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L’ESPERIENZA EUROPEA NELLA DEFINIZIONE DELL’ASSOCIAZIONE
 CON IL LAVORO DI PATOLOGIE TUMORALI, STRESS-CORRELATE
            E DA SOVRACCARICO BIO-MECCANICO.

                                       Pier Alberto Bertazzi
                Università degli Studi e Istituti Clinici di Perfezionamento di Milano



Nel presente contributo il tema generale viene esemplificato con riferimento alla patologia tumorale
nei quattro seguenti passaggi:

   A. Illustrazione della molteplicità dei fattori causali coinvolti nella eziologia dei tumori;
   B. Discussione di quanto siamo in grado di documentare circa la relazione occupazione-cancro
      a livello di popolazione;
   C. Identificazione delle evidenze che possiamo mettere in luce circa il rapporto occupazione-
      cancro a livello del singolo individuo, dovendo quindi tener conto della variabilità inter-
      individuale;
   D. Discussione di possibili approcci quantitativi o qualitativi alla valutazione del ruolo
      dell’occupazione nel processo causativo di un tumore.

A. Come sappiamo, esposizioni presenti sul lavoro, di natura chimica, biologica (virale) o fisica
(radiazioni), sono in grado di favorire lo sviluppo di tumori nelle persone esposte.

Il processo di cancerogenesi è complesso, implica diverse tappe e fattori legati al lavoro possono
interferire con una o più di esse. Ad esempio, tutti siamo familiari con i termini di “iniziatore” e
“promotore” che stanno ad indicare rispettivamente agenti cancerogeni capaci di agire nelle fasi
iniziali favorendo la trasformazione neoplastica delle cellule; o nelle fasi più distali del processo,
favorendo l’espansione clonale della cellula iniziata.

Molti agenti occupazionali – in particolare le sostanze chimiche – non sono cancerogene di per sé.
Sono – come si dice – dei pre-cancerogeni che possono venire attivati o disattivati nel corso della
trasformazione metabolica subita dal composto nell’organismo ospite. Il pre-cangerogeno attivato,
diviene capace di legarsi a siti critici come DNA e RNA, proteine e può provocare un danno
genetico che, a sua volta, può andare incontro a riparazione, oppure dar luogo ad una mutazione
genica che viene trasmessa nel ciclo di replicazione cellulare. E’ il primo passo del processo di
cancerogenesi, il prodursi di “cellule iniziate”. Centrali in questo cascata di eventi sono i processi
metabolici e i meccanismi di riparazione del DNA.

Già da questa schematica introduzione è chiaro che per considerare il rapporto tra fattori
occupazionali e cancro si debba sempre tenere conto di una molteplicità di fattori.
Il processo è complesso. Le tappe sono numerose. Differenti fattori possono agire su differenti
tappe.

Il rischio di cancro è dunque funzione di numerosi fattori legati sia all’ambiente sia all’ospite. Li
possiamo schematizzare in tre principali categorie:
         alcuni fattori possono essere definiti “determinanti” e rappresentano le esposizioni
ambientali (o di altra natura) all’origine della malattia;
         altri fattori (ad esempio esposizioni concomitanti) sono variabili interferenti che devono
essere controllate per mettere in luce i determinanti di interesse;

                                                                                                         1
infine abbiamo i modificatori di effetto, capaci di modulare (potenziandola o attenuandola)
l’azione dell’esposizione: tipici sono i fattori legati all’ospite come i polimorfismi metabolici e
l’efficienza dei meccanismi di riparazione del DNA; oppure esposizioni concomitanti capace di
potenziarsi sinergicamente: si pensi a fumo di tabacco e amianto nel caso del tumore polmonare.

Tra tali fattori, due sono fondamentali:
    - I fattori legati all’ambiente: in particolare, il tipo e le caratteristiche dell’esposizione;
    - I fattori legati all’ospite, quali, ad esempio polimorfismi genetici di attività metaboliche ed
         efficienza dei meccanismi riparativi del DNA
E si tratta soltanto di alcuni esempi.

Data la complessità del fenomeno di cui stiamo parlando e la molteplicità dei fattori che hanno
rilevanza eziologia, e dati anche i limiti della nostra conoscenza, è difficile dare spiegazione dei
meccanismi di causazione del cancro in modo indiscutibile e deterministico. Come sappiamo,
l’unico esempio che si può fare di una esposizione sufficiente di per sé a causare malattia è quello di
alcuni rari tipi di cancro dovuti a geni autosomici dominanti a penetranza completa.



B. Nonostante questi aspetti di complessità e di indeterminatezza, noi conosciamo e siamo in grado
di accertare molte aspetti della associazione tra esposizioni occupazionali (o ambientali) e tumori.
Ad esempio, siamo in grado di identificare con strumenti e valutazioni scientifiche quali tra le
esposizioni ambientali siano veramente –o almeno “più verosimilmente” – cancerogene per l’uomo.
Cioè di identificare quali agenti portino con sé il pericolo di aumentare il rischio di cancro
nell’uomo. Questo tipo di valutazione è chiamato Hazard identification o accertamento del pericolo
rappresentato da un certo agente. In secondo luogo, possiamo stimare l’entità dell’aumento del
rischio in una popolazione umana esposta a quel particolare agente pericoloso. Infine, possiamo
anche stimare quale porzione della malattia presente nella popolazione, che sempre è associata a
numerosi fattori causali, sia attribuibile al particolare agente pericoloso che stiamo considerando.

