HR e “inno-leadership”. Intervista a Laura Iacci, amministratrice di Skill Ri...
Italian remote working conference
1. Lavorare in remoto: traguardo o ripiego?
Abstract
Le evoluzioni della società alle volte sono traguardi, risultati di un processo di mutamento fortemente
desiderato, altre volte nascono come ripieghi verso i quali far convergere processi e comportamenti in
risposta ad un fallimento o crisi a livello sociale. L’evoluzione tecnologica, in particolare l’ampia diffusione
della rete, ha proposto fin dalla seconda metà degli anni 90 modelli organizzativi, lavorativi e sociali basati
sull’abbattimento, via via più significativo, delle limitazioni dovute alle distanze fisiche. In quegli anni si è
introdotto il termine globalizzazione per identificare una visione generale del mercato e del lavoro, in
contrapposizione con quella locale/particolare. La globalizzazione è un paradigma di scambio,
comunicazione e collaborazione che può essere declinato in mille ambiti applicativi, dal commercio
elettronico, allo scambio di pareri medici via rete, al lavorare per qualcuno che si trova dall’altro capo del
mondo. In Italia questo modello non ha preso piede subito, come invece è successo in altri paesi.
Sicuramente perché trattasi di un cambiamento culturale difficile da attuare, ma anche perché
operativamente non se ne percepiva il bisogno. Poi è arrivata la crisi … e quello che non si era visto come
traguardo lo si è sperimentato come ripiego. Lavorare in remoto è diventata un’esigenza, soprattutto nelle
attività legate alle nuove specializzazioni dell’informatica (web, grafica, app, social networks, ecc.), ma
anche per giornalisti, scrittori, musicisti, critici, opinionisti, traduttori, ecc. Il punto chiave è che la
tecnologia è una condizione necessaria ma non sufficiente per lavorare in remoto o, meglio, per mantenere
il posto di lavoro lavorando in remoto. In realtà c’è bisogno di un cambio di paradigma, bisogna modificare
radicalmente il modo in cui si concepisce il lavoro.
Scompare quasi del tutto la componente sociale con i colleghi, superiori o clienti, prende piede la
valutazione oggettiva e spesso analitica, asettica, dei risultati. Qualità, quantità, tempi di consegna
diventano i capisaldi della valutazione, oltre i quali spesso non si riesce ad andare. Momenti di confronto
con colleghi, brainstorming e collaborazioni passano solo attraverso il rigido scheduling del team e non
possono più sfruttare momenti improvvisati di incontro in azienda, per le scale, alla macchinetta del caffe,
al parcheggio.
La concorrenza diventa globale, come globale è l’offerta. Quindi si deve mettere in conto il fatto che ci sono
milioni di persone al mondo che possono fare lo stesso lavoro. Ma, per lo stesso principio, ci sono milioni di
offerte di lavoro in tutto il mondo. Quindi la flessibilità è l’anima del lavoro in remoto, bisogna sapersi
orientare nel mare delle offerte e sapersi distinguere tre i tanti competitors.
Tutto questo non significa peggioramento, al contrario come ogni cambiamento porta con se aspetti
positivi e negativi, ma bisogna prenderne atto quanto prima se si vuole rendere al meglio anche lavorando
a distanza.
Introduzione
Nel mondo delle tecnologie si registra spesso un fenomeno a dire il vero assai fastidioso: quando si diffonde
un neologismo ciascuno se ne fa un’idea propria non solo nella traduzione letterale ma anche nella
semantica, per non parlare poi delle declinazioni, dei sinonimi e dei contrari. Poi ci vogliono anni affinché la
corretta interpretazione venga ad affermarsi diffusamente.
