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James Joyce


   GENTE DI DUBLINO




                Traduzione di Marco Papi e Emilio Tadini
> digitalizzazione a cura di Yorikarus @ http://forum.tntvillage.scambioetico.org <



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Sorelle




Non c’era speranza per lui questa volta: era il terzo attacco. Sera per sera passavo
dinanzi alla sua casa (si era in tempo di vacanze) e scrutavo il quadrato di luce
della finestra, e sera per sera lo trovavo illuminato allo stesso modo, debole e
eguale. Se fosse morto, pensavo, vedrei il riflesso delle candele sulle imposte
abbassate, poiché sapevo che si mettono due ceri accesi al capezzale di un
defunto. Spesso mi diceva: - Non ci resterò più per molto in questo mondo, - e io
credevo che parlasse a vuoto. Capivo adesso che diceva la verità. Ogni sera
alzando gli occhi alla finestra ripetevo piano fra me la parola «paralisi». M’era
sempre suonata strana, come «gnomone» in Euclide o «simonia» nel catechismo.
Ora però mi suonava come il nome di un essere malefico e peccaminoso; un
essere che mi riempiva di terrore e al quale al tempo stesso avrei voluto star
vicino per assistere alla sua opera mortale.
Quando scesi per cena trovai il vecchio Cotter che fumava, seduto accanto al
fuoco. E mentre la zia mi scodellava la minestra, disse, come tornando su una
precedente osservazione: - No, non che fosse proprio... ma c’era qualcosa di
strano, sì... qualcosa di misterioso in lui. Vi dirò la mia opinione...
Prese a tirar boccate dalla pipa e certo pensava fra sé al miglior modo di
formulare questa sua opinione. Vecchio imbecille! I primi tempi che lo
conoscevamo quasi m’interessava coi suoi discorsi su storte e alambicchi: ma poi
avevo fatto presto a stancarmi di lui e delle sue chiacchiere interminabili sulle
distillerie.
- Ho la mia teoria in proposito, - disse. - Secondo me è uno... uno di quei casi
particolari, insomma. Ma è difficile a spiegarsi...
E si rimise a tirare alla pipa senza spiegarcela, la sua teoria. Lo zio, visto che
stavo lì ad occhi spalancati, mi disse:
- Be’, ti dispiacerà saperlo, ma il tuo vecchio amico se n’è andato.
- Chi? - domandai.
- Padre Flynn.
- È morto?
- Ce lo diceva giusto ora il signor Cotter. È passato da casa sua.
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Sapevo di essere osservato, così continuai a mangiare come se non m’importasse
della notizia. Lo zio spiegò al vecchio Cotter:
- Erano grandi amici, lui e il ragazzo. Pover’uomo, gl’insegnava un sacco di cose.
Dicevano tutti che gli voleva un gran bene.
- Dio l’abbia in gloria, - commentò la zia in tono pio.
Il vecchio Cotter mi guardò. Sentivo quei suoi occhietti neri a capocchia di spillo
che mi scrutavano, ma non volli dargli la soddisfazione di alzare i miei dal piatto.
Tornò alla sua pipa e alla fine sputò con forza sulla grata.
- Non mi garberebbe che figli miei avessero a che fare con un uomo simile, -
dichiarò.
- Che volete dire signor Cotter? - chiese la zia.
- Voglio dire che non hanno nulla da guadagnarci, ecco. Per conto mio, i ragazzi
dovrebbero correre e divertirsi fra di loro e non essere... Ho ragione Jack?
- Sono del tuo parere anch’io, - disse lo zio. - Che impari a difendere il suo posto
nel mondo. È quel che dico sempre a questo Rosacroce qui. Fa’ della ginnastica.
Quando ero ragazzo, ogni mattina senza fallo, estate o inverno, mi facevo un bel
bagno freddo. Ecco perché sono ancora in gamba adesso. L’istruzione sarà una
bella cosa ma... Forse il signor Cotter l’assaggerebbe volentieri un po’ di quel
coscio di montone... - aggiunse rivolgendosi alla zia.
- No, no, prego, - si schermì quello.
La zia prese il piatto dalla credenza e lo posò sul tavolo.
- Ma perché secondo voi, signor Cotter, sarebbe un male per i ragazzi? - insisté.
- Perché sono di natura impressionabile. E il vedere certe cose, non so se mi
spiego, ha un effetto...
Mi riempii la bocca di minestra per timore di dare sfogo alla mia rabbia. Vecchio
peperone rammollito!
Era tardi quando m’addormentai. Sebbene ce l’avessi col vecchio Cotter per quel
suo trattarmi da marmocchio, mi torturavo il cervello per trarre un qualche
significato dalle sue frasi lasciate a mezzo. Nel buio della stanza mi immaginavo
di rivedere la faccia grigia e massiccia del paralitico. Mi tirai le coperte fin sulla
testa e cercai di pensare al Natale.
Ma la faccia grigia mi perseguitava. Bisbigliava piano e capivo che voleva
confessarmi qualcosa. Sentivo che il mio animo si ritraeva nei recessi di una
regione piacevole e viziosa e qui di nuovo ritrovavo quella faccia ad aspettarmi.
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Cominciava a confessarsi in un bisbiglio e mi chiedevo perché sorridesse di
continuo e perché le labbra fossero umide di saliva. Poi mi ricordavo che era
morto di paralisi e sentivo che sorridevo anch’io, debolmente, come per assolvere
il simoniaco dal suo peccato.