La più nota delle valutazioni che possono rispondere alla domanda “E’ una cera esposizione
associata con lo sviluppo di tumore nell’uomo?” è quella compiuta periodicamente dalla IARC,
International Agency for Research on Cancer.(www.iarc.fr) Tali valutazioni si basano sull’esame
della letteratura e di tutta la documentazione disponibile, sia epidemiologica sia sperimentale. I vari
tipi e gradi di evidenza vengono combinati in una matrice e se l’evidenza nell’uomo è
incontrovertibile l’agente viene classificato nel gruppo 1, indipendentemente dal grado di evidenza
disponibile in campo sperimentabile. D’altra parte la evidenza sufficiente in ambito sperimentale e
la conoscenza del meccanismo d’azione possono portare a definire cancerogeni per l’uomo
composti per i quali l’evidenza epidemiologica viene considerata limitata a causa della
incompletezza dei dati. Questo è stato il caso, ad esempio, per la diossina e l’ossido di etilene. Con
questa metodologia sono stati classificati nel gruppo 1 a tutt’ora 95 agenti (chimici, fisici, biologi,
condizioni di esposizione), identificati come cancerogeni per l’uomo. Di essi, oltre 30 sono di
natura occupazionale. Si tratta, cioè, di cancerogeni con i quali l’uomo viene a contatto in forza e
per causa del proprio lavoro. Nel gruppo 2A sono invece classificati gli agenti per i quali l’evidenza
scientifica non è incontrovertibile o sufficiente, ma tuttavia è fortemente indicativa del fatto che
l’agente con alta probabilità è sia cancerogeno per l’uomo. Qui sono raggruppati finora 66 agenti.
Più della metà di essi, cioè 36, sono di interesse occupazionale. Il fattore occupazionale, quindi,
riveste indubitabilmente una primaria rilevanza tra i rischi noti di tumore nell’uomo.

Oltre alla identificazione del tipo di effetto che un agente può causare a livello di popolazione, del
pericolo cioè che esso rappresenta, una seconda valutazione che possiamo compiere ci porta a
                                                                                                         2
definire con una stima quantitativa l’entità dell’effetto associato all’esposizione. Una volta stabilito
che la sostanza è cancerogena per l’uomo, possiamo cioè studiare e determinare se e di quanto è
aumentato il rischio di cancro nella popolazione esposta rispetto al rischio di base solitamente
stimato nella popolazione generale o non esposta. Possiamo cioè studiare l’effetto della esposizione
sull’incidenza della malattia nella popolazione. Possiamo definire (effect definition) questo effetto
confrontando l’incidenza del cancro nella popolazione in condizioni di esposizione rispetto alla
popolazione in condizione di non esposizione. Possiamo inoltre stimare quale sarebbe l’entità
dell’effetto in condizioni diverse da quelle osservate: ad esempio, dato l’effetto osservato nella
popolazione con elevata esposizione quale effetto posso attendermi in una condizione di
esposizione meno intensa? (operazione definita anche come risk characterization). Un terzo tipo di
valutazione che possiamo compiere nella popolazione circa l’associazione tra esposizioni
ambientali/occupazionali e cancro, riguarda la porzione di malattia nella popolazione che può essere
attribuita all’esposizione. E’ la stima che viene definita rischio o frazione attribuibile. La si può
descrivere in modi diversi, ad esempio come la porzione dei casi nei quali l’esposizione ha giocato
un ruolo eziologico; oppure il carico aggiuntivo di casi di cancro dovuto all’esposizione allo studio.
Sono state compiute molte stime della proporzione di tumori attribuibili alle esposizioni
occupazionali. La stima più accreditata è quella di Doll e Peto, ottenuta oltre 20 anni fa – nel 1981 –
sui dati della popolazione degli USA: secondo questi autori tra il 2 e 8% dei tumori della
popolazione sono associati con esposizioni professionali. Altre stime variano da 1% fino quasi il
40%.

Dunque: è veramente molto quello che noi possiamo dire sulla associazione tra occupazione e
neoplasia. Tuttavia è fondamentale precisare che tutte queste stime e valutazioni, e le conclusioni
che se ne possono trarre, hanno valore unicamente a livello di popolazione e possono essere riferite
soltanto ad un astratto “individuo medio” che appartenga a quella popolazione.
Il nostro interesse invece è di poter applicare le conoscenze esistenti alla valutazione di un singolo
specifico caso. E, come è stato osservato, da molti e in diversi modi, l’applicazione diretta
all’individuo delle conoscenze derivanti dagli studi di popolazione è un procedimento con molti
aspetti problematici.

C. Su cosa possiamo e dobbiamo basarci allora? Mi sembrano tre le evidenze obiettive che abbiamo
a disposizione.La prima è l’evidenza scientificamente fondata, non spuria né casuale, di un nesso
eziologico tra la malattia, come tale, e l’esposizione come tale. Questo è il risultato di un corretto
processo di hazard identification di cui abbiamo detto. In secondo luogo è necessario che ci sia
nell’individuo un’obiettiva evidenza della malattia quale una delle patologie riconosciute da
evidenze scientifiche precedenti come eziologicamente associate alla esposizione. In terzo luogo, è
necessario che l’esposizione abbia caratteristiche tali da rispettare il modello noto di associazione
tra esposizione e malattia, incluso il periodo di latenza. 20.
Quest’ultimo è l’ambito nel quale si svolge il ruolo principale del medico del lavoro. Infatti,
accertare l’esposizione del singolo soggetto comporta:
    1. saper ricostruire in maniera accurata e completa la storia lavorativa in tutti i suoi aspetti;
    2. saper indicare e interpretare i più appropriati e validi indicatori di esposizione e di effetto
        precoce (quando questi siano disponibili ed effettuabili);
    3. infine, saper utilizzare i possibili indicatori di variabilità genetica o acquisita, che siano
        affidabili e validati, che possono intervenire a modulare il tipo di esposizione dell’individuo
        ed il rischio che ne può conseguire.
I markers di maggior rilievo nella valutazione di una associazione esposizione-cancro variano da
quelli di esposizione esterna a quelli di dose interna, agli indicatori di dose biologica efficace fino a
quelli di diversa suscettibilità individuale, geneticamente determinata o acquisita. Tralasciando i
markers tumorali che hanno esclusiva rilevanza diagnostica. A questo punto diventa fondamentale
la conoscenza dei modelli della relazione esposizione – ospite – malattia.
                                                                                                        3
L’esposizione ambientale altera funzioni dell’ospite che successivamente producono lo stato di
malattia. Ma l’ambiente può influenzare la malattia già presente nell’ospite, ad esempio con una co-
esposizione (PCB e Ebstein-Barr virus; amianto e infezione da SV40).Poi ci sono le caratteristiche
dell’ospite che possono a loro volta condizionare l’esposizione ed i suoi effetti; così come
evidentemente possono condizionare l’andamento della malattia indipendentemente
dall’esposizione. E, infine, lo stesso stato di malattia condiziona l’esposizione del soggetto.
Molto abbiamo ancora da conoscere, ma alcuni modelli di queste relazioni esposizione-ospite-
malattia cominciano ad esserenoti, come vedremo.