2. Un esempio calzante si trova nell’ambito della formazione. Termini come e-learning, FAD (formazione a
distanza), CBT (computer based training/learning), WBT (web based training/learning), LMS (learning
management system), ecc., sono ancora oggi utilizzati in maniera alternativa come se stessero tutti a
descrivere la stessa cosa. Ebbene, nella mia esperienza anche per il lavoro a distanza si ha ancora una certa
confusione: remote worker, distributed team, open office, telelavoro, coworking, crowdsourcing, e-
commerce (si intendo proprio e-commerce). Spesso parlando con qualche commerciante che ha aperto il
sito per le vendite online mi sento dire “anche io lavoro in remoto” solo perché ha contatti con persone in
tutto il mondo. A voler essere pignoli quelle persone si chiamano clienti, ed il fatto che parlino inglese o
tedesco non qualifica il rapporto come un rapporto di lavoro ma solo come una transazione commerciale
che si apre e si chiude nello spazio di un click, di una spedizione e di un bonifico.
Quindi, nel tentativo di mettere ordine nei miei pensieri e di voler fare una breve ma esaustiva esposizione
sulle mie esperienze di lavoro in remoto e sulle relative problematiche vissute, nel paragrafo che segue
introduco alcuni possibili scenari che configurano varie modalità di lavoro in remoto. Tale pseudo-
classificazione serve non solo a mettere ordine nel lessico ma, soprattutto, aiuta a capire quali siano le reali
differenze, in termini di problematiche, dei vari casi che si possono presentare quando ci si appresta a
lavorare remotely.
Parliamo tutti lo stesso linguaggio
Quando si parla di telelavoro (o equivalentemente lavoro a distanza – remote work) si intuisce subito il
concetto di decentralizzazione del luogo di lavoro, ossia la possibilità di svolgere un’attività per una
determinata azienda, non dovendosi recare fisicamente presso la sede dell’azienda stessa. Sebbene il
concetto di telelavoro sia fortemente legato allo sviluppo delle tecnologie informatiche e della
comunicazione, esempi di lavoro a distanza sono presenti anche negli anni addietro quando esisteva solo il
telefono ed il fax. Basti pensare ai rappresentanti o commessi viaggiatori, che lavoravano per mesi e mesi in
giro per il Paese e quotidianamente inoltravano i report di vendita alla casa madre. Dunque, il telelavoro in
sé non è nulla di nuovo, almeno non nuovissimo.
Ricordo della mia prima visita di lavoro alla Wolfram Research Inc. un’azienda americana che fin dalla
sua nascita (1988) ha creduto ed investito nel remote work. Nel 2000 ho avuto l’occasione di passare 8
settimane nella sede centrale in Illinois-US, come visiting schoolar. Ebbene, dopo pochi giorni che ero
arrivato li, non avendo ancora capito quali fossero le differenze tra il lavoro in Italia (all’epoca lavoravo
presso un centro di ricerca all’università di Salerno) e negli States, mi trovavo a parlare al telefono con
Paul, uno dei miei tutor, e mi venne spontaneo dire “vediamoci per un caffè così parliamo più in dettaglio
di questa cosa”. Rimasi basito quando Paul mi rispose, a dire il vero con una punta di meraviglia per la
mia domanda considerata forse una battuta stupida, che lui non si trovava in Illinois ma in Texas, a
svariate ore di volo di distanza. Io ci misi un po’ per capire che non era in vacanza, ma lavorava da casa
sua!
Oggi il termine “lavoro a distanza” sembra essere abbastanza intuitivo. Proviamo però a spostare
l’attenzione su quali sono le tipologie di lavoro a distanza, perché così possiamo poi classificare i vari
scenari e di conseguenza individuare le principali problematiche su cui focalizzare l’attenzione.