L’indomani mattina, dopo colazione, andai a dare un’occhiata alla casa, in Great
Britain Street. Era una bottega modesta, catalogata sotto la generica dicitura:
«Abbigliamento». Per la maggior parte poi questo abbigliamento consisteva in
ombrelli e scarponcini per ragazzi e di solito in vetrina pendeva un cartello con la
scritta «Si ricoprono ombrelli». Adesso però non si vedevano cartelli di sorta
perché i battenti erano chiusi e alla maniglia era legato con un nastro un fiocco di
crespo nero. Due donnette e un fattorino del telegrafo leggevano il biglietto
appuntato sul crespo. M’avvicinai anch’io e lessi:


11 Luglio 1895
Il Rev. James Flynn (già della Chiesa di Santa Caterina in Meath Street) di anni
65 – R. I. P.


La lettura del biglietto mi convinse che era morto e il trovarmi così di fronte
all’evidenza mi turbò. Se fosse stato ancora in vita sarei andato nella stanzetta
buia del retrobottega e lo avrei trovato là in poltrona, vicino al fuoco, mezzo
affogato nelle pieghe della sottana. Forse la zia mi avrebbe dato da portargli un
pacchetto di High Toast e il regalo sarebbe valso a destarlo dal suo torpore. Ero
sempre io a vuotargli il pacchetto nella vecchia tabacchiera nera: le mani gli
tremavano troppo perché potesse farlo da sé senza versarne metà sull’impiantito.
Perfino nel gesto di portarsi la grossa mano tremula al naso, nuvolette brune gli
sfuggivano di fra le dita cadendogli in rivoli sul davanti della veste. E forse era
proprio questo innaffiamento continuo a dare ai suoi vecchi abiti talari quel
colore verdastro; tanto più che il fazzoletto rosso, annerito, come sempre, dalle
macchie di tabacco di un’intera settimana, e col quale tentava di spolverarsi, si
rivelava del tutto insufficiente allo scopo.
Avrei voluto entrare a vederlo ma non ebbi il coraggio di bussare alla porta.
M’allontanai adagio lungo il lato assolato della strada e passando dinanzi ai
negozi mi leggevo via via tutti gli avvisi teatrali esposti in vetrina. Trovavo strano
che né io né la giornata fossimo disposti alla tristezza e mi dispiaceva scoprire
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anzi in me quasi un senso di sollievo perché, come aveva detto lo zio la sera
prima, egli m’era stato in molte cose maestro. Aveva studiato nei collegio dei Padri
irlandesi a Roma e così mi aveva appreso una corretta pronuncia latina. Soleva
raccontarmi aneddoti sulle catacombe o su Napoleone Bonaparte e m’aveva
spiegato il significato delle diverse cerimonie della Messa nonché dei diversi
paramenti indossati dal sacerdote. A volte si divertiva a sottopormi difficili quesiti,
chiedendomi come ci si dovesse comportare in date circostanze e se certi peccati
fossero da considerarsi mortali o veniali o, altrimenti, semplici imperfezioni. Tali
domande mi dimostravano quanto misteriose e complesse fossero certe istituzioni
della Chiesa che fino allora avevo riguardato come le cose più elementari. Le
responsabilità del sacerdote nei confronti dell’Eucarestia e del segreto della
Confessione mi apparivano addirittura di tal gravità che mi stupivo si potesse
trovare chi aveva il coraggio di portarne il peso; e non rimanevo affatto sorpreso
quando mi raccontava che i Padri della Chiesa avevano scritto volumi e volumi,
dello spessore dell’annuario delle poste e di stampa fitta come il notiziario legale
dei giornali, al fine di delucidare tutte quelle intricate questioni. Spesso,
pensandoci, non riuscivo a rispondergli oppure mi veniva alle labbra solo una
risposta molto sciocca o confusa, della quale egli era solito sorridere scuotendo il
capo, due o tre volte. Talora invece mi faceva ripassare le risposte della Messa,
che aveva voluto imparassi a memoria e quando incespicavo sorrideva pensoso e
scuoteva la testa, fiutando enormi prese di tabacco ora da una narice ora
dall’altra, alternativamente. Di solito, quando sorrideva, scopriva i grossi denti
giallastri e lasciava pendere la lingua sul labbro inferiore; abitudine che sul
principio della nostra amicizia, prima ancora di conoscerlo bene, mi dava un
certo disagio.
Mentre camminavo al sole mi tornarono in mente le parole del vecchio Cotter e
cercai di rammentarmi cosa fosse accaduto, dopo, nel sogno. Ricordavo di aver
visto lunghe tende di velluto e una lampada antica che dondolava... Sentivo che
dovevo essere stato via, lontano lontano, in un paese dalle usanze strane, in
Persia forse... Ma non riuscivo a rammentarmi come fosse finito il sogno.
Quella sera la zia mi portò con sé a far visita in casa del defunto. Era dopo il
tramonto ma i vetri delle finestre delle case che guardavano a occidente
riflettevano ancora l’oro cupo di una gran massa di nubi. Nannie ci ricevette


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nell’entrata e poiché sarebbe parso sconveniente rivolgerle la parola ad alta voce,
la zia si limitò a stringerle la mano.
Con fare interrogativo la vecchia alzò gli occhi verso il piano superiore e a un
cenno di consenso della zia ci fece strada arrancando su per le scale, con la testa
curva che sporgeva appena di sopra la ringhiera. Sul primo pianerottolo si fermò
e con gesto incoraggiante additò la porta aperta della stanza funebre. La zia entrò
per prima e la vecchia, vedendo che esitavo, rinnovò più volte con cenni della
mano l’invito.
Entrai in punta di piedi. Attraverso l’orlo di trina delle tende filtrava nella stanza
una cupa luce dorata in cui le candele apparivano come pallide fiamme lievi.
L’avevano    già   messo   nella   bara. Nannie   diede l’esempio    e   tutti e tre
c’inginocchiammo ai piedi del letto. Feci finta di pregare ma non riuscivo a
raccogliere le idee perché il borbottio della vecchia mi distraeva. Le guardavo la
sottana goffamente agganciata sul dorso e i tacchi delle scarpe di panno tutti
storti da un lato. E mi venne in mente che il vecchio prete ne dovesse sorridere,
disteso là, nella bara.