D. Si tratta ora di applicare all’individuo singolo una valutazione basata su questi dati e su queste
conoscenze, riguardanti l’esposizione, la malattia e i caratteri della loro relazione anche per
compiere una valutazione che metta in luce il ruolo del fattore lavorativo nello sviluppo di quel
particolare caso. Ammettiamo di avere evidenza salda e obiettiva dei tre elementi citati:
    - il rapporto tra malattia ed esposizione è, in generale, riconosciuto come causale;
    - il soggetto ha il tipo di malattia riconosciuta associata all’esposizione;
    - il soggetto ha subito un’esposizione di tipo e con caratteri tali che la rendono associabile alla
        malattia secondo il o i modelli noti.
Dobbiamo giungere a conclusioni circa il nesso causale, che abbiano valore per l’individuo e non
solo per la popolazione. E precisamente dobbiamo compiere una valutazione che metta in luce il
ruolo del fattore lavorativo nello sviluppo di quel particolare caso. Ci sono due comuni approcci.
Uno è quantitativo, probabilistico e permette di stimare la probabilità che una data esposizione
abbia causato la malattia; e può permettere anche di quantificare la probabilità del ruolo causale per
i diversi fattori coinvolti. Il secondo approccio si basa invece su una valutazione qualitativa delle
evidenze scientifiche e porta a concludere se, in quel particolare individuo, l’esposizione abbia fatto
parte o meno della trama causale che ha portato alla malattia.
Ammettiamo di avere una evidenza molto buona circa l’associazione tra una esposizione e una
malattia: il tasso di incidenza tra gli esposti sia di 144x100.000 e il tasso di riferimento sia
80x100.000. Il rischio relativo è quindi 1.8. Si tratta di una stima molto precisa (intervallo di
confidenza contenuto) e statisticamente significativa (p<0.05). Assumiamo inoltre che il possibile
cionfondimento e altri possibili bias siano stati controllati e che ripetuti studi abbiano confermato
l’associazione per la quale esiste anche una plausibile interpretazione biologica. Con questi solidi
dati di base possiamo compiere qualche stima quantitativa.
Dei 144 casi osservati negli esposti, 80, cioè più della metà, il 55.6%, sarebbero occorsi anche in
assenza di esposizione. Possiamo perciò dire che un individuo esposto avrebbe avuto più del 50% di
probabilità di sviluppare la sua malattia anche in assenza della esposizione.
Assumiamo ora una situazione leggermente differente, con rischio relativo pari a 2.2 anziché 1.8.
In questo caso, solo il 45.1% dei casi nella popolazione esposta sarebbe avvenuto anche in assenza
della esposizione. Quindi, in questo caso, un individuo esposto che contrae la malattia ha più del
50% di probabilità di avere sviluppato quella malattia proprio a causa della esposizione.
Questo stime appaiono molto semplici ed agevoli. Tuttavia si basano su un metodo forse troppo
schematico. Se il rischio relativo è maggiore di 2.0, allora il caso è più probabilmente che no,
dovuto alla esposizione. Se il RR è, invece, inferiore a 2.0 è più probabile che il singolo caso non
sia dovuto all’esposizione.
Possiamo anche esprimere una stima di probabilità per ciascuno dei fattori in gioco. Manteniamo
l’esempio numerico precedente di un RR pari a 1.8 tra gli esposti. L’esposizione è dunque
responsabile di un eccesso di rischio relativo pari a 0.8. Di quel rischio, possiamo allora dire,
l’occupazione è responsabile per il 44% (0.8/1.8) mentre gli altri fattori, che interessano tutta la
popolazione e non solo gli esposti, sono responsabili per il 56%. Questo calcolo può essere
naturalmente svolto anche quando i fattori di esposizione da considerare siano più di uno.


                                                                                                     4
Prendiamo ancora l’esempio di questo ipotetico cancerogeno occupazionale che negli esposti porta
il RR da 1.0 (popolazione di riferimento) a 1.8 (rischio in eccesso negli esposti pari a 0.8).
Assumiamo però che anche il fumo di tabacco influisca su quel rischio, e in maniera molto più
forte, incrementando il rischio relativo di ben 5 volte (RR=5.0, rischio relativo in eceesso nei
fumatori=4.0). Prendiamo il caso di un individuo che è esposto, che fuma e che ha contratto la
malattia di interesse (RR=1.0+0.8+4.0=5.8). Seguendo il metodo che abbiamo visto – e che
possiamo chiamare probability of causation – si può giungere a stimare che:
    - l’occupazione è responsabile per il 14% (0.8/5.8)
    - il fumo di tabacco è responsabile per il 69% (4.0/5.8)
    - altri fattori, comuni anche alla popolazione generale, sono responsabili per il 17% (1.0/5.8).
Questo metodo può sembrare molto semplice e chiaro. Tuttavia i suoi limiti sono numerosi e, tra
questi, il fatto che non vengono considerate le interazioni tra i fattori ed il fatto che le stime sono in
realtà, ancora una volta, valide per l’ipotetico individuo medio della popolazione, ma non
necessariamente per il nostro specifico caso individuale.