Senza voler andare troppo per il sottile, altrimenti si rischia di rendere solo più confusionario il quadro, io
considero i seguenti scenari di massima, entro i quali si possono poi far rientrare altri sotto classi di
situazioni:
3. a) Rapporto di tipo lavoratore – azienda:
a.1. Dipendente di un’azienda che lavora a distanza: il lavoratore è remoto rispetto all’azienda, che,
per contro, è fisicamente concentrata in una sede fisica bene definita e rispetto ai suoi colleghi
che, invece, lavorano in azienda. La condizione di remotely è del tipo uno a uno, verso la propria
azienda vista come un tutt’uno. Ovviamente poi da questa relazione unitaria si aprono diversi
canali (comunicativi ed operativi) verso i colleghi che operano fisicamente in azienda.
a.2. Collaboratori di progetti distribuiti (distributed o open team/work): il lavoratore è remoto come lo
sono gli altri, ma la tipologia di lavoro è ben definita, tipicamente si concorre ad uno stesso
obiettivo definito apriori (un progetto), esempio classico i progetti di sviluppo open source. La
condizione di remotely è del tipo molti a molti verso i colleghi ma con il focus sul progetto.
a.3. Aziende completamente remotizzate: ossia di fatto inesistenti come spazi fisici intesi come luoghi
di lavoro comune. Il lavoratore è remoto rispetto all’azienda e a tutti gli altri suoi colleghi, che
hanno la stessa posizione di remote worker. La condizione di remotely è del tipo molti a molti.
b) Rapporto di tipo lavoratore-cliente: freelance che offre i suoi servizi a clienti/aziende geograficamente
distanti dalla propria sede. Il lavoratore è remoto rispetto ad una molteplicità di soggetti, ciascuno con
caratteristiche che possono variare anche di molto (lingue diverse, fusi orari diversi, culture diverse,
strumenti diversi, ecc.). La condizione di remotely è del tipo uno a molti, verso i propri clienti.
Come si evince dagli schemi in figura, la configurazione cambia notevolmente da caso a caso, e tali
cambiamenti influenzano anche la complessità del rapporto lavorativo. Però, prima di andare ad esaminare
ciascuna categoria, vorrei porre l’accento su un’altra evidenza: negli ultimi anni è cambiato anche il
paradigma del lavoro, non solo la geografia o la logistica. Nello specifico, l’evoluzione delle tecnologie
informatiche ha creato un enorme bacino di nuove figure professionali (ad esempio quelle direttamente
legate allo sviluppo software), ed ha modificato radicalmente alcune figure professionali già esistenti che
sono andate sempre più a sfruttare le tecnologie come mezzo di comunicazione e collaborazione (ad
esempio scrittori, giornalisti, blogger, musicisti, solo per citarne alcuni).
Quindi si sono modificati schemi e rapporti tra professionisti, clienti, aziende, fruitori, consumatori, ecc.
Tutto questo ha ovvie ripercussioni sugli schemi di lavoro a distanza, perché il lavoratore a distanza è quasi
sempre un freelance quindi imprenditore di se stesso. Deve negoziare prezzi, forniture, consegne, deve
a.2)
a.3)
b)
a.1)
4. curare l’immagine professionale, deve gestire gli aspetti economici e finanziari (soprattutto correre dietro
ai clienti che non pagano); deve sapersi vendere ma soprattutto deve saper attivare e conservare le
relazioni con tutti gli stakeholder della sua sfera lavorativa. Anche quando il lavoratore in remoto è un
dipendente di un’azienda, spesso capita che ha rapporti diretti con i clienti quindi di fatto diventa lui
l’interfaccia con il mercato e, proprio in virtù di una sua condizione di “distanza” dall’azienda per cui lavora,
spesso non ne fruisce degli schermi e delle coperture.
Mi è capitato di svolgere per conto di un’azienda un lavoro per un cliente importante, una famosa casa
editrice italiana. Dopo i primi contatti “a tre”, io il cliente e l’azienda per cui lavoravo, nella fase
operativa, essendo lo sviluppatore ed il responsabile del progetto, ho dialogato sempre io con il cliente.
Quando sono sorti dei problemi, alla fine il cliente ha inveito contro di me, contro il mio modo di condurre
il progetto, anche se le decisioni da me prese erano anche funzione di scelte aziendali e non solo mie.