Ma no. Quando ci alzammo e ci avvicinammo a capo del letto vidi che non
sorrideva. Giaceva massiccio e solenne, vestito come per andare all’altare, un
calice fra le grosse mani abbandonate. Aveva una faccia truce, grigia e pesante,
con le narici nere e fonde cerchiate di rada peluria bianca. E c’era un odor greve
nella stanza, i fiori.
Ci segnammo ed uscimmo. Nella stanzetta dabbasso trovammo Eliza seduta
solennemente nella poltrona del prete. Mi diressi incerto verso la mia solita sedia,
nell’angolo, mentre Nannie s’avvicinava alla credenza e ne toglieva una bottiglia di
sherry e dei bicchieri. Li posò sul tavolo e ci invitò a bere. Poi, ad un cenno della
sorella, versò lo sherry nei bicchieri e ce li porse. Si fece anche premura
d’insistere perché prendessi del croccante, ma rifiutai pensando al rumore che
avrei fatto mangiandolo. Ebbe quasi l’aria di restar male al mio rifiuto e in silenzio
s’accostò al divano dove sedette alle spalle della sorella. Nessuno parlava.
Guardavamo tutti il focolare vuoto.
La zia attese un sospiro da parte di Eliza, poi disse:
- Be’ se n’è andato in un mondo migliore.
Eliza sospirò di nuovo e chinò il capo in assenso. Ad ogni sorso la zia si gingillava
col piede del bicchiere.
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- E... è morto serenamente? - chiese.
- Oh, sì, serenamente, signora, - disse Eliza. - Non ci si è neanche accorti di
quando ha esalato l’ultimo respiro. Una bella morte, sì, ringraziando Iddio.
- E per i...
- È venuto Padre O’Rourke martedì a dargli l’Estrema Unzione e a prepararlo.
- Sapeva, allora?
- Era pienamente rassegnato.
- Si vede, infatti.
- È quel che ha detto la donna ch’è venuta a lavarlo. Pare che dorma, ha detto,
tanto ha l’aria serena e rassegnata. Chi avrebbe detto che avrebbe fatto una così
bella salma.
- Già, è vero, - disse la zia.
Bevve un altro sorso e aggiunse:
- Ad ogni modo, signorina Flynn, dev’esservi di gran consolazione il pensiero che
avete fatto tutto quel che potevate per lui. Bisogna riconoscere che siete state
buone assai, tutt’e due.
Eliza si lisciò il vestito sulle ginocchia.
- Eh, povero James! Dio sa se abbiamo fatto il possibile, povere come siamo... Ma
mai, fintanto che era in vita, gli avremmo fatto mancare qualcosa...
Nannie aveva appoggiato la testa sul cuscino del divano e pareva lì lì per
addormentarsi.
- Guardate un po’ la povera Nannie, - disse Eliza, - è sfinita. Tutto quel che
abbiamo avuto da fare lei ed io, e chiamare la donna per lavarlo, e preparare la
salma, e la bara, e prendere gli accordi per la messa nella cappella... Se non fosse
stato per Padre O’Rourke non so proprio come ce la saremmo cavata. È stato lui a
portarci tutti i fiori e perfino quei due candelabri dalla chiesa. Lui che ha scritto
l’annuncio per il «Freeman’s General» e s’è incaricato dei documenti per il cimitero
e per l’assicurazione del povero James.
- Ah, ma è stato buono davvero! - disse la zia.
Eliza chiuse gli occhi e scosse la testa, adagio.
- Solo dei vecchi amici ci si può fidare, - disse. - Alla resa dei conti se no, non
trovi un cane che t’aiuti.
- È vero, e come se è vero, - disse la zia. - E sono certa che ora ch’è andato a
ricevere il premio eterno non si dimenticherà di voi e della vostra bontà.
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- Eh, povero James... Non era davvero che ci desse fastidio. Non si sentiva
nemmeno in casa, non più di ora... Eppure so che se n’è andato e...
- Quando sarà finito tutto, allora sì che ne sentirete la mancanza, - disse la zia.
- Lo so. Non gli porterò più la sua tazza di brodo e voi signora non avrete più da
mandargli il tabacco... povero James!
Tacque, come in intima comunione col passato, poi riprese cauta:
- Vedete, m’ero accorta, in questi ultimi tempi, che doveva avere qualcosa. Ogni
volta che gli portavo la minestra lo trovavo qui sdraiato nella poltrona col
breviario che gli era caduto per terra e la bocca spalancata.
Si posò un dito sul naso corrugando la fronte. Poi seguitò:
- Eppure, continuava a dire che un giorno di bel tempo, prima che finisse l’estate,
avrebbe fatto una gita in carrozza, tanto per rivedere la casa dove siamo nati, giù
a Irishtown e ci avrebbe portate con sé, Nannie ed io. Se avessimo potuto trovare
qui di fronte, diceva, da John Rush, una di quelle carrozzelle moderne che non
fanno rumore, di cui gli aveva parlato Padre O’Rourke, di quelle insomma con le
ruote gommate, per intenderci, da prendere a nolo per tutta la giornata, allora ci
si sarebbe potuti andare tutti e tre insieme, una domenica sera... Ci s’era fissato,
povero James!
- Che Dio abbia misericordia dell’anima sua! - commentò la zia.
Eliza tirò fuori il fazzoletto e s’asciugò il naso. Poi se lo rimise in tasca e per un
po’ stette lì a fissare il caminetto vuoto in silenzio.
- Ha avuto sempre troppi scrupoli, - disse. - I doveri del sacerdozio erano troppo
per lui. E così ha avuto una vita, come dire... contrariata, ecco.
- Già. Un uomo deluso. Si vedeva.
