'trattenuto a Roma dal precipitare degli eventi : si saprà solo più tardi che il Re non poteva interve­ nire perchè la notte del 4 maggio il trat­ tato d’alleanza con l’Austria era stato denunciato. L’arrivo a Genova, a sera inoltrata, la 37
  • 44. vigilia, gli dovette dare il senso dell’ab­ braccio quasi fisico della Patria: quanta aspettazione, quanta fede, quanta speran­ za ! Nessun annuncio ufficiale, nessun in­ vito ; ma l’atrio e le scalèe della stazione Principe, sono un solo gorgo di folla, al fondo del quale, come dentro la punta d’un imbuto, splende la testa nuda del poeta: la moltitudine gli si stringe ad­ dosso fino a soffocarlo: lo vediamo im­ pallidire: a stento una catena di brac­ cia e di spalle maschie lo isola e lo salva. Un’automobile lo afferra e lo porta, prima a stento entro la calca, poi di volo per strade deserte, all’Albergo Eden. Ma lassù già un turbine di gente lo attende, pone l’assedio a l’edificio in cui egli è scomparso, lo chiama. Egli si affaccia : nel buio del giardino, rotto qua e là dai raggianti globi elettrici tra gli alberi, sulla 38
  • 45. moltitudine fluttuante dei visi pallidi di commozione, e delle bandiere (è il fiore dell’ « interventismo » ligure — i giovani mischiati con i veterani garibaldini) egli getta il primo dei suoi discorsi: poche frasi, bellissime, nella nudità muscolosa e palpitante che un poco s’indebolì amplian­ dosi nella trascrizione pubblicata poi. La linea del pensiero v’è segnata con una sicurezza sovrana, dalla preghiera alla decisione, dalla meditazione all’azione: si pensa che finalmente il sordo rimescolìo delle coscienze, il fermento degli affanni anelanti della patria, abbiano trovato una voce chiara, libera: si sente che l’Italia si rivela a se stessa nel suo poeta. E il bronzo fasciato di stoffa purpurea là sullo scoglio, era da lui raffigurato come vigi­ lante sul Tirreno oscuro, nella notte senza luna, tutto rosso d’un ardore che lo ar­ roventava. Il mattino dopo, sotto il cielo raggiante 39
  • 46. percorso dai velivoli che ancora stupivano col loro volo sicuro, su un mare azzur­ rissimo e fiottante alle prode, in mezzo a un popolo che continuava a fluire da Genova, per la strada litoranea, come una fiumana perenne, Gabriele D’Annun­ zio scandì con la sua voce metallica e ferma l’Orazione: cominciava: «Maestà assente ma presente » : il drappo sangui­ gno che aveva coperto la mole, la quale in realtà pareva un rogo come il poeta aveva divinato, scivolò giù dalle forme bronzee, e l’opera sembrò davvero come il D’Annunzio la definì, « un comanda­ mento alzato sul mare ». L’orazione pubblicata la mattina stessa dal « Corriere della Sera», percorse con uno squillo di diana tutta l’Italia : e recò la certezza. Ma la bocca del poeta fu proprio da quel momento come la bocca della for­ nace percossa dall’asta di ferro: non si 40
  • 47. chiuse più, fino a che l’annunciatore non divenne combattente : e ne sgorgava una lava furibonda. In Genova stessa, il 5 maggio, il 6, il 7, i discorsi s’incalzarono, sempre più affocati di passione, sempre più affannati d’amore, ma sempre sorretti da una soli­ dità di pensiero politico e da una anti­ veggenza mirabili. Al banchetto dei Mille, tra i superstiti bianchi e curvi che lo covavano cogli occhi riaccesi dal fuoco di giovinezza eroi­ ca, egli riassunse la realtà di quell’ora in parole esatte : « sembra che da stamani noi respiriamo non so che odor di mi­ racolo, dove s’avvicendano in una sorte di balenìo la verità e il sogno, la vita attuale e la più lontana favola »; e già mirava a Roma: « A Roma io bevo » — Nei giardini del palagio di Andrea D ’Oria, ricevendo in dono il gesso del leone di Trieste, che è murato in una casa dei 41
  • 48. Giustiniani, egli richiama le glorie ma­ rinare della Superba, per avventarle sul­ la costa del « Golfo di Venezia » a riaf­ fermare il diritto d’Italia; nella sala di palazzo San Giorgio, dopo lo scabro ardente saluto dell’apuano Ceccardo, rie­ voca i vanti civili di Genova, e chiude la breve orazione con un’ « immagine di fiamma »; ai Dalmati che gli offrono un libro di testimonianza della loro ita­ lianità, giura « nello stile di Roma » la salvazione. Ma la sua eloquenza sale ai vertici della potenza, quando nell’ateneo genovese, gli studenti convenuti da tutta l’Italia lo prendono nell’uragano del loro entusiasmo. Parve allora che tutta la sua anima di­ vampasse, come vampe fischiavano e rug­ givano nell’anima dei giovani: l’aria stessa ardeva! E c’era, presente ed ignoto, Vit­ torio Locchi : « Se è vero, come è vero, come io giuro esser vero che gli Italiani 42
  • 49. hanno riacceso il fuoco su l’ara d’Italia, prendete i tizzi con le vostre mani, sof­ fiate sopra essi, teneteli in pugno, scuo­ teteli, squassateli ovunque possiate, ovun­ que voi andiate. E appiccate il fuoco, miei giovani compagni, appiccate il fuoco pugnace ! Siate gli incendiari intrepidi del­ la grande Patria! » Furono ! Non erano trascorse molte ore e già un po’ dappertutto la polizia do­ veva accorrere ad ogni momento a spe­ gnere qualcuno di questi incendi che cre­ pitavano nel vento. E lo seppe il Giolitti, fischiato e per poco non percosso, alla stazione di Torino. Ma il poeta, che non si placa, e tra discorso e discorso, visita le grandi ac­ ciaierie liguri, le fucine che vampeggiano notte e giorno senza tregua approntando i cannoni, tendeva ormai a Roma: la preparazione delle anime era compiuta: l’aspettazione aveva messo la febbre in 43
  • 50. tutta la nazione: ora bisognava andare a battere il nemico nella sua fortezza ! Chi scrive, lo vide passare, raggiante di fede, sicuro, dalla Spezia : ne udì pa­ role in cui era la più lucida certezza. Durante il viaggio e nelle prime ore romane raggiungono il poeta le notizie delle frodi tentate, dei baratti, del tradi­ mento. La febbre della lotta lo investe: è il 12 maggio ; egli getta la sua « arringa al po­ polo accalcato nelle vie e acclamante »: an­ cora l’orazione per la Sagra gli si dibatte nel cuore, ma si tramuta: « lo vi porto il messaggio di Quarto, che non è se non un messaggio romano alla Roma di Villa Spada e del Vascello » ; il senso profe­ tico dà alle sue parole un’audacia crudele: « Che la forza e lo sdegno di Roma ro­ vescino alfine i banchi dei barattieri e dei falsari »; le immagini sobbalzano dal­ la sua bocca con una potenza carnale : 44
  • 51. « gettato è il dado su la rossa tavola della terra ». E i ricordi s’ingorgano nella sua anima dalla storia, dalla poesia, dalla sua stessa vita lontana, ed egli comincia quella rievocazione del mito dei Mille, che accompagna, data per data, di visioni eroiche la nuova orazione più vasta, che egli poi intitolò « La legge di Roma » e di cui ogni discorso è un lassa. Nella giornata del 13 maggio, con uno sforzo di allargare la sua azione a tutta l’Italia, e di tenere i contatti, getta un messaggio ai Genovesi, che pare un foglio d’ordini : « ogni giorno adunatevi in gran numero... e manifestate il vostro sdegno, gridate la vostra minaccia... Alla riscossa, popolo di Genova! Italiani, alla riscossa ! » Ma la minaccia illividisce il cielo come un temporale imminente, e Roma si agita, lo spirito del poeta è entrato nella mol­ titudine come un lievito, l’ha resa sensi­ 45