Quindi io non venivo visto come l’azienda fornitrice (quella che aveva di fatto firmato il contratto) ma
come il professionista-consulente.
In altre parole, lavorare a distanza non significa solo saper usare gli strumenti della comunicazione e della
cooperazione in rete, bisogna assumere un modello comportamentale, professionale e relazionale tarato
sulle tipologie di relazioni che si stabiliscono in ambito lavorativo.
Ritorniamo dunque ai vari scenari del remote work e cerchiamo di metterne in evidenza le peculiarità.
Rapporto di tipo lavoratore – azienda: dipendente di un’azienda che lavora a
distanza
Considero in questa configurazione quei casi in cui il lavoratore è in tutto e per tutto un elemento interno
all’azienda e svolge il suo lavoro da una postazione remota, ad esempio casa sua. In questo scenario le
differenza sono soprattutto concentrate sul tempo di lavoro e sulle modalità di comunicazione con
l’azienda. Supponiamo che il lavoratore faccia parte di un team aziendale che sviluppa un certo progetto, e
la maggior parte dei colleghi si trova fisicamente in azienda. In casi come questi gli svantaggi o elementi
critici del lavorare a distanza possono essere:
Road map del progetto. In generale, la tempistica di un progetto è un elemento chiave e al
contempo molto fragile, raramente un progetto riesce a mantenere un timeline come pianificato.
Lavorare a distanza significa perdere con maggiore facilità la bussola dei tempi, delle propedeuticità
dei vari moduli, dello status delle altre squadre o componenti del team.
Collaborazione con colleghi, meeting o fasi di cooperazione più intensa interna al team. Finché si
tratta di meeting riepilogativi o di fasatura del team, con qualsiasi strumento si riesce ad effettuare
un ottimo incontro anche a distanza. Un po’ diverso è quando ci sono fasi dove bisogna cooperare a
stretto contatto con altri colleghi, per esempi fasi di brainstorming, di sviluppo congiunto, di
raffinamento di modelli, ecc. dove più persone devono lavorare gomito a gomito su uno stesso
elemento. In questo caso, sebbene gli strumenti di comunicazione esistono, possono essere più
deboli, in termini di performance, rispetto alla presenza fisica in una sala operativa.
Isolamento rispetto al team. Se la maggior parte dei colleghi si trova fisicamente in azienda, sarà
naturale per loro sviluppare una maggiore simbiosi ed una condivisione delle problematiche, e
relative soluzioni, del progetto. Dunque un maggiore affiatamento del gruppo, rispetto al
lavoratore in remoto.
5. Una soluzione alle principali criticità sopra esposte potrebbe essere, laddove possibile, partecipare di tanto
in tanto a riunioni in azienda o passare una giornata in azienda. Ma se l’azienda si trova molto lontano,
questo risulta difficile.
Per molti anni ho lavorato come Technical Support Engineer alla Wolfram Research. Loro negli Stati Uniti
ed io in Italia, dunque convenienza degli incontri in azienda praticamente nulla. Nel dipartimento di
supporto tecnico ero l’unico a lavorare in remoto. Spesso si facevano riunioni del team cui partecipavo
via skype o telefono, non si usavano mai videocamere quindi la mia era una partecipazione sempre
molto limitata. Non poter vedere i colleghi, molti dei quali non avevo mai visto in faccia, non poter essere
presente fisicamente e condividere anche i gesti e le espressioni dei colleghi mi penalizzava tanto, anche
sulla comprensione degli aspetti tecnici che si discutevano. Esistevano dei parametri di produttività in
base ai quali si veniva valutati, ad esempio il numero di email a cui si rispondeva in una settimana, ma
non vivendo in azienda e non potendo mai confrontarmi anche solo in termini confidenziali con i colleghi,
non ho mai saputo quante email e con quale livello di accuratezza venivano gestite dagli altri. Al fine di
mantenere il lavoro, facevo di tutto per produrre al massimo e dopo molto tempo ho scoperto che la mia
produzione era qualitativamente di gran lunga superiore agli altri e numericamente pari o qualche volta
superiore. Di fatto avevo dato molto più di quanto mi si chiedesse … e per la stessa cifra .