Abbiamo a disposizione però anche un metodo qualitativo, basato sulla valutazione esperta dei
fattori in gioco, di tutti i fattori conoscibili e descrivibili. Per cogliere il valore di questa
metodologia è utile riferirsi al concetto di CAUSA secondo MACKIE così come è stato discusso da
ROTHMAN e GREENLAND in campo epidemiologico.

30.
Lo schema concettuale è molto semplice e può essere rappresentato da diagrammi a spicchi (PIE
DIAGRAM). Esistono diversi complessi causali di una medesima malattia. Ogni complesso, o
meccanismo causale, costituisce la causa sufficiente. Ogni causa sufficiente è composta da
numerose cause componenti di tipo e natura diversa costituite dagli spicchi del diagramma. Ogni
malattia può essere causata da diversi complessi o meccanismi causali, ma ogni singolo caso di
malattia è generato da un solo complesso causativo che ne costituisce la causa sufficiente. Ogni
causa sufficiente risulta perciò dall’azione congiunta di molti componenti, di tipo e natura diversa.
Ogni fattore componente di un complesso causale è un fattore necessario a che quel complesso
causale possa agire e quindi produrre il caso di una malattia. Essere componente di una causa
sufficiente significa essere necessari a che quella causa sia sufficiente e agisca.
Il punto è dunque poter saper riconoscere il complesso causale all’origine del caso ed i suoi singoli
componenti. Ciascuno di questi componenti non può essere definito forte o debole nel singolo caso
individuale di malattia, (se mai lo si può dire tale solo nella popolazione). Se un fattore ha
partecipato a far insorgere quel caso, vuol dire che ha svolto un ruolo che per quel caso è stato
necessario. Per esempio, un fattore può avere partecipato al meccanismo causale di una malattia
solo abbreviando il tempo di induzione dell’effetto di un cancerogeno. Questo va considerato un
fattore che ha svolto un ruolo necessario all’insorgere di quel particolare caso con quelle particolari
modalità. Un fattore può non aver prodotto iniziazione ma essere stato, ad esempio, promotore
dell’espansione clonale delle cellule alterate o comunque aver agito su passaggi tardivi del processo
di cancerogenesi. Qualcuno direbbe che non può perciò essere considerato causa in senso proprio.
Invece, va ritenuto causa a tutti gli effetti. E componente necessaria di quel particolare meccanismo
causale.

Di alcuni di questi meccanismi o complessi causali abbiamo una certa conoscenza. Guardiamo ad
esempio alla relazione tra amianto e mesotelioma pleurico. Sappiamo che il fumo non interferisce;
sappiamo che l’esposizione può essere stata breve, non intensa, e remota; sappiamo che la infezione
da SV40 potrebbe aver svolto un qualche ruolo. Se questo fosse il caso, non sarebbe necessario
togliere rilevanza all’amianto. Ambedue i fattori, in quanto componenti di un complesso causale
sufficiente, si rivelerebbero fattori necessari.

                                                                                                         5
Esempi simili possono essere formulati per l’influenza di fattori genotipici e fenotipici. La loro
presenza non toglie rilevanza al fattore occupazionale o ambientale; completa invece la serie dei
fattori determinanti che compongono il complesso causale sufficiente per la causazione di quel
particolare caso: ciascuno dei fattori è necessario.
Secondo questa impostazione non è giustificato attribuire una percentuale di responsabilità di
causazione ai diversi fattori. Tutti quelli che hanno contribuito sono state necessari in quel caso.
C’è anche un altro motivo di ciò. Ed è che la somma dei contribuiti delle singole cause non ha come
tetto il 100% come erroneamente spesso si ritiene. Ad esempio, ogni singolo caso di cancro
riconosce tra i fattori che lo provocano qualche componente di natura ambientale e qualche
componente di natura genetica. Per cui, nel singolo caso, il fattore genetico può avere il 100% di
probabilità di essere causa componente della malattia così come il fattore ambientale può avere a
sua volta il 100% di probabilità di essere associato alla malattia. E’ un punto importante. Le frazioni
di malattia attribuibili ai differenti fattori possono sovrapporsi. Non si elidono a vicenda. La loro
somma non deve essere pari a cento. Mentre, rimanendo all’esempio di prima, se attribuiamo nel
modo visto le percentuali di responsabilità causale a ciascun fattore, la somma deve essere
necessariamente 100. In realtà, queste proporzioni di responsabilità possono sovrapporsi e non
hanno un limite superiore.

Con questo approccio qualitativo quando:
     è obiettiva l’evidenza di una associazioni tra esposizione e malattia;
     la patologia è correttamente diagnosticata,
     l’esposizione del soggetto è accuratamente caratterizzata in termini di dose, latenza e
        suscettibilità individuale,
allora, appare possibile dire che in quel particolare individuo l’esposizione è uno dei fattori che
hanno contribuito a comporre una causa sufficiente, la quale, a sua volta, ha dato luogo a quel
particolare caso. Seguendo questo modello di causazione – se non, troppo impegnativamente, di
casualità – si può comprendere come sia possibile che i fattori lavorativi possano essere associati a
ben più del 2-8% dei casi di tumore, come stimato da Doll e Hill. Riconoscere che il fattore
occupazionale è rilevante in un’ampia proporzione di tumori, non comporta negare spazio alla
rilevanza di altri fattori, ma soltanto richiede di tenere conto della loro azione comune e congiunta.