  • 52. bile come carne ferita: l’uomo che un giorno aveva tracciata con stile duro la vita di Cola di Rienzo, dovette sentir ri­ vivere in sè la potenza e l’autorità tribu­ nizia del veto. Quello stesso 13 maggio il governo di Antonio Salandra si di­ mette : passa per l’Italia un’ondata di sgo­ mento : è la neutralità insuperabile ? è l’ignominia? Tutta Roma ribolle: le vie sono percorse non più da folle, ma da bande risolute : qua e là si levano le pri­ me barricate. Quella medesima sera il poeta arringa di nuovo « il popolo in tu­ multo ». Il dubbio del tradimento che era soltanto come « un orribile odore» è di­ ventato una certezza che stronca l’anima con tuttto il suo « peso obbrobrioso »: il poeta stesso ora incalza il popolo all’a­ zione, lo guida, gli segna le mète ; e as­ sume su di sè la responsabilità della ri­ bellione aperta, armata: « se considerato è come crimine incitare alla violenza i 46
  • 53. cittadini, io mi vanterò di questo crimine, 10 lo prenderò sopra me solo ». Il suo discorso è guerresco : ha lo stridere aqui­ lino di quelle brevi parole che il Duca D’Aosta soleva poi in piena campagna gridare, come strappandosi il fegato a brano a brano, alle sue chiuse falangi di elmetti grigio-verdi; e c’è già l’ansia di­ sperata della marcia di Ronchi, che ge­ nerò poi la marcia su Roma : ogni pe­ riodo è per chi ascolta come un col­ po di maglio; e tra l’una e l’altra romba s’ode l’ansito della folla ebbra di quel- l’ incitamento : « Ascoltatemi. Intendete­ mi ».... - « Udite ! ».... - « Udite? ».... - « Intendete ? Avete inteso ? » : pare che 11 poeta abbranchi il popolo con due pu­ gni artigliati e lo scuota : « Nella Roma vostra si tenta di strangolare la Patria con un capestro prussiano maneggiato da quel vecchio boia labbrone le cui calca­ gna di fuggiasco sanno la via di Berlino ». 47
  • 54. E’ il sarcasmo tragico che si vedrà ri­ balenare sulla moltitudine a Fiume negli originali dialoghi del poeta e della folla. Come gli rispondesse il popolo di Roma, il D’Annunzio stesso ha raccon­ tato in una tra le più belle pagine del « Not­ turno» con una commossa sincerità umana. La sera del 14 maggio al Teatro Co- stanzi, gremito, egli appare d’improvviso, sale sul palcoscenico. Davanti alla moltitudine che ascoltò in un silenzio impressionante, con una sola faccia di mille facce sbiancate dalla sofferenza, e che poi scattò in un urlo di sdegno, egli pronunciò l’accusa pub­ blica. La sua voce metallica disegnava le parole spietate con la nitidezza d’un ferro di chirurgo: «Udite. Udite. Gra­ vissime cose io vi dirò, da voi non co­ nosciute. State in silenzio. Ascoltatemi. Poi balzerete in piedi, tutti ». 48
  • 55. Egli rivela che il 4 maggio, la vigilia di Quarto, la Triplice era stata dichiarata « decaduta e nulla » e che s’erano già presi « impegni gravi » con le nazioni al­ leate; e che Giovanni Giolitti, pure in­ formato di tutto questo, aveva tentato di sostituirsi al Governo responsabile, trat­ tando l’abdicazione della volontà nazio­ nale con Bulow : « Egli dunque tradisce il Re, tradisce la Patria ; contro il Re, contro la Patria, serve lo straniero. Egli è colpevole di tradimento, non per un modo di dire ingiurioso, non per eccesso di frase polemica, ma in realtà, ma in verità, secondo la figura nota di esso delitto ». E impone di « armarsi di tut­ te le armi » — e non rifugge nem­ meno dal pensiero della insurrezione sanguinosa : « Perciò, ripeto, ogni buon cittadino è soldato contro il nemico interno, senza tregua, senza quartiere. Se anche il sangue corra, tal sangue 49 4
  • 56. sia benedetto come quello versato nella trincea ». E’ l’uomo di Fiume : esatto : ognuno 1° giudichi come può e vuole, e sa; ma nessuno potrà dire che egli si sia smen­ tito o tradito. 11 15 maggio sa che gli studenti del- l’Ateneo sono « adunati per deliberare la violenza»; non può intervenire; manda un messaggio: lancia tra loro l’ombra di Oberdan, rievoca loro la « battaglia su­ blime di Calatafimi », congiunge i loro cuori, con i cuori degli studenti Geno­ vesi : « appiccate il fuoco ! Siate gli in­ cendiarli intrepidi della Grande Patria ! » Ancora una volta tenta di allacciare con le loro stesse arterie le due città che ha inebbriate della sua febbre. Passano le ore negli «estenuanti indugi»; la politica tentacolare si travaglia a cercare con palpamenti e avvinghiamenti vischiosi la risoluzione della crisi parlamentare. 50
  • 57. Il 16 maggio il poeta (è l’anniversario della marcia garibaldina da Calatafimi a Palermo) parla agli artisti: forse la folla è altra da quella dei giovani e del po­ polo, forse lo umiliano i troppo lunghi e anguillosi tentativi politici; è meno ispi­ rato, meno fremente: una sola verità gran­ dissima balena sopra la sua breve ora­ zione : la gente latina « è l’artefice chiara delle stirpi confuse. In lei soltanto la ma­ teria immensa e incandescente della nova vita troverà i grandi conii perfetti ». Anche oggi ci specchiamo in queste parole e sentiamo che si avvereranno nei secoli. Un corteo tumultuante ha traversata Roma. Il 17 maggio è la giornata epica: la sua eloquenza diventa una colata di bronzo: il popolo l’ascolta in una esaltazione pro­ fetica. Egli richiama ancora una volta le glorie di Roma e le glorie garibaldine ; 51
  • 58. definisce l’atteggiamento del Re, prepara gli spiriti all’adunata imminente della Ca­ mera, da cui vuole esclusi i traditori ; a ogni suo grido che saluta una virtù della Patria « il popolo unanime risponde con una immensa acclamazione, dalle scalina­ te, dalla piazza, dalle vie »; e quando qualcuno reca al poeta la spada di Nino Bixio ed egli, con parole di gloria, la snu- ba e la bacia, « una nuova immensa ac­ clamazione sale nell’aria accesa dal tra­ monto. Il grido : « Guerra ! Guerra ! » supera ogni altro clamore » e mentre il poeta, ormai duce di un popolo, esclama: « O Romani, è questo il vero parlamento. Qui oggi da voi si delibera e si bandisce la guerra. Sonate la Campana», davvero, come mossa dal vento di quella ebbrezza, la campana del Campidoglio si mette a sonare a stormo : « tutto il popolo, sotto il rombo, acclama la guerra ». Il 20 maggio egli conforta ancora e 52
  • 59. ammonisce il popolo che s’accalca intor­ no a Montecitorio, in un’ansia fosca; e quando esce dall’aula dove il parlamento ha ritrovato se stesso, e la sorte è stata affrontata, egli ancora arringa la moltitu­ dine: rievoca un anniversario miracoloso : la battaglia di Montebello in cui gli Ita­ liani, 5.000 contro 20.000, attaccano a ferro freddo gli Austriaci e li fugano ; e getta il grido ancora una volta profetico : « La vittoria è di coloro che nella vitto­ ria credono, che nella vittoria giurano. Noi crediamo, noi giuriamo di vincere». 11 23, il duca d’Avarna comunica al Governo austriaco la dichiarazione di guerra dell'Italia. Nell’alba del 25, Gabriele D’Annunzio chiude con un fermo sigillo la sua vigilia, parlando ai compagni: è l’addio prima dell’azione ! Egli celebra il silenzio di Roma che significa duro proposito, si vota con sincerità commossa alla morte; 53
  • 60. si libera per l’azione : « Ecco l’alba, o compagni, ecco la diana; e fra poco sarà l’aurora. Abbracciamoci e prendiamo com­ miato. Quel che abbiamo fatto è fatto. Ora bisogna che ci separiamo e che poi ci ritroviamo. 11 nostro Dio ci conceda di ritrovarci o vivi o morti, in un luogo di luce ». 54
  • 61. PARTE II. L ’ A Z I O N E
  • 62.