I principali vantaggi di un tale scenario sono
La stabilità del rapporto.
Il limite delle comunicazioni e relazioni a distanza (solo con il capo e/o con i colleghi), soprattutto
se non si hanno contatti con clienti o altri stakeholder esterni all’azienda.
Il consolidamento nell’uso degli strumenti tecnici e tecnologici (l’azienda ha generalmente degli
standard e li mantiene per molto tempo al fine di semplificare i processi aziendali).
Rapporto di tipo lavoratore – azienda: collaboratori di progetti distribuiti (distributed o open
team/work)
Questo caso è molto simile al precedente, nel senso che il lavoratore remoto si rapporta principalmente
con l’azienda per la quale lavora, ma poi operativamente collabora con un gruppo di altre aziende o altri
professionisti ad uno specifico progetto. La variante più significativa è che spesso in tale scenario tutti le
persone che lavorano al progetto sono praticamente in remoto tra di loro. Quindi in questo caso risultano
criticità analoghe alle precedenti, con qualche variante:
Road map del progetto. Paradossalmente, essendo tutti in remoto, a differenza della stessa criticità
esposta al punto precedente, in questo caso tutti sono in remoto quindi pongono una grande
attenzione alle scadenze, per cui complessivamente si riesce di più a mantenere fede ai tempi di
lavoro.
Collaborazione con colleghi, meeting o fasi di cooperazione più intensa interna al team. Essendo
tutti in remoto, il problema persiste come al punto precedente, solo che essendo maggiormente
condiviso non si hanno i casi di “isolamento” prima riportati.
Minore omogeneità dei lavori prodotti. L’elevata presenza di remote worker (almeno in alcuni
particolari progetti) comporta spesso una maggiore frammentazione del lavoro prodotto e quindi
richiede maggiore attenzione alla integrazione dei risultati. Mi riferisco in particolare a progetti non
necessariamente legati allo sviluppo di software, laddove invece l’aiuto di sistemi di versioning e
più genericamente si gestione del software il problema dell’integrazione si pone meno.
6. Maggiore difficoltà nell’armonizzazione del team di lavoro, nelle abitudini, nello scheduling dei task
condivisi. La presenza di un numero elevato di persone che lavorano in remoto comporta spesso un
ampio spettro di differenti esigenze di carattere organizzativo. Ad esempio se si lavora in team
distribuiti su più time zone, bisogna conciliare orari e giorni festivi di tutti. Se il team è plurilingue
bisogna scegliere una lingua ufficiale (tipicamente l’Inglese) e quindi la minore o maggiore
conoscenza della lingua influenza la comprensione durante le riunioni. Così come altre peculiarità
legate alle diverse culture o abitudini di tanti collaboratori sparsi per il mondo potrebbero
influenzare la convergenza verso una sintesi ed un accordo durante un meeting.
Spesso per risolvere parte dei problemi si organizzano dei meeting dal vivo per scambiare un momento
intenso di colloqui e brainstorming sul progetto.
I lati positivi potrebbero essere in parti quelli precedenti ed in aggiunta:
La condivisione della condizione di lavoratore remoto allinea maggiormente le esigenze di tutto il
team, quindi la maggiore semplicità con cui si concordano tempi, strumenti di lavoro, ripartizione
dei task, ecc.
Tra le altre cose mi occupo anche di progetti finanziati su fondi europei, per cui sempre in qualità di
freelance faccio il project manager con partenariati sparsi su varie nazioni. Questo tipo di esperienze si
avvicina molto allo scenario sopra riportato, ossia lavorare in remoto con dei team distribuiti. In questi
casi ci sono tutte le problematiche sopra riportate: lingue diverse, modi la lavorare diversi, tempi di
applicazione diversi, ma obiettivi comuni e progetto condiviso.