Il silenzio s’impadronì della stanza e profittandone mi avvicinai al tavolo,
assaggiai il mio sherry e me ne tornai pian pianino nel mio angolo. Eliza pareva
immersa in profonda meditazione. Aspettammo reverenti che rompesse il silenzio.
Alla fine, dopo una lunga pausa, disse adagio:
- Fu quel calice che ruppe... Da lì cominciò ogni cosa. Naturalmente dicevano
tutti che non c’era da darvi peso... era un calice vuoto, voglio dire. Eppure... Pare
che fosse stata colpa del chierico. Ma il povero James era così nervoso, Dio gli
perdoni!
- Fu quello, allora? - fece la zia. - Ne avevo sentito parlare ma...
Eliza accennò di sì col capo.
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- Gli scombussolò la mente. Da allora cominciò a intristirsi, a non voler più
parlare con nessuno e ad andare in giro da solo. Così una sera che l’avevano
mandato a chiamare, non riuscirono a trovarlo da nessuna parte. Lo cercarono in
lungo e in largo, dappertutto... macché, non lo trovavano. Alla fine il sagrestano
suggerì che poteva essere in cappella e col Padre O’Rourke e un altro prete ch’era
lì entrarono con un lume a cercarlo. E lo credereste? Lo trovarono là, solo solo,
nel buio del confessionale, completamente sveglio e che se la rideva piano fra sé.
S’interruppe d’un tratto come per ascoltare. Stetti in ascolto anch’io ma non
s’udiva suono in tutta la casa e sapevo che il vecchio prete giaceva immobile nella
bara, come lo avevamo visto noi, solenne e truce nella morte, il calice
abbandonato sul petto. Eliza riprese:
- Completamente sveglio, sì e che se la rideva piano fra sé...
Naturalmente quando se ne accorsero pensarono subito che dovesse avergli dato
di volta il cervello...




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Un incontro




Fu Joe Dillon a farci conoscere il Far West. Aveva una piccola biblioteca fatta di
vecchi numeri dell’«Union Jack», del «Pluck» e dell’«Halfpenny Marvel». Ogni sera,
usciti di scuola, ci si riuniva nel giardino sul retro di casa sua e là organizzavamo
battaglie indiane. Lui e quel grassone del suo fratello minore, Leo, lo sfaticato,
tenevano il soppalco della stalla e noi, dal basso, si tentava di prenderlo d’assalto;
quando non ci disponevamo invece a combattere battaglie in piena regola
sull’erba. Ma per quanto ci si mettesse d’impegno mai riuscimmo a vincere né
assedio né battaglie e tutte le nostre imprese terminavano immancabilmente con
la vittoriosa danza di guerra di Joe Dillon. Tutte
le mattine i suoi genitori andavano alla messa delle otto in Gardiner Street, e nel
vestibolo indugiava sempre il soave profumo della signora Dillon. Per noi però,
più piccoli e più timidi com’eravamo, egli era troppo violento nei suoi giochi.
Pareva proprio un indiano quando con un vecchio copriteiera in testa scorrazzava
su e giù per il giardino battendo col pugno su una latta e urlando:
- Ya! Yaka, yaka, yaka, ya!
Stentammo a crederlo quando ci vennero a dire che aveva vocazione al
sacerdozio. Eppure era vero.
Ben presto uno spirito di rivolta si diffuse fra noi e sotto la sua influenza anche
diversità di cultura e di temperamento furon messe da parte. Ci si raccolse tutti
in una banda, chi per arditezza, chi per gioco, altri per paura, e nel numero di
questi ultimi indiani riluttanti che avevano timore di apparire deboli o sgobboni,
c’ero anch’io. Le avventure descritte dalla letteratura del Far West erano ben
lontane dalla mia natura, ma servivano almeno ad aprire le porte all’evasione. Si
confacevano di più al mio gusto certi racconti polizieschi, ravvivati da fugaci
apparizioni di belle ragazze, fiere e scapigliate. E sebbene non ci fosse nulla di
male in questo genere di racconti, non privi a volte di velleità letterarie, pure a
scuola li facevano circolare di nascosto.
Un giorno che Padre Butler stava interrogando sulle solite quattro pagine di storia
romana, quello sciocco di Leo Dillon si fece sorprendere con una copia
dell’«Halfpenny Marvel».
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- Che pagina allora? Questa o quella? Questa?... Su Dillon, alzati... «Appena il
giorno... » Avanti! Che giorno?... «Appena il giorno si fu levato...» Ma insomma hai
studiato sì o no? Che cos’hai lì in tasca?
Ci prese a tutti il batticuore quando Leo Dillon tirò fuori il giornale e tutti si fece il
viso innocente. Padre Butler sfogliò le pagine, accigliato.
- Ma che roba è? «Il capo degli Apaches!» E così è questo che leggete invece di
studiare la storia romana! Che non trovi più porcherie simili in iscuola! Chi le ha
scritte doveva essere proprio un disgraziato che adoperava la penna tanto per
guadagnarsi di che bere. E mi stupisce che ragazzi come voi, colti e educati,
leggano di queste sciocchezze. Lo capirei se foste... che so... allievi della Scuola
Nazionale. Siamo intesi allora, Dillon. T’avverto una volta per tutte: mettiti sul
serio al lavoro o...
Dinanzi alla gravità della ramanzina nel raccolto silenzio delle ore di scuola, la
gloria del Far West perse ai miei occhi molto del suo splendore e la grassa faccia
imbarazzata di Leo Dillon mi destò seri scrupoli di coscienza. Ma fuori di questa
influenza moderatrice mi riprendeva la sete di sensazioni violente e di un’evasione
che solo quelle cronache di disordine parevano offrirmi. Le finte battaglie della
sera mi divennero altrettanto noiose del giornaliero tran tran della scuola al
mattino, poiché il mio era adesso un desiderio di avventure vere. Ma, riflettevo,
non capitano mai le avventure a chi se ne sta a casa propria: bisogna andar fuori
a cercarsele.