  • 63. Le parole di congedo sono state pro­ nunciate il 25 maggio : sono un taglio ri­ soluto, netto — fra la preparazione e Tazione. Ora non c’è nell’anima del Poeta che una volontà e una necessità: essere il primo nel sacrificio come è stato il primo nell’incitamento : da questa fine di maggio al novembre 1918, e poi ancora, fino alla Marcia di Ronchi, la sua vita è dominata da questa legge : avvalorare la parola con l’atto; trasformare il verbo in carne. Ci potrà essere stato il desiderio della gloria, la voluttà del rischio, il sapore dell’avventura : tutteT quel che si vuole ; ma c’era sopra ogni cosa questa fonda- mentale espressione di onestà civile, che resterà nella storia del nostro popolo co­ 57
  • 64. me un esempio raro a tutti gli apostoli e a tutti i profeti : adempiere per primo e con più rigorosa obbedienza, il dovere esaltato nell’inno ed imposto nell’orazione: essere veramente un Capo; il quale sa che i gradi d’una gerarchia poggiano non tanto sopra un crescere di potere, quanto sopra un giganteggiare di responsabilità. Ma l’atmosfera ardente della guerra non è riuscita a liquefare le croste dei sistemi intorno all’intelligenza negli «abi­ tuali » : e i ministeri sono ancora, come in tempo di pace, diffidenti, prolissi, ca­ sisti : il poeta deve consumare gli ultimi 5 giorni di maggio e la prima quindicina di giugno ad ottenere l’arruolamento re­ golare nell’esercito. Luigi Cadorna, che ha compreso l’im­ portanza di questa volontà d’azione pronta ad ogni scatto, e di questo fermento ca­ pace di far lievitare le moltitudini ar­ mate, come già ha sommosse le folle, 58
  • 65. consente, in una lettera del 25 maggio, col desiderio del poeta di essere diretto par­ tecipe dell’impresa « alla cui preparazione Ella ha portato un alto contributo ideale »; ma bisogna riconoscere che nessuno, nemmeno i più illuminati, hanno ancora compreso di che cosa sarà capace l’uomo: il Cadorna stesso, nella medesima lettera, disponendo che il D ’Annunzio «sia desti­ nato al Comando dell’Armata che opera agli ordini di S. A. R. il Duca D’Aosta >, parla, sì, d’un « contributo d’opera e di pensiero, ch’io reputo prezioso », ma crede che il poeta si recherà via via « presso i comandi delle varie Armate, per assistere agli atti che si verranno svolgendo sul­ l’intera fronte dell’esercito», — e ha « la certezza che la vita così vissuta a contatto con la parte operante dell’E- sercito suggerirà al poeta, a guerra ulti­ mata, il proposito di narrarla ». Ma gli impiegati del Ministero non 59
  • 66. condividono nè le maggiori nè le minori speranze, e s’attardano in ricerche di do­ cumenti regolari e di convenienze legali, tanto che il D’Annunzio, dall’ansia all’im­ pazienza alla collera, irrompe in lettere amare a S. E. Antonio Salandra, una delle quali — del 18 giugno — accenna già velatamente a quel lavorìo di nemici in­ terni che il poeta ha già intuito, e che porterà al Paese tanto disonore e tanta rovina: « E’ la prima volta che iò chiedo qualcosa al Governo del mio paese, e non chiedo se non di servire » (par di cogliere il gesto iroso della mano che sot­ tolinea la frase !) « Alla mia offerta si op­ pongono piccole formalità che, nel mio caso riconosciuto « particolare » dal Co­ mandante Supremo, non hanno alcuna importanza ». « I giorni passano, e io sono qui nel­ l’inerzia, mentre tutti mi attendono là dove io debbo essere». « Forse i burocrati del 60
  • 67. Regno d’Italia desiderano che io ritorni nella Landa remota. Ritornerò alla soli­ tudine dopo la guerra. Ma penso che la lotta anche quella ideale, sia da prose­ guire ; e in proposito Le rivelerò qualcosa di molto grave, quando Ella potrà rice­ vermi ». Finalmente, il 19 giugno, nello stesso bollettino che nomina Guglielmo Marconi tenente di complemento in un battaglione ciclisti, Gabriele D’Annunzio è nominato tenente di complemento dei Lancieri No­ vara, e assegnato al quartier generale di Filiberto di Savoia. La sua fede « apostolica » dà ancora qualche sprazzo: il 24 giugno, alla folla di sei mila persone che s’aduna a Parigi nel Trocadero, per celebrare l’anniversario di Solferino, rammentando in un bellis­ simo telegramma che in quella battaglia dei popoli fratelli « nella rotta austriaca ebbe parte un fierissimo temporale che 61
  • 68. lottò dal cielo con i nostri », sentenzia con gioia : « il sole è sempre con i La­ tini ». Ma ormai le espressioni di oratore di­ ventano secondarie; egli parte incontro alla guerra e alla morte e per questo, come ogni fante italiano, come il Fante di Eugenio Baroni, nel monumento del San Michele, anche lui va a prendere il commiato dalla sua madre mortale: il « Notturno » rievoca quel momento con schietta commozione: accolto in trionfo a Pescara, cerca d’isolarsi, — risale con devota umiltà le scale della sua vec­ chia casa, traversa le stanze piene dei ricordi della sua infanzia, va a prostrarsi davanti alla santa che lo benedice nella ca­ mera nuziale, presso il talamo in cui egli è nato: è l’il luglio. Il 12 riparte in automobile per Roma; il 15 ha l’ultimo contatto con la folla del vecchio mondo, la quale l’ha riconosciuto, 62
  • 69. mentre egli, alle porte dell’albergo, s’im­ barca per Mestre, e gli leva intorno un rumore d’applausi che forse infastidiscono l’uomo ormai liberato da ogni ricordo della vita « di prima » e armato spirito e corpo per la battaglia: il 20 luglio dona a Ferrara il manoscritto della Parisina : altra separazione dalle memorie, e altro gesto per accendere altari di fede ita­ liana: ma il dono è già datato dalla fronte. Le prime prodezze sono sul mare : l’Amarissimo da lui tante volte agitato, il mare delle « Odi Navali » e della « Nave » non è più finalmente un mare imbelle : ed egli vi accorre come per sciogliere un voto : nell’anniversario di Lissa (sarà sempre del suo stile di guerra legare i suoi atti più prodi alle date più grandi, fauste ed infauste, della storia d’Italia) sul cacciatorpediniere Impavido, col capitano 63
  • 70. di fregata Pietro Orsini — posa uno sbarramento di torpedini contro la costa nemica : e ripeterà l’azione pericolosa ¡1 19 agosto. La sua vita s’immedesima sù­ bito con quella del popolo combattente: egli non si accrocca agli alti comandi : scende tra i fanti della terra e del mare: convive con loro: piega per loro in ar­ ringhe soldatesche la sua armoniosa elo­ quenza: il 22 saluta un reparto di mari­ nai che parte da Venezia per la linea ; li invita a vendicare con un’azione pru­ dente e audace l’Amalfi e la Garibaldi pugnalate a tradimento ; e già fin d’allora si sente che la sua figura, giganteggiando nell’opera civica e poi in queste prime mosse di guerra, assume caratteri leggen­ darii: l’Austria lo vede come un incubo sopra il suo cielo; con un bando eroi­ comico proibisce in tutto l’impero la rap­ presentazione di qualsiasi « pellicola girata in Italia dopo il 23 maggio» perchè tutte... 64
  • 71. sono opera « d’un nemico accanitissimo»: Gabriele D ’Annunzio. E in vero egli si prepara ad essere un’ala sul cielo nemico. Mentre la con­ vivenza con gli ufficiali di marina e i ma­ rinai gli si salda in una fraternità che lo onora, ed egli si accinge, in mezzo a questi fratelli, alle prodezze dell’ottobre, comincia — altro segno di coerenza — a delinearsi in lui poeta, la visione d’una necessità più alta: egli deve essere sulle battaglie, non più per una immagine d’inno, ma in una realtà storica, l’arcangelo che annuncia e stermina: già forse prende linee sicure nel suo pensiero quel pro­ getto di battaglia concorde della terra e del cielo, di cui un giorno detterà le nor­ me strategiche e tattiche, e che effettuerà con una così geniale larghezza di prepa­ razione. Ma intanto egli vuol portare a Trieste un primo messaggio per le vie dell’aria. 5 65
  • 72. E senz’altro inizia l’allenamento con quel Tenente di vascello Giuseppe Mira- glia, comandante della stazione degli idro­ volanti di Venezia, il quale sarà per troppo breve tempo il suo compagno perfetto, e diventerà uno dei più caldi rimpianti della sua vita, e avrà monumento perenne d’amore e di gloria nel «Notturno ». Ma all’ultimo momento, sulla fine di luglio, la pigra Roma dei Ministeri tenta di tarpargli le ali : forse non hanno fede nell’aviazione marittima, che è alle prime prove ; forse temono di lasciarlo troppo esporsi e di perderlo, dando al nemico soddisfazione e sollievo : il fatto è che l’autorità militare gli proibisce i voli. Fu come sfrugonare un ceppo ardente ; l’ira divampa magnanima in una lettera ad Antonio Salandra (30 luglio) in cui il poeta scatta: « Come è dunque possi­ bile, a proposito di me, parlare seria­ mente di « vita preziosa », del dovere 66