Rapporto di tipo lavoratore – azienda: aziende completamente remotizzate
Sostanzialmente questo scenario è una declinazione dei precedenti due, a.1) perché dal punto di vista del
rapporto di lavoro il lavoratore remoto si trova a dialogare solo con l’azienda e non con tante aziende o
professionisti; a.2) perché anche tutti gli altri colleghi sono in remoto. Quindi in sostanza non c’è molto da
aggiungere per questo caso.
Freelance che offre i suoi servizi a clienti/aziende geograficamente distanti dalla propria sede
Questa forse è la condizione più comune di lavoratore remoto. Come dicevo anche prima, sebbene spesso
si lavori per una stessa azienda per molto tempo, a prescindere dal tipo di contratto, ci si rapporta con essa
come un libero professionista. Si deve essere propositivi, costruttivi, flessibili e versatili per lavorare in
diversi progetti con diversi ruoli, per procacciare affari all’azienda al fine di farsi affidare nuovi lavori, per
adeguarsi ai vari team che di volta in volta vengono creati e così via. Altre volte, in maniera più classica si è
liberi professionisti davvero e quindi si hanno molti clienti. La differenza è che remotely qui si intende che il
cliente può essere anche dall’altra parte del mondo. Questi, a mio avviso, i principali svantaggi o elementi
di criticità:
Aspetti culturali, comportamentali, relazionali sempre diversi. Come dice il proverbio “chi la vuole
cotta e chi la vuole cruda”1
. Avere tanti clienti comporta il dover raffinare l’arte della pazienza, del
1
https://it.wikipedia.org/wiki/Glossario_delle_frasi_fatte
7. dialogo, dell’intuizione e tanto altro. Particolare aggravamento lo si riscontra nel mondo delle
nuove professionalità legate al software ed al digitale in generale. Avete mai sentito qualcuno che
va dal macellaio e chiede le uova di maiale o il prosciutto di pollo? Purtroppo a noi capita
quotidianamente di sentirne gli analoghi in termini di tecnologie, con l’aggravante della
presunzione di molti. Per il fatto di aver un computer in casa, tutti pensano di capirne software, di
saper lavorare con qualsiasi strumento e di saper valutare il lavoro dei professionisti. Poi ci si sente
dire frasi del tipo: “ti mando il logo in alta definizione con il file Word della carta intestata”. Oppure:
“mi faresti, per domani sera, un sito per il mio negozio? tanto che ci vuole a mettere insieme due
fotografie e quattro pagine, ma non preoccuparti i contenuti te le mando io” (e chiaramente poi
arrivano via fax).
Se si lavora anche con clienti all’estero al punto precedente bisogna aggiungere differenze culturali
anche significative, fusi orari, abitudini e lingua diversa, scritta e parlata. Inoltre si introducono
problematiche legate alla normativa fiscale e tributaria, ad esempio per il rilascio delle fatture o i
versamenti dei contributi previdenziali o le tasse.
Negoziazioni estenuanti sul prezzo e sul lavoro da produrre. Almeno in Italia è molto diffusa la
concezione che il lavoratore in remoto è uno che non ha costi fissi o di struttura, non ha costi di
materiali o strumenti, non ha collaboratori (nemmeno il commercialista perché lavora a nero).
Insomma, il freelance che lavora da casa viene visto spesso come il famoso “cugino” a cui ci si
rivolge per il logo da fare gratis e in un paio di ore. Ancora una volta, apparentemente può
sembrare che questa sia una problematica non direttamente connessa con il lavoro in remoto.