S’avvicinavano le vacanze estive allorché mi risolsi a rompere per un giorno
almeno la monotonia della mia vita di scolaro. Con Leo Dillon e un certo Mahony
combinammo di marinare la scuola, una giornata intera. Avevamo in serbo sei
“pence” ciascuno. Ci saremmo dovuti trovare sul ponte, alle dieci del mattino. La
sorella maggiore di Mahony gli avrebbe scritto un biglietto di giustificazione e Leo
Dillon avrebbe incaricato il fratello di dire che era ammalato. Avevamo stabilito di
prendere giù per la Wharf Road fino alla darsena e là di fare la traversata in
“ferry-boat” per spingerci fino alla Pigeon House. Leo Dillon aveva paura che
incontrassimo Padre Butler o qualcun altro del Collegio, ma Mahony obbiettò con
molto buon senso che cosa avrebbe mai potuto andare a fare Padre Butler alla
Pigeon House. Rassicurati che si fu su questo punto, spettò a me di portare a
termine la prima parte del programma facendomi dare i sei “pence” dagli altri due
e mostrando allo stesso tempo i miei. Eravamo tutti un po’ eccitati la vigilia,
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quando prendemmo gli ultimi accordi. Ci stringemmo la mano ridendo e Mahony
disse:
- A domani, camerati!
Dormii male quella notte. Al mattino fui il primo ad arrivare al ponte, poiché ero
quello   che   abitava   più    vicino.   Nascosi   i   libri    nell’erba   folta   accanto
all’immondezzaio, in fondo al giardino, dove non andava mai nessuno, e
m’affrettai lungo il fiume. Era un mattino di primo giugno, dolce e soleggiato. Mi
sedetti sul parapetto del ponte e presi ad ammirarmi le leggere scarpe di tela che
avevo diligentemente pulito col bianchetto la sera prima; a osservare i docili
cavalli di un omnibus carico di gente indaffarata, che arrancavano adagio su per
la collina. I rami degli alti alberi sul viale si ergevano tutti in un’allegria di
foglioline verde chiaro e il sole le traversava cadendo di sbieco sull’acqua. La
pietra del parapetto cominciava a riscaldarsi e io presi a batterla con le mani sul
ritmo di un motivo che avevo in mente. Ero felice.
Saranno stati cinque o dieci minuti che stavo lì seduto quando vidi apparire di
lontano il vestito grigio di Mahony. Saliva sorridendo la collina e raggiunto che
m’ebbe mi s’arrampicò accanto sul parapetto.
Mentre aspettavamo tirò fuori la fionda che gli gonfiava la tasca e mi spiegò tutti i
miglioramenti che vi aveva fatti. Gli chiesi perché l’aveva portata e lui rispose che
voleva divertirsi a tirare agli uccelli. Mahony non si peritava di usare il dialetto e
parlava di Padre Butler come del «vecchio sgonfione». Aspettammo un altro quarto
d’ora ma Leo Dillon non si vedeva. Alla fine Mahony saltò giù dal parapetto.
- Andiamocene, va’! Lo sapevo che avrebbe avuto fifa, il grassone.
- Ma... e i suoi sei “pence”?
- Requisiti. Tanto meglio per noi. Avremo uno scellino e mezzo invece d’uno solo.
Prendemmo giù per la North Strand Road fino alla fabbrica del vetriolo e poi
voltammo a destra lungo la Wharf Road. Appena fummo fuori di vista Mahony si
mise a fare l’indiano. Impugnata la fionda scarica diede la caccia a un branco di
ragazzine cenciose e quando due straccioncelli                  per spirito di cavalleria
cominciarono a prenderci a sassate, mi propose di dar loro battaglia. Osservai che
erano troppo piccoli e così proseguimmo per la nostra strada mentre la
marmaglia prendendoci evidentemente per protestanti, perché Mahony, che era
assai scuro di pelle, portava sul berretto il distintivo d’argento di un’associazione
di cricket, ci gridava dietro: «“Swaddlers! Swaddlers!”» [Termine spregiativo con cui
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gli irlandesi sogliono chiamare i protestanti. – N.d.T.]. Arrivati a Smoothing Iron
stabilimmo di organizzare un assedio in grande stile, ma fu un fiasco perché
avremmo dovuto essere almeno in tre. Ci vendicammo allora di Leo Dillon dicendo
che era un fifone e domandandoci chissà quante gliene avrebbe dette il signor
Ryan alla lezione delle tre.
Arrivammo così al fiume. Per un bel pezzo seguitammo a vagabondare per le
strade rumorose fiancheggiate da alti muri di pietra. Ci fermavamo intenti dinanzi
a manovre di gru e locomotive e la nostra immobilità non mancava d’attirarci le
fiorite apostrofi dei carrettieri.
Fummo al molo a mezzogiorno passato e poiché pareva che tutti gli operai se ne
fossero andati a far colazione, ci comprammo anche noi due belle focacce all’uva e
ce le mangiammo seduti sulle tubature vicino al fiume. Ci godevamo lo spettacolo
del traffico dublinese: i vaporetti che si annunciavano da lontano con fiocchi di
fumo lanoso, le brune barche da pesca oltre il Ringsend e il gran veliero bianco
che scaricava dall’altra parte della banchina. Mahony disse che sarebbe stata una
gran bella cosa potersene andare via sul mare in uno di quei barconi e anch’io
guardando le alte alberature vedevo o immaginavo di vedere quella geografia che
a scuola mi veniva propinata in dosi così modeste, prendere a poco a poco
sostanza sotto i miei occhi. Ma già pareva che scuola e casa s’allontanassero
sempre più e ogni loro influenza scompariva.