  • 73. «di non esporsi », e di simili «luoghi co­ muni » ?... « Ma io non ho vissuto, mio caro e grande amico, non ho vissuto se non per questo momento. Togliermelo è menomarmi, mutilarmi, annientarmi »... 11 divieto è tolto : e il volo si compie il 7 agosto. Partono alle 3,30 pomeri­ diane : alle 4,40 sono su Trieste : il poeta ha lavorato tutto il giorno a scrivere di suo pugno il messaggio, a preparare i sacchetti sventolanti di fiamme tricolori : i sacchetti son gettati con una nube d’al­ tre bandiere italiane appesantite di piombi, tra Piazza Grande e San Giusto : il mes­ saggio annunzia agli irredenti — che non sanno se non quanto dice al loro cuore ansioso il rombo della battaglia che or s’avvicina or s’allontana — le prime pic­ cole vittorie su tutta la fronte dal Tren­ tino all’Isonzo — e giura prossima la fine del martirio : « l’alba della nostra alle­ grezza è imminente »! Un velivolo au- 67
  • 74. siriaco sorge in faccia dal vallone di Mug- gia : proiettili esplosivi si schiacciano a poppa della macchina italiana : i piloti rientrano incolumi, le bombe lasciate ca­ dere sui bersagli militari, i messaggi sulle case pacifiche. Le azioni dal mare e dall’aria conti­ nuano .intersecandosi, e i discorsi guer­ reschi precedono e seguono le azioni : il poeta discende in sommergibile e resta som­ merso sei ore all’agguato, risalendo esau­ sto, ma fiero e ilare ; in presenza di Um­ berto Cagni, a un equipaggio pronto per l’incursione, parla : « E’ necessario scol­ pire la statua della più grande Italia nella più dura pietra del Carso, in vista del­ l’Adriatico » ; rivola su Trieste per una ricognizione (28 agosto), e, al ritorno, sof­ fermatosi a Grado, si impiglia nella folla che lo riconosce e gli si assiepa intorno : egli la investe con una breve orazione gioiosa. 68
  • 75. Trieste non lo rende immemore di Trento. Per Trento, come per Trieste, parte un pomeriggio : del 20 settembre : ma il volo è aspro : nuvolaglie impressionanti sbar­ rano la rotta ; foschìa compatta : il veli­ volo è squassato dal vento che ne ab­ branca ogni momento la prua ; ma proce­ dono ; finalmente, in fondo a un vortice di nubi, si scopre la città : in memoria dei 21 fucilati del Castello nel ’48, sono gettate 21 copie del messaggio, che è ampio, rievocatore, promettitore ; fa una cronistoria fedele e provata dei progressi italiani sulla fronte ; giura : « Non torne­ remo indietro se dalla Chiusa di Verona l’Adige non refluisca verso la sorgente ». La via per il campo è più rischiosa an­ cora, ma più facile : il vento in poppa si aggiunge al motore ; l’apparecchio è sol­ levato via a 130 chilometri l’ora: pare una foglia mulinata : shrapnels lo inse­ 69
  • 76. guono il capitano Ermanno Beltramo, giovine pilota, ma già esperto d’ogni ar­ dimento, confesserà poi di non aver mai fatto un volo così drammatico sull’orlo del pericolo. Nel messaggio a Trento una frase ci im­ pressiona : alludendo all’« obbedisco » di Garibaldi, prelude a Fiume. « Quella paro­ la, non scritta, ma vivente, sta su ciascuno di noi non come segno di divieto o di ri­ nuncia ma sì d’incitamento a operare e a pa­ tire cose più grandi che le nostre forze stes­ se. Noi non obbediamo, non possiamo ob­ bedire se non al genio inesorabile che ci spinge sempre più oltre ». La sera stessa dell’incursione il poeta parte in automo­ bile e passa metà della notte in trincea : inizia così una sua lunga visita che egli compie come osservatore e incitatore, se­ condo le già superate previsioni del Ca­ dorna, lungo tutto il fronte Trentino. E come l’incitamento valga, dimostra 70
  • 77. la lettera d’un ufficiale pubblicata T ll ot­ tobre dal « Corriere » : vi si parla d’un discorso tenuto a un reggimento vittorioso, nella cerimonia della consegna d’una meda­ glia d’argento al Generale Zanchi e del gran­ de effetto prodotto sulle milizie ascoltanti. La visita al fronte si stende via via a tutte le linee della Carnia, del Goriziano, del Carso ; ma non cessano i voli : il 21 ottobre, con una squadriglia da bom­ bardamento, superando vento e nebbia avversi, il D ’Annunzio si abbassa audace e lancia le sue bombe sul campo d’avia­ zione di Aisovizza. Ma farà di più: l’a­ zione è la sua vera espressione: la sua prosa s’è rinnovata, s’è fatta quasi metal­ lica; ma non può eguagliarsi alla musica delle armi. Mescolatosi ancora più con i marinai, li accompagna ed assiste nel tumulto della battaglia, con una cooperazione che pare l’allenamento alle gesta del Faiti e del Timavo. 71
  • 78. Parlando di Umberto Cagni nel « Not­ turno » il poeta stesso si lascia sfuggire un grido di orgoglio : « Egli sa quel che io feci, coi marinai, nell’ottobre del 1915 » ; e a Milano, nel teatro alla Scala, il 19 gennaio 1916, esclamerà: « Nelle gior­ nate sanguinose di ottobre ero in quella mite Isola Morosina tutta dorata e tre­ mula di pioppi, divenuta un inferno di fragore, divenuta la più grande e potente nave d’Italia, munita di cannoni navali serviti dai nostri marinai che compiono ogni giorno gesta sublimi ». Infatti il Cagni, che era a Venezia con la sua divisione, smantellava dei cannoni di grosso calibro, momentaneamente inu­ tili, certe navi e l’arsenale e, come egli narra in una lettera, mandava i suoi uomini a portare e piazzare i pesantis­ simi pezzi, nei pantani e nei canneti della laguna, più vicino che fosse pos­ sibile al nemico : era un disegno ge­ 72
  • 79. niale ed eroico : avveniva come se si fos­ sero ancorate navi insommergibili a tiro della costa nemica ; ma bisognava scavare a braccia i canali per il passaggio dei grossi pontoni che portavano gli affusti e le boc­ che. L’orlo della laguna e gli isolotti diven­ tavano un’ossessione per i nemici che con­ centravano su quella terra bassa il loro fuoco più rabbioso. Le prodezze dei no­ stri uomini si succedevano superandosi d’ardimento : il poeta era sempre tra uffi­ ciali e marinai, presente dove, sulle artiglie­ rie scatenate, infieriva di più il bombar­ damento nemico, a consolare, a incitare, a sospingere con la parola i reparti, a raccogliere con le braccia i feriti, a sor­ reggerli durante le medicazioni in una commovente dedizione. Ma la sua vena di poeta non ri­ stagna : nelle pause della battaglia egli evoca le grandi Ombre, gli Dei e i De­ stini, e canta al cuore della Nazione il can­ to della fede e del sacrificio. 73
  • 80. Il 2 novembre pubblica sul « Cor­ riere » : « Tre salmi per i nostri morti » : il modo metrico è un suo modo di guerra,' che riadoprerà sovente, perchè molto a- datto a contenere senza necessità d’ar­ tificio i getti improvvisi : sono versetti biblici liberi da ogni costrizione di rima, di verso e di strofe ; ma la libertà è solo apparente : fermenta nei disuguali periodi una voglia di canto che pare abbia vergogna di mostrarsi : in effetto non si capisce come questa forma si sia creata : gli endecasillabi di tanto in tanto ondeg­ giano colmi innalzandosi, e poi si rove­ sciano in se stessi come cavalloni marini dentro un mareggiare di prosa musicale ; ma sono essi interrotti dalla fretta che non permette troppo lunghi indugi all’ar­ tefice, e si hanno quindi ondate di canto, tra le quali il poeta ha lasciata fluire la prosa, — oppure il poeta ha voluto espri­ mersi in prosa, per bisogno di farsi umile 74
  • 81. e disadorno, ma contro la sua stessa vo­ lontà, la prosa s’è innalzata, per il pre­ potente impeto dell’ispirazione, in sonori versi, e ne sono balzate inconsciamente le strofe compiute, per riatterrare in per­ fette cadenze ritmiche ? I Morti sono glorificati e santificati con una certezza impressionante della vittoria (siamo nel 1915), pur nella consapevolezza ormai piena delle crescenti difficoltà e della vastità del sacrificio inevitabile ; e note profetiche audacissime, come l’ accenno alla spartizione delle terre e dei mari dopo la guerra, e la grandezza e il peso del­ l’ossame del S. Michele, si legano a mo­ tivi musicali e poetici, come le carezzanti parole d’amore per Zara, che ritroveremo in una musica più spiegata e raggiante nel cantico per l’Ottava della vittoria. I Salmi sono compresi dal popolo e ammirati ; Genova li vorrebbe ascoltare detti alla moltitudine ; ma il D’Annunzio, 75
  • 82. che non vuole nè dimenticare nè sciupare i giorni di Quarto, promette che scriverà per Genova un canto nuovo: e il 10, nella Superba, aristocrazia e popolo, cir­ condano la prima volta con un abbraccio d’amore i feriti e i convalescenti e, al Carlo Felice — nello stesso luogo in cui un giorno Goffredo Mameli aveva lanciato alla moltitudine il suo Inno « Fratelli d’I­ talia » ancor caldo dell’incudine — ascol­ tano la prima delle « Preghiere dell’Av- vento », pronunciata, dopo i « Tre Sal­ mi », dalla voce di pianto e di canto d’Italia Vitaliani : « Per i morti del mare » ! In maschie strofe saffiche si evocano i morti colati a picco dal tradimento, e par che singhiozzi lo stesso dolore virile e si incupisca la stessa nostalgia della battaglia navale non combattuta, che agita i carmi per l’Ammiraglio di Saint-Bon delle Odi Navali : dai fondi marini gli eroi atten­ dono che Roma li chiami al resurressi. 76
  • 83. Indimenticabile giornata : la voce del poeta ha ancora la virtù suscitatrice del maggio. E non resta. Per il palazzo comunale di Cervignano, la prima città liberata, detta una epi­ grafe; per Zara prepara un disegno con la pianta della città e l’autografo di un passo dei « Salmi » ; per la Serbia scrive la sca­ bra ode « imbevuta di sangue » che egli sa intonare così bene all’epica popolare di quel popolo primitivo — e che la cen­ sura gli mutila cautamente ; ma egli se la stampa per conto suo, integra, e la dona agli amici. Una febbre improvvisa lo obbliga all’i­ nerzia, gli fa pregustare i lunghi martirii morali e fisici del Notturno ; ma una feb­ bre più maligna gli è inoculata dagli av­ versari della guerra. Un deputato socialista, in pieno parla­ mento, e proprio mentre il poeta dà prove 77