                                                                                                         6

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Causazione2004

  • 1. L’ESPERIENZA EUROPEA NELLA DEFINIZIONE DELL’ASSOCIAZIONE CON IL LAVORO DI PATOLOGIE TUMORALI, STRESS-CORRELATE E DA SOVRACCARICO BIO-MECCANICO. Pier Alberto Bertazzi Università degli Studi e Istituti Clinici di Perfezionamento di Milano Nel presente contributo il tema generale viene esemplificato con riferimento alla patologia tumorale nei quattro seguenti passaggi: A. Illustrazione della molteplicità dei fattori causali coinvolti nella eziologia dei tumori; B. Discussione di quanto siamo in grado di documentare circa la relazione occupazione-cancro a livello di popolazione; C. Identificazione delle evidenze che possiamo mettere in luce circa il rapporto occupazione- cancro a livello del singolo individuo, dovendo quindi tener conto della variabilità inter- individuale; D. Discussione di possibili approcci quantitativi o qualitativi alla valutazione del ruolo dell’occupazione nel processo causativo di un tumore. A. Come sappiamo, esposizioni presenti sul lavoro, di natura chimica, biologica (virale) o fisica (radiazioni), sono in grado di favorire lo sviluppo di tumori nelle persone esposte. Il processo di cancerogenesi è complesso, implica diverse tappe e fattori legati al lavoro possono interferire con una o più di esse. Ad esempio, tutti siamo familiari con i termini di “iniziatore” e “promotore” che stanno ad indicare rispettivamente agenti cancerogeni capaci di agire nelle fasi iniziali favorendo la trasformazione neoplastica delle cellule; o nelle fasi più distali del processo, favorendo l’espansione clonale della cellula iniziata. Molti agenti occupazionali – in particolare le sostanze chimiche – non sono cancerogene di per sé. Sono – come si dice – dei pre-cancerogeni che possono venire attivati o disattivati nel corso della trasformazione metabolica subita dal composto nell’organismo ospite. Il pre-cangerogeno attivato, diviene capace di legarsi a siti critici come DNA e RNA, proteine e può provocare un danno genetico che, a sua volta, può andare incontro a riparazione, oppure dar luogo ad una mutazione genica che viene trasmessa nel ciclo di replicazione cellulare. E’ il primo passo del processo di cancerogenesi, il prodursi di “cellule iniziate”. Centrali in questo cascata di eventi sono i processi metabolici e i meccanismi di riparazione del DNA. Già da questa schematica introduzione è chiaro che per considerare il rapporto tra fattori occupazionali e cancro si debba sempre tenere conto di una molteplicità di fattori. Il processo è complesso. Le tappe sono numerose. Differenti fattori possono agire su differenti tappe. Il rischio di cancro è dunque funzione di numerosi fattori legati sia all’ambiente sia all’ospite. Li possiamo schematizzare in tre principali categorie: alcuni fattori possono essere definiti “determinanti” e rappresentano le esposizioni ambientali (o di altra natura) all’origine della malattia; altri fattori (ad esempio esposizioni concomitanti) sono variabili interferenti che devono essere controllate per mettere in luce i determinanti di interesse; 1
  • 2. infine abbiamo i modificatori di effetto, capaci di modulare (potenziandola o attenuandola) l’azione dell’esposizione: tipici sono i fattori legati all’ospite come i polimorfismi metabolici e l’efficienza dei meccanismi di riparazione del DNA; oppure esposizioni concomitanti capace di potenziarsi sinergicamente: si pensi a fumo di tabacco e amianto nel caso del tumore polmonare. Tra tali fattori, due sono fondamentali: - I fattori legati all’ambiente: in particolare, il tipo e le caratteristiche dell’esposizione; - I fattori legati all’ospite, quali, ad esempio polimorfismi genetici di attività metaboliche ed efficienza dei meccanismi riparativi del DNA E si tratta soltanto di alcuni esempi. Data la complessità del fenomeno di cui stiamo parlando e la molteplicità dei fattori che hanno rilevanza eziologia, e dati anche i limiti della nostra conoscenza, è difficile dare spiegazione dei meccanismi di causazione del cancro in modo indiscutibile e deterministico. Come sappiamo, l’unico esempio che si può fare di una esposizione sufficiente di per sé a causare malattia è quello di alcuni rari tipi di cancro dovuti a geni autosomici dominanti a penetranza completa. B. Nonostante questi aspetti di complessità e di indeterminatezza, noi conosciamo e siamo in grado di accertare molte aspetti della associazione tra esposizioni occupazionali (o ambientali) e tumori. Ad esempio, siamo in grado di identificare con strumenti e valutazioni scientifiche quali tra le esposizioni ambientali siano veramente –o almeno “più verosimilmente” – cancerogene per l’uomo. Cioè di identificare quali agenti portino con sé il pericolo di aumentare il rischio di cancro nell’uomo. Questo tipo di valutazione è chiamato Hazard identification o accertamento del pericolo rappresentato da un certo agente. In secondo luogo, possiamo stimare l’entità dell’aumento del rischio in una popolazione umana esposta a quel particolare agente pericoloso. Infine, possiamo anche stimare quale porzione della malattia presente nella popolazione, che sempre è associata a numerosi fattori causali, sia attribuibile al particolare agente pericoloso che stiamo considerando. La più nota delle valutazioni che possono rispondere alla domanda “E’ una cera esposizione associata con lo sviluppo di tumore nell’uomo?” è quella compiuta periodicamente dalla IARC, International Agency for Research on Cancer.