Traversammo il Liffey in “ferry-boat”, pagando il nostro pedaggio per essere
traghettati in compagnia di due operai e di un piccolo ebreo con un sacco.
Avevamo un’aria seria, quasi solenne, ma l’unica volta che in quel breve tragitto i
nostri sguardi s’incontrarono, scoppiammo a ridere tutti e due. Approdati che
fummo ci fermammo a veder scaricare il bel tre alberi che avevamo già notato
dall’altra parte del porto. Un tale che stava lì ci disse che era un battello
norvegese. M’avvicinai a poppa per cercare di decifrarne il nome, ma non ci riuscii
e tornato indietro mi misi allora a osservare i marinai forestieri per vedere se per
caso ce n’era qualcuno con gli occhi verdi, poiché, ricordavo, m’avevano detto...
Ma li avevano tutti azzurri o grigi o anche neri e l’unico ad averli quasi verdi era
un uomo alto che dava spettacolo alla folla raggruppata sulla banchina gridando
allegramente ad ogni cadere di tavole:
- Bene! Bene!


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Quando fummo stanchi di stare a guardare, ci avviammo adagio verso il
Ringsend. La giornata s’era fatta afosa e nelle vetrine di droghiere stavano a
scolorire biscotti ammuffiti. Ci comprammo un po’ di biscotti e di cioccolata e ce li
mangiammo pian piano vagabondando per le squallide viuzze dove abitavano le
famiglie dei pescatori. Non ci riuscì di trovare una latteria e così dovemmo entrare
nella baracca di un venditore ambulante per comprarci una bottiglia di sciroppo
al lampone per ciascuno. Preso nuovo vigore dalla bevanda Mahony si mise a
inseguire un gatto lungo un viottolo, ma il gatto fuggì in un campo.
Eravamo piuttosto stanchi tutti e due e arrivati nel campo ci dirigemmo senz’altro
verso la scarpata dalla quale si poteva vedere il Dodder.
Era troppo tardi e ci sentivamo troppo stanchi per risolverci a realizzare il nostro
progetto di visitare la Pigeon House. Dovevamo essere di ritorno per prima delle
quattro se non volevamo che la nostra avventura venisse scoperta. Mahony
guardava con rimpianto la sua fionda e dovetti proporre di tornare a casa in treno
perché ritrovasse un po’ della sua allegria. Il sole scomparve dietro le nubi
lasciandoci soli coi nostri tristi pensieri e le briciole della merenda.
Tranne noi non c’era anima viva nel campo. Era già un po’ che stavamo là
sdraiati senza parlare quando vidi da lontano un uomo che si avvicinava. Lo
osservavo con aria indolente, masticando uno di quei fili d’erba coi quali le
ragazze leggono l’avvenire. Camminava adagio lungo la scarpata, una mano su un
fianco e nell’altra un bastone col quale andava battendo piano per terra. Era
vestito miseramente con un abito di un nero-verdastro e in capo portava uno di
quei cappelli a cupola alta, un po’ malandato. Pareva piuttosto vecchio perché
aveva i baffi grigio cenere. Nel passarci davanti alzò in fretta gli occhi a guardarci,
poi continuò la sua strada. Lo seguimmo con lo sguardo tutti e due e vedemmo
che, fatta una cinquantina di passi, si voltava e tornava indietro. Veniva verso di
noi molto adagio e sempre battendo per terra col bastone, così adagio che pensai
stesse cercando qualcosa fra l’erba.
Raggiunti che ci ebbe si fermò e ci dette il buongiorno. Ricambiammo il saluto e
lui, sempre adagio e con gran precauzione, si sedette accanto a noi sulla
scarpata. Si mise a parlare del tempo. Disse che sarebbe stata un’estate calda
assai e aggiunse che le stagioni erano mutate di molto da quando lui era ragazzo,
tanti anni fa. Disse anche che il più felice periodo della vita è senza dubbio quello
in cui si va ancora a scuola e che avrebbe dato qualsiasi cosa pur di tornare a
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essere   giovane. Mentre    esprimeva    questi suoi sentimenti che in         realtà
c’interessavano poco, noi serbavamo il silenzio. Poi cominciò a parlare di scuola e
di libri. Ci chiese se avessimo mai letto le poesie di Thomas Moore o i romanzi di
Walter Scott e di Lord Lytton. Feci finta d’aver letto tutto, così che alla fine mi
disse:
- Be’, vedo che sei un topo di biblioteca anche tu, come me. Il tuo amico invece è
diverso, - aggiunse indicando Mahony che ci guardava a bocca aperta. - Gli piace
giocare a lui.
Aveva a casa tutti i libri di Walter Scott e di Lord Lytton, disse, e non si stancava
mai di leggerli.
- Certo che, specie fra quelli di Lord Lytton, ce ne sono di non adatti per i ragazzi,
- osservò. Mahony domandò perché non erano adatti, domanda che mi turbò e mi
mise in imbarazzo: temevo di far la figura dello stupido anch’io di fronte a
quell’uomo. Vidi invece che si limitava a sorridere e notai i vuoti fra i denti
giallastri. Ci chiese poi chi dei due aveva più innamorate. Mahony affermò
disinvolto di averne tre. Mi chiese allora quante ne avevo io e risposi che non ne
avevo nessuna.
Non mi credette: ne dovevo avere una anch’io, n’era certo. Rimasi in silenzio.
- E voi, - domandò Mahony con piglio arrogante, - quante ne avete, sentiamo?
L’uomo sorrise come prima e disse che alla nostra età ne aveva a non finire.
- Tutti i ragazzi hanno l’innamorata, - dichiarò.