  • 84. così chiare della sincerità della sua fede, gli lancia in viso l’accusa che egli ha mercanteggiato il suo ritorno dalla Fran­ cia, ed è venuto a Quarto accompagnato da donne, facendo mantenere sè e le a- miche dall’ospitale Comune. Ne nasce un’incresciosa polemica, che, secondo il nostro costume di frugatori delle nostre ferite, si trascina per i gior­ nali : per quasi un mese il tanfo del pet­ tegolezzo ci ammorba : il poeta è obbli­ gato a intervenire un paio di volte con scudisciate : l’8 dicembre egli afferma (e si nota, perchè questa è un’altra testimo­ nianza della sua preveggente fede) : « Io non ho mai pensato di lasciare l’italia dopo la guerra. Ritornai nell’ora del pe­ ricolo per dare alla mia patria tutto me stesso. Resterò nella mia patria per lottare con tutte le mie forze contro il nemico interno, che, come l’esterno, deve essere perseguitato e annientato. Io ho nell’una e nell’altra vittoria una fede ¡robusta^». 78
  • 85. Finalmente chi scrive queste note potè recare una prova che troncò la polemica di colpo, dimostrando la falsità e la mala fede dell’accusa. 11 12 dicembre esce la seconda delle Preghiere dell’Avvento : « Per la gloria ». E’ d’una quasi rabbiosa violenza pro­ fetica : rappresenta in sintesi epica il pe­ riodo della neutralità : da una parte gli incitamenti quasi ostili dei futuri alleati, dall’altra gli sconci blandimenti senili degli alleati d’allora e del servidorame romano : l’Italia che attende in ambascia, meditando la sorte, pare nel canto una statua di bronzo ; quando si slancia, come leo­ nessa nella lotta, la strofa si dilata e ac­ cende : e il grido profetico affiorato già nei « Tre Salmi >, sfugge al poeta che già (1915 !) ha noverati i morti e presen­ tita la dimenticanza dei popoli camerati : « Di poi verranno i savii partitori — e distribuitori della terra ; — sicché cia­ 79
  • 86. scuno, giusta la sua guerra, — godrà la parte e succerà gli onori. — Ma tu fa, Dio d’Italia, che al tuo cenno — gettiam nelle bilancie lor cortesi — un ferro ancor temibile, che pesi — più della spada bar­ bara di Brenno ». Non è ancora il poeta della « Canzone dei Dardanelli » e dell’« Ode alla Na­ zione Serba » ? non è già il poeta della Marcia di Ronchi e di « Contro uno e contro tutti » — sebbene permanga in lui così serena la fede nella rinascita e nella missione latina nel mondo ? E l’avvenire, costantemente aperto da­ vanti ai suoi occhi, illumina le strofe ; dopo avere scritte altre « Preghiere », « Per il Re », « Per la Regina », getta giù la più maschia : quella « Per il Ge­ neralissimo » il quale gli pare, in figura e in spirito, più grande del Colleoni, e fin d’allora, gli si mostra, come poi tutti lo vedemmo, ritornante alla sua Pallanza, « sol di silenzio pago ». 80
  • 87. La frase non poteva ancora significare l’amarezza che traboccò nella lettera scritta dal Cadorna l’8 ottobre del 1923 : ma i poeti hanno infallibili presentimenti. Il 21 dicembre è una delle più tristi date della sua vita. Giuseppe Miraglia, in un volo di prova nel cielo di Venezia, precipita, e muore insieme con Giorgio Fracassini. Egli era l’eletto dal destino a compagno di pro­ dezze del Poeta : colui che poteva dire : « Se proponessi a Gabriele D’Annunzio di volare su Vienna, risponderebbe sem­ plicemente : « Andiamo » ; si siederebbe sul seggiolino e non si volterebbe più in­ dietro ». Formavano « la coppia virile, la coppia da battaglia, conduttore e feritore », vo­ tati com’erano con eguale serenità e de­ cisione alla morte : « la necessità eroica della coppia alata, quando sia sopraffatta, è l’arsione totale ; — sapevamo che la 81
  • 88. nostra impresa era disperata — e non desideravamo di sfuggire alla bella sorte ». Si preparavano : il poeta vuol gettare, in una incursione su Zara, un appello agli Italiani della Dalmazia : è un desiderio di consolarli, ed è il bisogno di un’ideale presa di possesso di fronte ai nemici e agli alleati : è già preparato il sacco dei messaggi « come quelli di Trieste » ; su­ perate le solite limitazioni odiose degli uffici, i due fratelli hanno già allenato anima e corpo in parecchie incursioni ae­ ree sulla costa nemica dall’agosto al di­ cembre : hanno infine scelta la data : il 23 ; ma il 21 il sogno si spezza. La prima parte del « Notturno » è tutta premuta dal dolore del poeta per quella morte. Egli vorrebbe tuttavia eseguire l’incur­ sione ; gli pare che, se non compirà l’atto, sconsacrerà la fede : e la sua ira è sopra tutto contro la morte che gioca a rispar­ 82
  • 89. miarlo : già una volta Alfredo Barbieri è stato mitragliato nel capo, sedendo al po­ sto esatto che avrebbe dovuto occupare Gabriele D ’Annunzio, se un incidente non gli avesse impedito di partire : egli re­ spira l’atmosfera delle morti sublimi e delle resurrezioni, e vorrebbe essere nel nu­ mero di questi consacrati : Luigi Bailo, Oreste Salomone. Ma il volo su Zara gli è vietato. Egli non si disanima, e continua a prodigarsi nei voli alterni dell’ala e del­ l’ispirazione : col tenente di vascello Bo­ logna compie una lunga serie di fruttifere ricognizioni sulla costa istriana, e pubblica frattanto a celebrazione della Notte di Natale una lirica nuova : « Il Rinato » : Gesù nasce in trincea, è fasciato nelle fasce da piedi ; soffre tutti i disagi, ma « colui che è il più forte era il suo nome ». La sua poesia frattanto s’espande e mo­ stra d’essere veramente seme eroico : L’O ­ 83
  • 90. de alla Nazione Serba è tradotta dai pri­ gionieri serbi del Castello di Cavi in Li­ guria, i quali una strofe v’aggiungono per fraterno compenso : l’ultima : « Iddio con­ servi il poeta latino — e ne diffonda la gloria nel mondo — fin che il bosco s’a- dorni d’alloro, fin che vi saran canti ed eroi » : e promettono al cantore, nei modi della loro lirica barbara, due focacce per il suo pane di gloria... Chi se le divorò nei giorni delle trattative di pace ? Trieste è sempre la prediletta delle sue incursioni : il poeta rivola su San Giu­ sto il 17 gennaio 1916: in un caldo messaggio annuncia la morte di Timeus, Venezian, Slataper, Pitteri : ripromette più saldo la liberazione ; al ritorno lascia ca­ dere sulla piazza San Marco di Venezia, alla folla, un messaggio di risposta della sorella schiava. Potranno parere « gesti », se pure com­ piuti nel rischio e con valore ; ma il sor­ 84
  • 91. riso degli scettici si spegnerà quando essi sapranno che a Trieste, nella stessa sera in cui era stato gettato, il messaggio, non ostante gli occhi irrequieti ed aguzzi di poliziotti e di spie, correva segretamente la città in un’edizione poligrafata di 10.000 copie, letto avidamente, si vorrebbe dire mangiato avidamente, come pane dell’a- nima affamata. Ma il pensiero dei fratelli insidiati dal­ l’Austria non faceva dimenticare al poeta quelli che insidiava il disfattismo. Il 19 gennaio viene a Milano in automobile da Venezia, invitato a leggere alla Scala le due nuove « Preghiere per i Combattenti e per i Cittadini ». Si può immaginare la folla : il teatro è un vortice umano. Egli parla : ancora una volta profeta, af­ ferma : « Anzi io dico che da oggi le sorti della guerra, non tanto dipendono dalla prodezza dei soldati, indubitabile, quanto 85
  • 92. dalla pertinacia dei cittadini » ; — «ogni cittadino sia un combattente » ; l’entusia­ smo dei Milanesi rammenta quello dei Romani nel maggio al Costanzi : si ven­ dono suoi manoscritti per gli orfani di guerra ; il popolo si riversa in città ri­ temprato alla resistenza ; il poeta riparte il 20, per andar a inaugurare un ricordo marmoreo al Miraglia. Ed ecco che, nel mezzo della sua ope­ rosità più febbrile ed efficace, il destino gli ritraversa la strada. In un periodo di fervore grandissimo, durante il quale si prepara al volo su Lu­ biana, e dopo che ha assistito alla ceri­ monia della consegna della medaglia d’oro al capitano Salomone — durante una delle tante rischiose ricognizioni su Trieste e l’Istria, è costretto ad atterrare, con l’i- drovolante pilotato dal tenente di vascello 86
  • 93. Bologna, in vicinanza del nemico : nel­ l’ammarraggio l’apparecchio ha un urto d’estrema violenza : il poeta è ferito al­ l’occhio destro : gli si produce un ampio distacco di rètina con una pericolosa e- morragia retinica. Egli non se ne pre­ occupa, e vuol compiere la sua mis­ sione : tornato, non soltanto non si lascia nè curare nè visitare, ma riprende due o tre volte i voli, fin che non s’accorge che l’occhio gli s’è spento del tutto. Allora si concede ai dottori. La sua prima sosta è in un ospedaletto da campo, « su la riva dell’Ausa, nericcia come una gora di gualchiere » : i ciechi e i feriti agli occhi, tutti bendati, gli si accalcano intorno : mormorano : lo chia­ mano per nome, lo palpano : uno dice con una indefinibile voce di dolore e stu­ pore : « Questo è quell’uomo ». Nel «Notturno » la rievocazione di quel­ l’ora è una delle pagine più belle, pure. 87