Invece, io sostengo che lo sia perché un professionista con una sede e tanto di segretaria, sala
riunioni, sala ricevimento clienti, ecc. intuitivamente viene considerato al pari di un’azienda quindi
con costi di struttura che gravano sui clienti. Il lavoratore in remoto è un’entità immateriale e come
tale non ha costi di struttura. Vallo a spiegare ogni volta al nuovo cliente che anche tu hai la
stampante, il telefono, l’adsl, il cellulare, compri le licenze software e gli aggiornamenti, cambi il
computer ed il portatile una volta l’anno, hai il commercialista e l’avvocato, ecc. Quando poi si
riesce a concordare un prezzo accettabile, si comincia con il chiedere l’impossibile in termini di
“piccoli aggiustamenti”. Immaginate di andare al supermercato, mettere qualcosa nel carrello e
andare alla cassa a pagare. Una volta pagato, si torna indietro con il carrello e lo si riempie
all’inverosimile. Ecco, così fanno i clienti. Iniziano con il chiedere “giusto un logo per la home page”
e poi, dopo aver contrattato il prezzo per il logo, si finisce con il chiedere anche la gestione dell’e-
commerce.
Come esasperazione del punto precedente, c’è il problema del recupero crediti. Fare un sito web
per un cliente nella propria città e non esser pagati ci offre comunque la possibilità di fargli visita,
magari al negozio e fare un po’ di spesa gratis o nel suo ufficio e portarsi via un quadro o un
portatile se proprio non si vuole passare alle mani (scherzo). Ma aver sviluppato un software ad un
cliente di Genova e non vedersi riconosciuti i propri emolumenti rende complesso il presentarsi a
casa del cliente. L’avvocato non prendo proprio in considerazione se non si tratta di un credito dai
5.000,00 euro in su.
Strumenti e tecnologie non sempre standard. Ciascun cliente ha una sua tecnologia. Molti si
limitano al solo uso della posta, altri magari usano strumenti di comunicazione come skype o
google hangouts, altri solo il telefono. Di recente si cominciano a diffondere strumenti cloud come
dropbox o google drive ma alle volte il rischio del condividere con clienti o colleghi impacciati è che
distruggono i documenti, anche i nostri. Quindi spesso si fa fatica a lavorare con tanti clienti diversi
perché per ciascuno di essi dobbiamo impostare un sistema di comunicazione e condivisione ad
hoc.
8. Fluidificazione del rapporto cliente/fornitore ed eccessiva confidenzialità. A dire il vero questa è
una faccenda che va oltre il lavoro remoto, ma in questo caso viene anche accentuata. Impostare
un canale diretto tra cliente e professionista, obbligatorio per il freelance in remoto, spesso
significa diventare schiavi della maleducazione altrui. L’avvocato, il commercialista, il notaio
ricevono nello studio e quindi non ci sogneremmo mai di chiamarli la domenica mattina per un
chiarimento su una pratica, perché identifichiamo il professionista con il luogo dove riceve/lavora.
Se la domenica l’ufficio è chiuso intuitivamente pensiamo che il commercialista non sia al lavoro. Il
grafico, lo sviluppatore web, lo sviluppatore di software in generale e soprattutto quello che lavora
in remoto viene identificato con un nickname di skype, di facebook, di twitter o altro social, viene
identificato con un numero di cellulare e dunque, anche di dominica mattina o pomeriggio che sia,
lo si chiama perché tanto “quello sta sempre collegato con il pc o con il cellulare”. Ma abbiamo
pure noi una vita privata? Lo spero.
Non esiste, secondo la mia esperienza, una soluzione unica alle problematiche sopra esposte. Bisogna solo
dotarsi di tanta pazienza e quando proprio si esagera, perdere qualche cliente troppo esigente.
Ovviamente esistono anche dei lati positivi in questo scenario:
Varietà del lavoro, esperienze sempre nuove che arricchiscono la professionalità e la persona. E poi
non sempre si trovano solo clienti maleducati, spesso si diventa amici con alcuni clienti e si lavora
per loro a lungo e su vari progetti.
Tipicamente i clienti di questo scenario sono piccole aziende o individui (le relazioni con grandi
aziende per progetti di grosso calibro li faccio rientrare nel precedente caso a), per cui i lavori sono
spesso non esageratamente ambizioni, ci si accontenta di un lavoro fatto bene ma non di qualità
suprema. Quindi a fronte di un budget basso, se ci si è venduti bene si è portato a casa un lavoro
semplice o quantomeno veloce, ad incasso rapido.