(www.iarc.fr) Tali valutazioni si basano sull’esame della letteratura e di tutta la documentazione disponibile, sia epidemiologica sia sperimentale. I vari tipi e gradi di evidenza vengono combinati in una matrice e se l’evidenza nell’uomo è incontrovertibile l’agente viene classificato nel gruppo 1, indipendentemente dal grado di evidenza disponibile in campo sperimentabile. D’altra parte la evidenza sufficiente in ambito sperimentale e la conoscenza del meccanismo d’azione possono portare a definire cancerogeni per l’uomo composti per i quali l’evidenza epidemiologica viene considerata limitata a causa della incompletezza dei dati. Questo è stato il caso, ad esempio, per la diossina e l’ossido di etilene. Con questa metodologia sono stati classificati nel gruppo 1 a tutt’ora 95 agenti (chimici, fisici, biologi, condizioni di esposizione), identificati come cancerogeni per l’uomo. Di essi, oltre 30 sono di natura occupazionale. Si tratta, cioè, di cancerogeni con i quali l’uomo viene a contatto in forza e per causa del proprio lavoro. Nel gruppo 2A sono invece classificati gli agenti per i quali l’evidenza scientifica non è incontrovertibile o sufficiente, ma tuttavia è fortemente indicativa del fatto che l’agente con alta probabilità è sia cancerogeno per l’uomo. Qui sono raggruppati finora 66 agenti. Più della metà di essi, cioè 36, sono di interesse occupazionale. Il fattore occupazionale, quindi, riveste indubitabilmente una primaria rilevanza tra i rischi noti di tumore nell’uomo. Oltre alla identificazione del tipo di effetto che un agente può causare a livello di popolazione, del pericolo cioè che esso rappresenta, una seconda valutazione che possiamo compiere ci porta a 2
  • 3. definire con una stima quantitativa l’entità dell’effetto associato all’esposizione. Una volta stabilito che la sostanza è cancerogena per l’uomo, possiamo cioè studiare e determinare se e di quanto è aumentato il rischio di cancro nella popolazione esposta rispetto al rischio di base solitamente stimato nella popolazione generale o non esposta. Possiamo cioè studiare l’effetto della esposizione sull’incidenza della malattia nella popolazione. Possiamo definire (effect definition) questo effetto confrontando l’incidenza del cancro nella popolazione in condizioni di esposizione rispetto alla popolazione in condizione di non esposizione. Possiamo inoltre stimare quale sarebbe l’entità dell’effetto in condizioni diverse da quelle osservate: ad esempio, dato l’effetto osservato nella popolazione con elevata esposizione quale effetto posso attendermi in una condizione di esposizione meno intensa? (operazione definita anche come risk characterization). Un terzo tipo di valutazione che possiamo compiere nella popolazione circa l’associazione tra esposizioni ambientali/occupazionali e cancro, riguarda la porzione di malattia nella popolazione che può essere attribuita all’esposizione. E’ la stima che viene definita rischio o frazione attribuibile. La si può descrivere in modi diversi, ad esempio come la porzione dei casi nei quali l’esposizione ha giocato un ruolo eziologico; oppure il carico aggiuntivo di casi di cancro dovuto all’esposizione allo studio. Sono state compiute molte stime della proporzione di tumori attribuibili alle esposizioni occupazionali. La stima più accreditata è quella di Doll e Peto, ottenuta oltre 20 anni fa – nel 1981 – sui dati della popolazione degli USA: secondo questi autori tra il 2 e 8% dei tumori della popolazione sono associati con esposizioni professionali. Altre stime variano da 1% fino quasi il 40%. Dunque: è veramente molto quello che noi possiamo dire sulla associazione tra occupazione e neoplasia. Tuttavia è fondamentale precisare che tutte queste stime e valutazioni, e le conclusioni che se ne possono trarre, hanno valore unicamente a livello di popolazione e possono essere riferite soltanto ad un astratto “individuo medio” che appartenga a quella popolazione. Il nostro interesse invece è di poter applicare le conoscenze esistenti alla valutazione di un singolo specifico caso. E, come è stato osservato, da molti e in diversi modi, l’applicazione diretta all’individuo delle conoscenze derivanti dagli studi di popolazione è un procedimento con molti aspetti problematici. C. Su cosa possiamo e dobbiamo basarci allora? Mi sembrano tre le evidenze obiettive che abbiamo a disposizione.La prima è l’evidenza scientificamente fondata, non spuria né casuale, di un nesso eziologico tra la malattia, come tale, e l’esposizione come tale. Questo è il risultato di un corretto processo di hazard identification di cui abbiamo detto. In secondo luogo è necessario che ci sia nell’individuo un’obiettiva evidenza della malattia quale una delle patologie riconosciute da evidenze scientifiche precedenti come eziologicamente associate alla esposizione. In terzo luogo, è necessario che l’esposizione abbia caratteristiche tali da rispettare il modello noto di associazione tra esposizione e malattia, incluso il periodo di latenza. 20. Quest’ultimo è l’ambito nel quale si svolge il ruolo principale del medico del lavoro. Infatti, accertare l’esposizione del singolo soggetto comporta: 1. saper ricostruire in maniera accurata e completa la storia lavorativa in tutti i suoi aspetti; 2. saper indicare e interpretare i più appropriati e validi indicatori di esposizione e di effetto precoce (quando questi siano disponibili ed effettuabili); 3. infine, saper utilizzare i possibili indicatori di variabilità genetica o acquisita, che siano affidabili e validati, che possono intervenire a modulare il tipo di esposizione dell’individuo ed il rischio che ne può conseguire. I markers di maggior rilievo nella valutazione di una associazione esposizione-cancro variano da quelli di esposizione esterna a quelli di dose interna, agli indicatori di dose biologica efficace fino a quelli di diversa suscettibilità individuale, geneticamente determinata o acquisita. Tralasciando i markers tumorali che hanno esclusiva rilevanza diagnostica. A questo punto diventa fondamentale la conoscenza dei modelli della relazione esposizione – ospite – malattia. 3