  • 94. 11 poeta è trasportato a Mestre il 25 febbraio, poi a Venezia : lo assistono il prof. Orlandino e il medico d’ Ago­ stino. La ferita appare subito grave e di gravi conseguenze, sopra tutto perchè fu tra­ scurata : c’è il pericolo della cecità totale, specie se il poeta tenterà di rivolare a grandi altezze. Pare che il sogno eroico si sfasci e pre­ cipiti, come un velivolo dentro una palude. Ma Gabriele D’Annunzio ha fede nella sua volontà di ferro : sa che supererà anche questo frangente. E comincia allora il sottile martirio. Egli s’è raccolto a curarsi a Venezia nella « Casetta Rossa » del Principe Fe­ derico Hohenlohe — già presa in fitto, da quando l’Austriaco, sebbene nato a Venezia e innamorato dell’Italia, ha do­ vuto migrare in Svizzera : è un gingillo caduto a qualche giovinetta Morgana pe­ 88
  • 95. regrinante a volo sul canale : piccola, ricca, fragile come una scatoletta di porcellana, e preziosamente settecentesca « dal cam­ panello della porta, alla gabbia del cana­ rino placcata e dorata ». Mesi di pazienza eroica, scossa da im­ provvisi desideri d’azione come sopras­ salti della volontà guerriera, tormentata dalla costrizione all’immobilità e dal de­ lirio lucido, — vita di morto che medita, e anela alla resurrezione : il poeta l’ha rappresentata nel « Notturno » con po­ tenza drammatica e con così sagaci a- nalisi del suo stato fisico e psichico, che qualche studioso ha potuto considerare le sue pagine come documento di espe­ rienze scientifiche. « Il capo più basso dei piedi, i piedi congiunti, i gomiti contro i fianchi, la bocca aperta e arida, il cuore ambasciato, avvolto nel torpore, nel su­ dore, nel patimento, nel tedio, nella di­ sperazione », egli subisce i giorni, le ore, 89
  • 96. i minuti come un peso che Io soffoca ; ma vuol guarire, e resiste : e non perchè gli premano salute e bellezza : vuol ri­ prendere le armi : il senso della guerra la quale è intorno a lui senza ch’egli vi par­ tecipi è la sua vera tortura : qualcuno parla nella camera attigua alla sua : « Odo il nome di Patria, e un gran brivido mi at­ traversa ». Appena la notizia della sua ferita si diffonde, una pioggia di telegrammi si rovescia sulla « Casetta Rossa », a pro­ vare quale posto egli abbia occupato nel- l’anima della nazione combattente: ci sono i potenti e gli umili, i grandi e gli ignoti, gli Italiani e gli stranieri: il Ca­ dorna, il Duca D’Aosta, il Salandra, il Marconi, il Salomone. Il suo stato d’a­ nimo è riassunto nella risposta a Filiberto di Savoia: « perchè io possa presto ria­ vere l’onore di servire sotto gli ordini del Capo che deve condurci al di là del 90
  • 97. Carso a Trieste » : la mente è vigile, il cuore la scalda; al Salomone risponde fraterno che si curi anche lui, che ricon­ quisti le forze, e si prepari ; al Presidente della Lega Aerea Nazionale, che tutti gli Italiani si iscrivano « accomunati nella vo­ lontà di rendere sempre più vasta e po­ tente l’ala d’Italia»; e, in un poetico dispaccio al Barrès, dopo avere espressa la sua ansia per la battaglia di Douamont: « non impensieritevi dei miei occhi, fra­ tello, ma salvate la bellezza del mondo per gli occhi novelli ». Trento, Trieste, Zara gli rivolgono commoventi parole per bocca dei loro fuorusciti; i marinai del­ l’isola Morosina gli rendono il conforto che ebbero da lui nei giorni dell’otto­ bre; e, mentre i giornali italiani seguono ansiosi le vicende della sua cura, quelli di Francia esaltano l’opera del poeta, ri­ conoscendo schiettamente che egli è stato anche per il loro Paese un risvegliatore 91
  • 98. e un incitatore : il « Figaro » gli telegrafa provocando una risposta in cui il D’An­ nunzio rammenta e documenta la veridi­ cità di sue predizioni che il « Figaro » stesso ha pubblicate in primavera «in Arie­ te » ; e il Rostand, con movimento di grazia artificiosa, gli chiede d’oltre le Alpi: « Sento che siete curato da vostra figlia : si tratta della vittoria italiana? » In queste condizioni di corpo e di spi­ rito il poeta riceve l’annuncio della me­ daglia d’argento per le sue imprese tra il maggio e il febbraio: al Ministro che lo ha informato il 23 marzo, risponde : « Trenta anni di amore alla marina hanno ora il loro suggello »: c’è la gioia ma­ schia dell’uomo che ha attuato eroica­ mente il suo sogno! E poiché la decorazione fa raffittire i te­ legrammi di saluto e di augurio, egli, a quanti può, risponde, variando con fresca fantasia l’espressione d’una medesima osti­ 92
  • 99. nata fede, che è più nettamente incisa in un dispaccio al « Gazzettino » : «Scrivo a occhi chiusi, spero di ricombattere a occhi aperti ». Da principio il limìo del non poter ado- prar la penna era stato per il poeta un insopportabile tormento : « Quando la du­ ra sentenza del medico mi rovesciò nel buio, m’assegnò nel buio lo stretto spa­ zio che il mio corpo occuperà nel sepol­ cro... dalla prima ansia confusa risorse il bisogno d’esprimere, di significare ». Gli era vietato il discorrere ; non poteva vin­ cere con la dettatura « il pudore segreto dell’arte che non vuole intermediarii fra la materia e colui che la tratta »; l’espe­ rienza lo dissuadeva « dal tentare a oc­ chi chiusi la pagina». Ma il mito delle Sibille « che scrivevano la sentenza breve sulle foglie disperse al vento del fato », gli suggerisce d’improvviso la maniera. E comincia a riempire della sua scrit­ 93
  • 100. tura robusta i cartigli che Renata gli taglia « in liste... stese sul tappeto della stanza attigua, al lume d’una lampada bassa », mentre « il fruscio regolare della carta » evoca al poeta « quello della ri­ sacca a piè delle tamerici e dei ginepri riarsi dal libeccio ». «Sollevo leggermente le ginocchia per dare inclinazione alla ta­ voletta che v’è posata. — Scrivo sopra una stretta lista.... che contiene una riga. Ho tra le dita un lapis scorrevole. Il pol­ lice e il medio della mano destra, pog­ giati sugli orli della lista, la fanno scor­ rere via via che la parola è scritta. Sento con l’ultima falange del mignolo destro l’orlo di sotto e me ne servo come d’una guida per conservare la dirittura ». Così finalmente può liberare il suo pensiero che si torturava nella clausura, ed esprimere le visioni che gli s’accendono nel fondo dell’occhio ferito, con un’eccita­ zione nervosa a cui concorre la ferita stessa. 94
  • 101. La cura sopportata con la pazienza di uno stilita par che giovi all’occhio ; ma appena egli — che a volte ha impeti di ribellione in cui vorrebbe strapparsi le bende e saltare a terra — tenta di alleggerirne i divieti, sul principio di aprile, il regime deve essere rincrudelito; le forze non sono più adeguate alla sop­ portazione: l’esaurimento nervoso minac­ cia la vita del poeta. Allora, dopo il cin­ que maggio (l’anniversario dei Mille inon­ da di nuovo di rimpianti e d’auguri la « Casetta Rossa ») si chiama per un nuo­ vo consulto il Cirincione dell’Università di Roma : la diagnosi conferma la gravità della ferita (« inferto ematico sottocoroi- dale sollevante insieme corolla e rètina ») e la scienza rimprovera al malato le brevi fughe dei giorni trascorsi, quando egli si faceva condurre di soppiatto per qualche ora in uno dei più bei giardini della Giu- decca, a respirare se non a contemplare il 95
  • 102. verde e l’azzurro : tuttavia i medici gli con­ sentono che si rimetta in piedi: soltanto dovrà camminare lento, cauto, con la fac­ cia sollevata come i ciechi : e soltanto di sera potrà tentare i primi passi all’aperto. In queste contingenze gli viene offerta una seconda volta la consegna della sua medaglia d’argento: ostinato egli rifiuta ancora: non la vuol ricevere se non in arsenale, appena guarito, e pronto ai voli nuovi : da vivo, non da morto : par che si sforzi di porsi davanti una mèta. E continuano le visite, i telegrammi : gli amici di Francia gli mandano in aprile lo scienzato Laudolt, che rechi notizie dirette : quegli non sa se stupirsi più della gravità dello « scollamento della rètina » o della pazienza delle otto settimane di immobilità, ammirevole per un tempera­ mento così irrequieto e avido. E il D ’An­ nunzio può annunciare questa visita al Capus con una lettera di suo pugno. 96
  • 103. Nel maggio, l’anniversario della guerra riaccende intorno al poeta l’attenzione e la speranza degli spiriti più colti : innumerevoli i messaggi : caratteristiche alcune ambascerie come quella dei rap­ presentanti della Scuola Italiana : egli approfitta d’ogni occasione per svolgere almeno il suo apostolato di fede e di forza: ridimostra l’inevitabilità dell’inter­ vento, rievoca la battaglia civile da Ge­ nova a Roma, chiama quei giorni, i più belli della sua vita: — i giornali diffon­ dono il seme della sua parola. Ma ecco, scoppia l’offensiva austriaca nel Trentino: i Tedeschi irrompono oltre le nostre linee; l’esercito s’accavalla in on­ date contro la minaccia : il Cadorna fa in poche ore balzare in piedi un esercito im­ provviso, manovra per la controffensiva, ri­ caccia su per le gole l’Austriaco: — la marea degli elmetti grigi, fiottando di baionette, refluisce sulle linee del Carso, 7 97