Questo suo modo di considerare l’argomento mi colpì come stranamente libero
per un uomo della sua età. Pensavo entro di me che era giusto quanto diceva dei
ragazzi e delle innamorate, ma mi spiacevano quelle parole in bocca sua e mi
domandai anche perché fosse rabbrividito una volta o due come se avesse paura
di qualcosa o avesse sentito freddo, tutto a un tratto. Aveva buon accento, notai,
mentre riprendeva il discorso. Parlava delle ragazze e dei loro bei capelli morbidi e
delle belle mani bianche e diceva che si faceva presto ad accorgersi che non erano
poi tanto buone come parevano, non appena se ne aveva un po’ d’esperienza. -
Non c’è niente che mi piaccia, - diceva, - come guardare una bella fanciulla e le
sue belle mani bianche e i bei capelli morbidi -. E via via che parlava avevo
l’impressione che ripetesse qualcosa d’imparato a memoria e che quasi
magnetizzata dalle sue parole la mente gli girasse adagio torno torno, sempre
nella stessa orbita. Dalla voce pareva talvolta che alludesse semplicemente a un
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fatto risaputo da tutti, talaltra l’abbassava invece fino a un bisbiglio e assumeva
un tono di mistero quasi ci stesse confidando un segreto che non voleva fosse
udito da altri. E così continuava a ripetere e ripetere le sue frasi, variandole e
rigirandole con monotonia. L’ascoltavo, lo sguardo fisso in fondo alla scarpata.
Dopo un bel po’ interruppe il monologo. S’alzò adagio dicendo che doveva
lasciarci per un minuto o due, poco tempo insomma, e senza mutare la direzione
del mio sguardo lo vidi allontanarsi lentamente verso il fondo del campo.
Rimanemmo in silenzio, quando se ne fu andato. Poco dopo però sentii Mahony
che esclamava:
- Ma di’... Guarda che sta facendo!
E poiché non rispondevo né alzavo lo sguardo proseguì:
- Bel tipo dev’essere!
- Caso mai ci domandasse i nomi, - dissi, - tu ti chiami Murphy e io Smith.
Non aggiungemmo altro. Stavo ancora considerando se dovevo andarmene o no
quando l’uomo tornò indietro e ci risedette accanto. Si era appena seduto che
Mahony, scorto il gatto che gli era sfuggito poco prima, saltò in piedi e si diede a
inseguirlo per il campo. L’uomo ed io osservavamo la caccia. Il gatto riuscì a
scamparla ancora una volta e Mahony cominciò a tirar sassi contro il muro su cui
si era arrampicato.
Alla fine smise e prese a vagare senza scopo in fondo al campo. Dopo una pausa
l’uomo attaccò a parlare. Disse che il mio amico doveva essere un ragazzaccio e
mi chiese se lo frustavano spesso a scuola. Fui lì lì per rispondere indignato che
non si era allievi della scuola nazionale, noi, per essere frustati come diceva lui;
ma tacqui.
Quello cominciò allora a parlare dei diversi modi di castigare i ragazzi. Pareva che
la sua mente, tornando a subire il magnetismo delle parole, girasse in lenta
cerchia attorno a quel nuovo polo. Ragazzi di tal sorta, disse, avrebbero dovuto
essere frustati ben bene. Non c’è nulla che valga come una buona frustata
quando si è violenti o indisciplinati.
Colpi sulle mani o scapaccioni non servono; quel che ci vuole è la frusta. Rimasi
stupito di queste sue affermazioni e involontariamente gli detti un’occhiata.
Incontrai così lo sguardo d’un paio d’occhi verde bottiglia che mi spiavano di sotto
alla fronte contratta e subito riabbassai i miei.


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L’uomo continuò nel suo monologo. Pareva si fosse dimenticato l’indulgenza di
poc’anzi. Se avesse sorpreso un ragazzo a parlare con una fanciulla o uno che
avesse l’innamorata, lo avrebbe frustato a sangue: gli avrebbe insegnato così a
fare il galletto. Se poi avesse fatto all’amore di nascosto gliene avrebbe date tante
come nessun altro al mondo. E mi descriveva come avrebbe fatto a frustarlo,
quasi stesse rivelando un qualche complicatissimo mistero. Gli sarebbe piaciuto,
disse, più di qualsiasi cosa; e la voce, via via che monotonamente mi guidava
attraverso quel mistero, gli s’inteneriva e pareva mi supplicasse di capirlo. Attesi
che il monologo giungesse a una nuova pausa. Allora m’alzai di scatto. Per non
tradire la mia agitazione indugiai ancora un poco, fingendo di allacciarmi una
scarpa; poi dissi che me ne dovevo andare e lo salutai. Risalii adagio la scarpata
ma il cuore mi batteva forte per timore ch’egli mi fermasse afferrandomi a una
caviglia.
Quando fui in cima mi voltai e chiamai forte in direzione del campo.
- Murphy!
La mia voce aveva un accento di forzata spavalderia e mi vergognavo di quel vile
strattagemma. Dovetti chiamare ancora prima che Mahony mi vedesse e gridasse
in risposta. Come mi batteva il cuore mentre egli mi correva incontro, attraverso il
campo! Correva come per portarmi aiuto ed ebbi rimorso perché entro di me lo
avevo sempre disprezzato un poco.




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Arabia




Era a fondo cieco la North Richmond Street e come tale poco frequentata, tranne
nell’ora in cui uscivano i ragazzi dalla scuola dei Fratelli Cristiani. Al termine
della strada s’ergeva una casa disabitata a due piani, separata dalle sue vicine da
un quadrato di terreno. Le altre case, consce dell’integerrima vita che si svolgeva
entro di esse, si guardavano l’un l’altra con brune facce imperturbabili.
Il precedente inquilino della nostra casa, un prete, era morto nel salotto sul retro.