  • 4. L’esposizione ambientale altera funzioni dell’ospite che successivamente producono lo stato di malattia. Ma l’ambiente può influenzare la malattia già presente nell’ospite, ad esempio con una co- esposizione (PCB e Ebstein-Barr virus; amianto e infezione da SV40).Poi ci sono le caratteristiche dell’ospite che possono a loro volta condizionare l’esposizione ed i suoi effetti; così come evidentemente possono condizionare l’andamento della malattia indipendentemente dall’esposizione. E, infine, lo stesso stato di malattia condiziona l’esposizione del soggetto. Molto abbiamo ancora da conoscere, ma alcuni modelli di queste relazioni esposizione-ospite- malattia cominciano ad esserenoti, come vedremo. D. Si tratta ora di applicare all’individuo singolo una valutazione basata su questi dati e su queste conoscenze, riguardanti l’esposizione, la malattia e i caratteri della loro relazione anche per compiere una valutazione che metta in luce il ruolo del fattore lavorativo nello sviluppo di quel particolare caso. Ammettiamo di avere evidenza salda e obiettiva dei tre elementi citati: - il rapporto tra malattia ed esposizione è, in generale, riconosciuto come causale; - il soggetto ha il tipo di malattia riconosciuta associata all’esposizione; - il soggetto ha subito un’esposizione di tipo e con caratteri tali che la rendono associabile alla malattia secondo il o i modelli noti. Dobbiamo giungere a conclusioni circa il nesso causale, che abbiano valore per l’individuo e non solo per la popolazione. E precisamente dobbiamo compiere una valutazione che metta in luce il ruolo del fattore lavorativo nello sviluppo di quel particolare caso. Ci sono due comuni approcci. Uno è quantitativo, probabilistico e permette di stimare la probabilità che una data esposizione abbia causato la malattia; e può permettere anche di quantificare la probabilità del ruolo causale per i diversi fattori coinvolti. Il secondo approccio si basa invece su una valutazione qualitativa delle evidenze scientifiche e porta a concludere se, in quel particolare individuo, l’esposizione abbia fatto parte o meno della trama causale che ha portato alla malattia. Ammettiamo di avere una evidenza molto buona circa l’associazione tra una esposizione e una malattia: il tasso di incidenza tra gli esposti sia di 144x100.000 e il tasso di riferimento sia 80x100.000. Il rischio relativo è quindi 1.8. Si tratta di una stima molto precisa (intervallo di confidenza contenuto) e statisticamente significativa (p<0.05). Assumiamo inoltre che il possibile cionfondimento e altri possibili bias siano stati controllati e che ripetuti studi abbiano confermato l’associazione per la quale esiste anche una plausibile interpretazione biologica. Con questi solidi dati di base possiamo compiere qualche stima quantitativa. Dei 144 casi osservati negli esposti, 80, cioè più della metà, il 55.6%, sarebbero occorsi anche in assenza di esposizione. Possiamo perciò dire che un individuo esposto avrebbe avuto più del 50% di probabilità di sviluppare la sua malattia anche in assenza della esposizione. Assumiamo ora una situazione leggermente differente, con rischio relativo pari a 2.2 anziché 1.8. In questo caso, solo il 45.1% dei casi nella popolazione esposta sarebbe avvenuto anche in assenza della esposizione. Quindi, in questo caso, un individuo esposto che contrae la malattia ha più del 50% di probabilità di avere sviluppato quella malattia proprio a causa della esposizione. Questo stime appaiono molto semplici ed agevoli. Tuttavia si basano su un metodo forse troppo schematico. Se il rischio relativo è maggiore di 2.0, allora il caso è più probabilmente che no, dovuto alla esposizione. Se il RR è, invece, inferiore a 2.0 è più probabile che il singolo caso non sia dovuto all’esposizione. Possiamo anche esprimere una stima di probabilità per ciascuno dei fattori in gioco. Manteniamo l’esempio numerico precedente di un RR pari a 1.8 tra gli esposti. L’esposizione è dunque responsabile di un eccesso di rischio relativo pari a 0.8. Di quel rischio, possiamo allora dire, l’occupazione è responsabile per il 44% (0.8/1.8) mentre gli altri fattori, che interessano tutta la popolazione e non solo gli esposti, sono responsabili per il 56%. Questo calcolo può essere naturalmente svolto anche quando i fattori di esposizione da considerare siano più di uno. 4
  • 5. Prendiamo ancora l’esempio di questo ipotetico cancerogeno occupazionale che negli esposti porta il RR da 1.0 (popolazione di riferimento) a 1.8 (rischio in eccesso negli esposti pari a 0.8). Assumiamo però che anche il fumo di tabacco influisca su quel rischio, e in maniera molto più forte, incrementando il rischio relativo di ben 5 volte (RR=5.0, rischio relativo in eceesso nei fumatori=4.0). Prendiamo il caso di un individuo che è esposto, che fuma e che ha contratto la malattia di interesse (RR=1.0+0.8+4.0=5.8). Seguendo il metodo che abbiamo visto – e che possiamo chiamare probability of causation – si può giungere a stimare che: - l’occupazione è responsabile per il 14% (0.8/5.8) - il fumo di tabacco è responsabile per il 69% (4.0/5.8) - altri fattori, comuni anche alla popolazione generale, sono responsabili per il 17% (1.0/5.8). Questo metodo può sembrare molto semplice e chiaro. Tuttavia i suoi limiti sono numerosi e, tra questi, il fatto che non vengono considerate le interazioni tra i fattori ed il fatto che le stime sono in realtà, ancora una volta, valide per l’ipotetico individuo medio della popolazione, ma non necessariamente per il nostro specifico caso individuale. Abbiamo a disposizione però anche un metodo qualitativo, basato sulla valutazione esperta dei fattori in gioco, di tutti i fattori conoscibili e descrivibili. Per cogliere il valore di questa metodologia è utile riferirsi al concetto di CAUSA secondo MACKIE così come è stato discusso da ROTHMAN e GREENLAND in campo epidemiologico. 