  • 104. e, come in una vasta ondata di risuc­ chio, passa l’Isonzo, circonda Gorizia, la scrolla: Gorizia è presa. Dalla fine di maggio ai primi d’agosto il patimento del poeta per la sua immobi­ lità diventa insopportabile : le nostre trin­ cee finalmente avanzano: l’esercito cam­ mina: avvenimenti forse decisivi, sono prossimi ; ed egli non può che aspettare le notizie : è un escluso : « Le giornate di Santa Gorizia mutarono ogni ansia ed ogni impazienza in una disperazione risoluta». — « Seppi allora quel che significassero le parole di Michelangelo: « Non nasce in me pensiero che non vi sia dentro scolpita la morte ». Certo l’Italia ha perduto in quei mesi molta luce di bellezza eroica per l’assenza del poeta dalla fronte. Sarà la prima e l’ultima volta. Ormai tutto fa sperare che la condanna sia scontata. Sulla fine di giugno, Mau­ 98
  • 105. rice Barrés pubblica a Parigi la narra­ zione d’una visita al D’Annunzio, che rincora: ha assistito col poeta ai con­ certi della «Casetta Rossa », tenuti da ar­ tisti in grigio-verde; l’ha accompagnato in una passeggiata romantica nel cuore notturno di Venezia, fra le tenebre e i lumini azzurri: i grossi occhiali neri, il corpo perduto nel largo mantello d’uf­ ficiale, il volto e le mani smagrite dalla sofferenza, ma la parola sempre più fiera e vigorosa e colorita: egli è ancora, pur così logorato, l’animatore della nazione, colui che « ha precipitato » il destino, «a grandi colpi di discorsi-odi»; colui che ha battuto il partito dello straniero, incalzan­ dolo da Genova a Roma. A questi riconoscimenti s’aggiunge una gioia intima: la Renata del «Notturno» che gli agitava l’anima di dolcezza quando il mattino leggeva a lui cieco i cartigli che egli aveva scritti nella notte, quella 99
  • 106. che riempie le pagine del martirio d’una commozione pura e umana quale il D ’An­ nunzio non rivelò mai così semplice, si sposa con il Tenente di Vascello Silvio Montanarella. E’ il segno della liberazione ? La cu­ stode ferrea e delicata dei divieti si ritira, perchè i divieti non han più valore? Il 18 d’agosto infatti Gabriele D’An­ nunzio, in piedi, all’aperto, parla: il suo occhio può resistere al tremito metallico della sua parola scandita : egli porge il sa­ luto dei camerati superstiti a un caduto: all’aviatore francese Jean Ronher: è il canto della bella morte, cantato da lui che la morte non volle prendere ; l’inno al sorriso latino della Francia, che san­ guina sotto il furore tedesco. E allora tutte le città d’Italia gli chie­ dono la parola che è alimento : egli promette; promette a Roma l’orazione inaugurale dell’ esposizione garibaldina : 100
  • 107. « mostrare al popolo le sublimi reli­ quie è accendere nel paese un focolare di eroismo » ; promette a Genova l’ora­ zione per Nazario Sauro, che ha cono­ sciuto ed amato e per cui ha tanto tre­ mato d’angoscia. Ma non manterrà: l’azione lo ripren­ derà tutto fra poco. Egli si riavvicina alla fronte: a Venezia si incontra col ministro Scialoia, rievoca le glo­ rie aviatorie dell’Italia e s’accende: a Capo d’istria visita la vedova del martire, rie­ voca l’Eroe profondamente amico e si sublima nella aspirazione ad eguagliarlo... E’ alle soglie della vita nuova. Le varca. 101
  • 108. I it»#toiff tjÇ-,■, • ■# ¿Í ■/ & ' '■■:- .f : 1' ? v '!>'vV - . 1 •',1;“ ’ • ' ’ ÆW
  • 110.
  • 111. « La data della mia rinascita è il 13 settembre 1916 ». Egli era guarito, di certo ; ma non ostante sette mesi di crucciosa inerzia il « visus » dell’occhio destro era abolito, « in modo assoluto e permanente >. E di più una predizione infausta : se vo­ lerà a grande altezza, o gli sbalzi di pres­ sione, o i sussulti e i tremiti della mac­ china gli riapriranno la ferita : e questa volta soffrirà e poi se n’andrà anche roc­ chio sano : sarà la cecità totale. Egli assume sopra di sè la responsabi­ lità, e rivola. In un’azione in grande stile, un’incur­ sione di idrovolanti su Parenzo, riprova il suo sangue freddo ; ma per fortuna non 105
  • 112. risente nè delle vibrazioni del motore, nè del sobbalzar del velivolo in acqua. « O giornate di Parenzo, pomeriggio di settembre torbo e chiaro, con qual segno ti segnerò nella mia tavola votiva? Conducevo il secondo gruppo dei bom­ bardieri navali: Luigi Bologna, che era di nuovo il mio pilota, conosceva la mia prova, e la secondava maschiamente, con un cuore senza fenditure. Il bordo della carlinga sulla mia destra, era libero a di­ segno. Avevo preso tra le mie gambe una giunta di quattro bombe in gabbia, da lanciare a mano ; e avevo messo con­ tro l’altimetro il pronostico della cecità subitànea. « A partire dai duemila metri di quota feci alternativamente l’osservazione oftal­ mica e la fumata per tenere il gruppo riunito dietro la mia fiamma blu. « A tremila metri il monòcolo vedeva. A tremila e duecento metri vedeva. A 106
  • 113. tremila e quattrocento vedeva, « pur con l’uno ». « Il pilota si voltava a un tratto verso di me con un cenno; con un cenno gli davo il risultato dell’osservazione. Dialogo indimenticabile dell’amicizia guerriera nella grande altezza »... Giunto al punto d’attacco « Luigi Bo­ logna calò a milleseicento metri... Nel brusco cangiamento di pressione, vedevo ancora». Il poeta si sentiva così lieto, che lassù « avrebbe potuto cogliere una stella dell’empireo » e giù al ritorno, gli parve che i compagni aspettanti, nel sol­ levarlo sopra le loro spalle, lo « esaltas­ sero alla cima della loro gioventù ». Riaperta la strada al suo ardimento, sùbito lo riprese la foga dell’animatore, l’avidità del combattente: come può an­ dare all’inaugurazione della mostra gari­ baldina, che egli vorrebbe tenuta nel ri­ scattato Palazzo Venezia ? Si prepara 107
  • 114. l’offensiva del Carso : meglio oprare che parlare : manda il manoscritto de « La notte di Caprera » chiuso nel fermo di sicurezza di una delle bombe di Parenzo : ricorda, come per incitamento a se stesso, la sua invitta ostinatezza contro l’Austriaco, e la spada senza elsa donata da Trieste a quel Menotti che un giorno egli ha por­ tato morto sulla sua spalla : quella spada vorrebbe recare al Cadorna egli stesso. Ogni suo gesto, ogni sua parola ha una vibrazione bellica. Al padre del Miraglia, celebrato a Na­ poli in memoria dell’eroe, telegrafa: « Egli è qui con me al suo posto di combat­ tente » ; al Generale Gandolfo, promosso per le prove del San Michele, manda una copia delle orazioni « Per la più grande Italia » ; agli studenti di Busto Arsizio, che gli chiedono di intitolare a lui il loro Convitto, risponde che ha gioia dell’atto sol perchè l’annuncio gli giunge in trincea. 108
  • 115. Par proprio ch’egli voglia riscattare i suoi mesi di inerzia. E siamo giunti infatti al periodo delle sue prodezze più belle, tra la fine d’ot­ tobre e il principio di novembre : « le giornate del Vallone, di Doberdò, Quota 265, del Veliki, del Faiti ». Per evitare il disagio della benda « fa­ stidiosissima nel servizio aereo », si era voluto per qualche mese tenere alla terra : accolto come tenente di complemento in servizio di collegamento nella 111 Armata, era stato assegnato alla 45a divisione : l’esercito preparava l’azione : egli prepa­ rava se stesso : e non era facile ! la virtù visiva sregolata, non misurava più le distanze : le ineguaglianze ed asprez­ ze del terreno carsico moltiplicavano la gravità del difetto : quando correva erano continui inciampiconi e cadute da cui si rialzava sanguinante, rimpiangendo le ali : « senz’ali non può ». 109
  • 116. Nacque allora, dal suo tormento e dalla costrizione del suo pensiero, quel « me­ moriale » a Luigi Cadorna, nel quale, con entusiasmo di poeta fecondato da una si­ cura preveggenza pratica, egli, primo, det­ tava le norme per la tattica di azioni com­ binate tra squadriglie di aerei e battaglioni di fanti : azioni che poi vennero in realtà condotte con straordinari effetti ; egli non soltanto seppe allora immaginare una bat­ taglia che a un poeta poteva rammentare la lotta degli arcangeli che nei poemi classici sorvola,, incitando e aiutando, la battaglia degli uomini, — ma precisò di simile sforzo i piani, e contribuì poi ad attuarli con sorprendenti doti di soldato. In quei giorni di preparazione conobbe il suo ardimento la punta del saliente o- rientale della 111 armata (San Giovanni, Quota 28). Ma il suo eroismo si affermò nelle giornate del Veliki Kribach e del Faiti Krib. HO
  • 117. Nella prima fase in cui l’esercito pal­ pava il terreno dell’azione, egli, acuendo la vista con uno sforzo della volontà, si cacciava sempre in prima linea, per o- rientarsi sulla natura dei luoghi e sugli scopi del combattimento ; riportava dati precisi, vedute tattiche geniali ; e frattanto incuorava i soldati che erano orgogliosi e rassicurati di quel vederselo sempre ac­ canto operoso, scoperto, intrepido : in una dolina avanzata parlò ai difensori sotto il tiro, a pochi passi dal nemico : e i sol­ dati ne furono tanto commossi, che bat­ tezzarono la dolina col suo nome. Ma quando l’assalto scoppiò con il ro­ vinoso impeto d’una bordata di proiettili, egli fu tra i soldati a gomito a gomito, con calma, con sprezzo del pericolo, li incitò, li sospinse : distribuiva, ritto in mezzo a loro, parole che mordevano il cuore, e bandiere che subito sventolavano sopra la rapina dell’assalto. i l i