Su alcune tipologie di lavoro, ad esempio lo sviluppo di applicazioni software o le consulenze su
tematiche specialistiche si stabilisce un rapporto duraturo anche perché il prodotto iniziale va
sempre aggiornato e manutenuto. Questo significa che dopo qualche anno se si è lavorato bene si
ha un piccolo portafoglio clienti che garantisce delle entrate, seppure non voluminose ma
sicuramente costanti nel tempo.
Lavorare in remoto da freelance è il lavoro che ha il massimo numero di gradi di libertà. Non si è
all’interno di un team, non si deve rispondere ad un capo, superati gli scogli della negoziazione e
messo a posto il cliente per fargli capire che non deve chiamare la notte o la domenica di Pasqua, si
può lavorare tranquillamente nei tempi e nei modi che più si preferiscono. Basta rispettare i tempi
di consegna pattuiti (più un ritardo in giorni proporzionare allo sconto chiesto in fase di
negoziazione del prezzo ).
Conclusioni
Il remote working è un nuovo modello di lavoro che si basa fortemente sull’uso delle tecnologie ma il saper
usare computer, software e strumenti di comunicazione e condivisione digitali non è sufficiente. Bisogna
approcciare il lavoro con una mentalità diversa. Maggiore responsabilità, eterogeneità dei contatti,
conoscenza degli aspetti culturali oltre che linguistici di altri lavoratori o clienti non solo italiani. Saper
lavorare in team comunque distribuiti, imparare a socializzare attraverso un uso corretto e costante di
strumenti informatici, anche social network.
9. A mio avviso un ruolo importante lo deve svolgere il mondo della educazione e della formazione. Le scuole
e gli enti che erogano formazione professionale devono introdurre sia corsi su strumenti di collaborazione a
distanza, sia moduli formativi per aspetti organizzativi ed operativi di lavoro in remoto.
Alcuni link utili
https://en.wikipedia.org/wiki/Telecommuting
https://it.wikipedia.org/wiki/Telelavoro
http://www.telelavoro-italia.com/
http://blog.remotive.io/the-comprehensive-guide-to-remote-working/
http://www.slideshare.net/dlondero/lavorare-da-casa-siamo-pronti
10. Biosketch
Roberto Cavaliere è un informatico con esperienza ventennale nell'uso di software di calcolo tecnico
scientifico, in particolare Mathematica della Wolfram Research. Dopo circa 6 anni di lavoro “on site” in un
centro di ricerca all'università di Salerno, nel 2001 decide di lavorare da autonomo e, soprattutto, in
remoto. Apre un suo ufficio in un paesino della provincia di Avellino e inizia collaborazioni con aziende
italiane ed estere. I lavori più importanti sono per una società di Torino, all’epoca reseller della Wolfram
Research, per la quale ha svolto il ruolo di supporto tecnico, sviluppatore, consulente marketing. Poi passa
a lavorare direttamente per la casa madre, la Wolfram Research, Inc. (Urbana-Champaign - Illinois) dove ha
svolto il ruolo di technical support engineer, developer, trainer e speaker in numerose conferenze e
seminari in Italia ed in Europa. Sempre restando nel suo ufficio in provincia di Avellino. Attualmente
continua a lavorare direttamente o indirettamente per la Wolfram, attraverso il reseller Italiano Adalta snc,
con il quale intrattiene continui rapporti lavorativi per consulenze, sviluppo, formazione e marketing dei
prodotti Wolfram.
Parallelamente all’attività legata al software, ha lavorato sin dal 1995, in numerosi progetti finanziati
dall'UE dove ha collaborato con partner europei, sempre usando modelli e tecniche del lavoro in remoto.
Indirizzo email:
robcavaliere@gmail.com
r.cavaliere@adalta.it