30. Lo schema concettuale è molto semplice e può essere rappresentato da diagrammi a spicchi (PIE DIAGRAM). Esistono diversi complessi causali di una medesima malattia. Ogni complesso, o meccanismo causale, costituisce la causa sufficiente. Ogni causa sufficiente è composta da numerose cause componenti di tipo e natura diversa costituite dagli spicchi del diagramma. Ogni malattia può essere causata da diversi complessi o meccanismi causali, ma ogni singolo caso di malattia è generato da un solo complesso causativo che ne costituisce la causa sufficiente. Ogni causa sufficiente risulta perciò dall’azione congiunta di molti componenti, di tipo e natura diversa. Ogni fattore componente di un complesso causale è un fattore necessario a che quel complesso causale possa agire e quindi produrre il caso di una malattia. Essere componente di una causa sufficiente significa essere necessari a che quella causa sia sufficiente e agisca. Il punto è dunque poter saper riconoscere il complesso causale all’origine del caso ed i suoi singoli componenti. Ciascuno di questi componenti non può essere definito forte o debole nel singolo caso individuale di malattia, (se mai lo si può dire tale solo nella popolazione). Se un fattore ha partecipato a far insorgere quel caso, vuol dire che ha svolto un ruolo che per quel caso è stato necessario. Per esempio, un fattore può avere partecipato al meccanismo causale di una malattia solo abbreviando il tempo di induzione dell’effetto di un cancerogeno. Questo va considerato un fattore che ha svolto un ruolo necessario all’insorgere di quel particolare caso con quelle particolari modalità. Un fattore può non aver prodotto iniziazione ma essere stato, ad esempio, promotore dell’espansione clonale delle cellule alterate o comunque aver agito su passaggi tardivi del processo di cancerogenesi. Qualcuno direbbe che non può perciò essere considerato causa in senso proprio. Invece, va ritenuto causa a tutti gli effetti. E componente necessaria di quel particolare meccanismo causale. Di alcuni di questi meccanismi o complessi causali abbiamo una certa conoscenza. Guardiamo ad esempio alla relazione tra amianto e mesotelioma pleurico. Sappiamo che il fumo non interferisce; sappiamo che l’esposizione può essere stata breve, non intensa, e remota; sappiamo che la infezione da SV40 potrebbe aver svolto un qualche ruolo. Se questo fosse il caso, non sarebbe necessario togliere rilevanza all’amianto. Ambedue i fattori, in quanto componenti di un complesso causale sufficiente, si rivelerebbero fattori necessari. 5
  • 6. Esempi simili possono essere formulati per l’influenza di fattori genotipici e fenotipici. La loro presenza non toglie rilevanza al fattore occupazionale o ambientale; completa invece la serie dei fattori determinanti che compongono il complesso causale sufficiente per la causazione di quel particolare caso: ciascuno dei fattori è necessario. Secondo questa impostazione non è giustificato attribuire una percentuale di responsabilità di causazione ai diversi fattori. Tutti quelli che hanno contribuito sono state necessari in quel caso. C’è anche un altro motivo di ciò. Ed è che la somma dei contribuiti delle singole cause non ha come tetto il 100% come erroneamente spesso si ritiene. Ad esempio, ogni singolo caso di cancro riconosce tra i fattori che lo provocano qualche componente di natura ambientale e qualche componente di natura genetica. Per cui, nel singolo caso, il fattore genetico può avere il 100% di probabilità di essere causa componente della malattia così come il fattore ambientale può avere a sua volta il 100% di probabilità di essere associato alla malattia. E’ un punto importante. Le frazioni di malattia attribuibili ai differenti fattori possono sovrapporsi. Non si elidono a vicenda. La loro somma non deve essere pari a cento. Mentre, rimanendo all’esempio di prima, se attribuiamo nel modo visto le percentuali di responsabilità causale a ciascun fattore, la somma deve essere necessariamente 100. In realtà, queste proporzioni di responsabilità possono sovrapporsi e non hanno un limite superiore. Con questo approccio qualitativo quando:  è obiettiva l’evidenza di una associazioni tra esposizione e malattia;  la patologia è correttamente diagnosticata,  l’esposizione del soggetto è accuratamente caratterizzata in termini di dose, latenza e suscettibilità individuale, allora, appare possibile dire che in quel particolare individuo l’esposizione è uno dei fattori che hanno contribuito a comporre una causa sufficiente, la quale, a sua volta, ha dato luogo a quel particolare caso. Seguendo questo modello di causazione – se non, troppo impegnativamente, di casualità – si può comprendere come sia possibile che i fattori lavorativi possano essere associati a ben più del 2-8% dei casi di tumore, come stimato da Doll e Hill. Riconoscere che il fattore occupazionale è rilevante in un’ampia proporzione di tumori, non comporta negare spazio alla rilevanza di altri fattori, ma soltanto richiede di tenere conto della loro azione comune e congiunta. 6