  • 118. Furono le giornate del 10-13 ottobre; poi del 1-3 novembre : indescrivibili ; egli ne uscì promosso capitano per merito di guerra, e proposto per una nuova me­ daglia d’argento ; ma ne ebbe premio più grande : tre prose eroiche composte in esaltazione del suo valore da quel Gio­ vanni Randaccio che fu maestro di ardi­ mento ai più prodi : il fante dei fanti. Fe­ rito al Faiti e portato all’ospedale da cam­ po 031, il Randaccio, il 7 novembre, chiese un foglio : non c’era : trasse dalle tasche della sua giubba la carta topografica che gli era servita per dirigere la battaglia, e scrisse sul rovescio i tre inni in prosa che piacquero al poeta più d’ogni altro onore. 11 D ’Annunzio stesso ha dipinta quella battaglia come in un affresco nell’orazione « La corona del Fante » rivolta nel 1917 ai suoi compagni superstiti : Ai lupi della Brigata Toscana: 70° Reggimento, se­ condo Battaglione. 112
  • 119. « Era la ferie d’Ognissanti... Una bat­ taglia d’oro in una luce d’Oriente... certo, tutti i santi della Patria avevano gettato le loro aureole in quel punto dell’aria dove i soldati balzavano all’assalto. Non s’era mai veduto tanto rilucere gli uomini, tanto le cose rilucere. 11 sole s’avanzava come una trasfigurazione... la dolina... la bocca della caverna... lo zaino di tela sulla schiena dei fanti... le croci d’abete splendevano, le barèlle splendevano, e i dischi della conquista splendevano come ostensorii. E più di tutto splendeva il sangue... Le gra­ nate talvolta avevano un suono chiaro di grandi cimbali percossi. Pareva che anche gli scoppi si dorassero. Erano talvolta co­ me potenti battute di timpano nell’oro... Gli assalitori cantavano... I Fanti morde­ vano l’azzurro. La luce moltiplicava d’at­ timo in attimo l’impeto. L’impeto era una ascensione celeste. La forza rimbalzava dalla morte... Bastarono cinquanta minuti 113
  • 120. di ebbrezza. A mezzogiorno il Veliki era nostro. I prigionieri balbettavano : « Co- m’è possibile »... « Si rinnovava il portento del Sabo­ tino... Come la gran lena della nostra vit­ toria superò la groppa feroce precipitan­ dosi giù per i rovesci, così abbandonò essa dietro di sè il Veliki ignudo e deserto per correre più oltre ». Il D ’Annunzio ch’è rimasto sempre in piedi tra i fanti, seguendo l’assalto nel suo vortice progressivo, ha data una ben chiara prova di giovinezza. Con i compagni ufficiali partecipa al consiglio di guerra, tenuto dopo il primo assalto vittorioso in una caverna : « acco­ sciati sul sasso nella cripta selvaggia, la bandiera spiegata sulle nostre ginocchia... un solo mozzicone di candela ardeva a terra... Coi guizzi e colle ombre serviva a rendere piò crudo, fra mento e fronte, l’intaglio del proposito in quei volti os­ suti. Quando si spense, ciascuno ebbe la 114
  • 121. sua luce in sè. Tutti balzammo in piedi, primo Giovanni Randaccio ». E mossero alla conquista del Faiti. Una granata scoppia presso il poeta e lo ricopre di schegge ricadenti : il Ran­ daccio ordina a un fante che ne stacchi con la baionetta l’armilla di rame : « ne faremo una corona per il nostro compa­ gno ». « Di quella baionetta fu irto l’estremo saliente del nostro sforzo orientale tra Ca­ stagnevizza e il Vipacco ». Il 3 novembre il Comandante detta alle truppe il suo Ordine del giorno conclu­ sivo dell’azione : « Ufficiali, graduati e sol­ dati del secondo battaglione, siete tutti eroi ». Si può ben dire che mai come questa volta la Poesia s’è tramutata in prodezza in chi l’ha creata e in chi l’ha ricevuta. La medaglia d’argento è consegnata al D ’Annunzio il 5 dicembre ; la motivazione 115
  • 122. dice : « Entusiasta e ardito in ogni suo atto, l’esempio dato fu pari alla parola e gli effetti efficaci e completi » : nella rozza sintassi soldatesca, l’eroismo raggia più schietto. Una pausa : non un vuoto. Il 21 dicembre il poeta è a Venezia, per le onoranze al Miraglia ; a metà gen­ naio, nei giorni in cui Milano si riesalta a udire la sua « Preghiera per i cittadini », — il colonnello De Gròndrecourt conse­ gna al capitano D ’Annunzio, decorato e mutilato, la croce di guerra francese, e il Generale Lyautey accompagna l’offerta con una lettera da Roma « al grande I- taliano che predicò una guerra santa dal­ l’alto del Campidoglio... incitò l’eroica le­ vata degli scudi latini... scelse per l’inces­ sante battaglia l’arma più audace e più rischiosa ». Il poeta risponde in una concisa ora­ zione, che l’onorificenza gli è il segno più 116
  • 123. ambito da un combattente, perchè « è quello medesimo del quale si fregiano i petti che sulla Marna miracolosa e nei carnai sublimi di Verdun hanno salvato il volto del mondo ». Ma ecco un dolore. Il 27 gennaio 1917 la madre del poeta si diparte da lui : a 77 anni muore tra le braccia delle figlie e della vecchia ancella, in quella Pescara dov’era venuta sposa a 18 anni, in quella casa dove i Pescaresi l’avevan veduta per anni ogni mattina, starsi un poco affacciata al balcone tra i garofani e i gerani e rispondere dalla rin­ ghiera di ferro ai saluti dei paesani che le chiedevano notizie del lontano : il tran­ sito di Luisa De Benedictis è come il transito d’una santa : essa raccoglie nella pace il premio dell’umiltà con cui ha ri­ cevute tante gioie, della fermezza con cui ha resistito al fendersi della sua casa e del suo cuore. 117
  • 124. Il poeta che ha dal Cadorna stesso l’an­ nuncio, parte per la terra natale ; rivede la « piccola patria » come l’ha riveduta nei giorni del commiato : « le mura di Pescara, l’arco di mattone ; la chiesa scre­ polata, la piazza coi suoi alberi patiti, l’angolo della mia casa negletta » ; entra come allora : sale le scale in mezzo a un silenzio che « è pietà e pudore ». Varca le stanze di soglia in soglia rivivendo « terribilmente » le cose della sua infanzia. S’inginocchia davanti alla Morta composta ormai nel talamo. I funerali si svolgono tra il compianto d’un popolo, il primo di febbraio : il poeta se ne accora e turba : lo prende la febbre ; migliora : riparte per il fronte. Grandi eventi incalzano : l’America s’a­ gita : basta forse di note alla Germania : il lievito degli ideali gonfia e tende quella volontà, che pare così lenta a muoversi: si avvicina anche per gli Stati Uniti l’ora dell’azione ? 118
  • 125. 11 tre di aprile il poeta, unica voce che sappia levarsi, in Europa, non già nel nome della politica gretta, o di una rettorica inerte, ma per il sentimento profondo delle più alte verità, getta il suo Messaggio agli Americani per l’in­ tervento : « Oggi per l’anima d’Italia il Campi­ doglio di Washington è divenuto un luogo eccelso di luce come l’arce romana... E sembra che in questo aprile di passione e di tempesta riecheggi il grido di un A- prile già torbido di allegrezza e di cor­ doglio nella storia degli stati : « O capi­ tano ! O mio capitano ! Sorgi ed ascolta il rombo dei bronzi. Lèvati ! Per te la bandiera sventola ». « L’Associated Press » diffonde il mes­ saggio tradotto in tutta l’America : « Ora la bellezza precipita e trabocca sul mondo come un torrente di maggio. Non abbiamo petti abbastanza capaci per raccoglierla e 119
  • 126. contenerla ». « 11 gran popolo della ban­ diera stellata, alzandosi in piedi per di­ fendere lo spirito eterno dell’uomo, oggi aumenta a dismisura questa somma di bellezza opposta al furore e al fragore della barbarie ». Il 6 aprile, Woodrow Wilson dichiara formalmente lo stato di guerra e mobilita la flotta : « Eravate una massa enorme e ottusa di ricchezza e di potenza. Ed ecco vi trasfigurate in spiri­ tualità ardente e operante ». La fatica dell’animatore non ostacola quella del combattente. E’ del 13 aprile l’incursione navale su Pola alla quale egli partecipa, con i pic­ coli motoscafi costruiti apposta per sca­ valcare le ostruzioni senza far scoppiare gli ordegni in agguato. Alla fine dello stesso mese riprende i suoi voli, ed è assegnato a una squa­ driglia di bombardamento. Intanto in Paese i suoi versi sono ancora dovunque ripe­ 120
  • 127. tuti a incitare e incuorare : a Milano li legge, in una memorabile sera, Senatore Borletti, colui che affiancherà così gene­ rosamente il poeta nell’impresa di Fiume. E si avvicina il secondo anniversario della guerra : non trova come il primo il poeta riverso in un letto come in una bara : lo trova in piedi, armato di ardi­ menti nuovi e di antica costanza. Già il 23 maggio egli prende parte al bombardamento dall’alto in appoggio alle truppe della Terza Armata. L’azione aerea è stata da lui propu­ gnata, egli stesso l’ha preparata con lun­ ghe e numerose incursioni di osservazione : appena si scatena la potente offensiva da Castagnevizza al mare, che sbalordì il nemico, prendendogli nel primo solo sbalzo novemila prigionieri, è lui ad animare la pertinacia dei 130 velivoli che rovesciano sugli Austriaci 10.000 chilogrammi di bombe. 121