In tutte le stanze, tenute chiuse per tanto tempo, aleggiava un odore di muffa e il
ripostiglio dietro la cucina era disseminato di cartacce. Era qui che avevo trovato
fra l’altro vecchi libri senza rilegatura, dalle pagine umide e gualcite: “L’abate” di
Walter Scott, “Il devoto comunicante” e “Le memorie di Vidocq”. Quest’ultimo mi
piaceva in modo particolare perché aveva i fogli ingialliti. Nel mezzo del giardino
incolto dietro la casa c’era un melo e cespugli qua e là, sotto uno dei quali m’era
capitato di trovare un giorno la pompa da bicicletta dell’ex locatario, tutta
arrugginita. Era stato un prete caritatevole e nel testamento aveva lasciato tutto il
suo denaro a istituzioni pie e i mobili alla sorella.
D’inverno, accorciandosi le giornate, calava la sera prima che avessimo finito di
cenare. Quando ci ritrovavamo nella strada la fila di case era già in ombra. Il
tratto di cielo sulle nostre teste si faceva d’un color viola cangiante e verso di esso
i lampioni alzavano le deboli fiamme delle lanterne. L’aria era fredda e pungente e
noi si giocava fino a sentirci avvampare in tutto il corpo. Le nostre grida
echeggiavano nella strada silenziosa e spesso il corso del gioco ci trascinava per
vicoli bui e fangosi dietro le case, ad affrontare la marmaglia del rione, fino alle
porte dei giardinetti sul retro cupi e stillanti da cui saliva il lezzo degli
immondezzai o alle scure stalle odorose dove un cocchiere strigliava il suo cavallo
facendo tintinnare musicalmente le fibbie dei finimenti.
Quando tornavamo nella strada, le luci delle cucine già inondavano i cortili. Ogni
volta che scorgevamo mio zio svoltare la cantonata ci nascondevamo nell’ombra e
vi si restava finché non eravamo sicuri che fosse entrato in casa. Quando poi la
sorella di Mangan si faceva sulla soglia a chiamare suo fratello per il tè, dal
nostro nascondiglio la guardavamo scrutare la strada a destra e a sinistra.
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Stavamo lì a guardare se se ne andava o se rimaneva, e se rimaneva eravamo
costretti a lasciare l’angolo buio e ad avviarci rassegnati verso la porta dei
Mangan. Lei ci aspettava, la figura inquadrata nell’alone di luce dell’uscio
semiaperto. La faceva sempre ammattire il fratello, prima di obbedirle, e io in
piedi presso il cancello la guardavo. Ad ogni movimento le ondeggiava la veste e la
treccia morbida dondolava in qua e in là.
Ogni mattina mi sdraiavo sul pavimento del salotto d’entrata per spiare la porta
di casa sua. Tenevo le persiane abbassate fino a pochi centimetri dal davanzale,
così che nessuno poteva vedermi, e quando appariva sulla soglia il cuore mi dava
un tuffo. Correvo in anticamera, afferravo i libri e la seguivo. Non perdevo mai
d’occhio la sua figurina bruna e arrivati al punto in cui le nostre strade
divergevano, affrettavo il passo e la sorpassavo. Ciò avveniva ogni mattina. Non le
avevo mai parlato, se non per rivolgerle poche parole casuali eppure il solo suo
nome era un richiamo per il mio sangue impetuoso.
L’immagine sua m’accompagnava anche nei luoghi meno propizi al romanticismo.
Il sabato sera quando la zia si recava al mercato ero costretto ad andare con lei
per aiutarla a portare i pacchi. Si camminava per le strade illuminate fra gli
spintoni degli ubriachi e delle donne che contrattavano, fra le bestemmie degli
operai, le stridule tiritere dei garzoni a guardia dei barili di carne salata e le nenie
nasali dei cantastorie che declamavano inni su O’Donovan Rossa o ballate sulle
agitazioni nel nostro paese. Tutti rumori che per me convergevano in un’unica
sensazione di vita: immaginavo di recare in salvo il mio calice frammezzo a una
folla di nemici. A volte il nome di lei mi saliva alle labbra in lodi e preghiere che io
stesso non capivo; senza che me ne rendessi conto gli occhi sovente mi si
riempivano di lacrime e a tratti la piena del mio cuore sembrava traboccarmi in
petto. Non pensavo all’avvenire. Non sapevo se le avrei mai parlato né in qual
modo, sempre che ne avessi avuto il coraggio, avrei potuto farla partecipe di
quella mia attonita adorazione. Sapevo solo che il mio corpo era come un’arpa e i
gesti, le parole di lei come dita che ne sfiorassero le corde.
Una sera me ne andai nel salotto sul retro, dov’era morto il prete. Era una buia
sera di pioggia e non s’udiva rumore in tutta la casa.
Attraverso i vetri rotti sentivo la pioggia battere sul terreno: sottili, incessanti aghi
di pioggia che giocavano sulle fradice aiuole. Giù, in basso, scorgevo il vago
baluginare di un lampione in distanza o di una finestra illuminata e m’era grato
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vedere così poco. Tutti i miei sensi pareva aspirassero a un velo d’oblio e
accorgendomi d’essere lì lì per venir meno premetti insieme le palme fino a farle
tremare, mormorando più volte: O amore... amore... amore!
Finalmente ella mi parlò. Alle prime parole che mi rivolse rimasi così confuso che
non seppi risponderle. Mi aveva chiesto se sarei andato all’«Arabia». Non ricordo
se risposi di sì o di no. Era un bellissimo bazar, disse e le sarebbe piaciuto
andarci.
- E chi te lo impedisce? - chiesi.
Parlando si rigirava un braccialetto d’argento intorno al polso. Non poteva, spiegò:
aveva il ritiro al convento quella settimana. Il fratello e altri due ragazzi si stavano
disputando i berretti nella strada e io ero solo presso il cancello. Con una mano
lei si teneva alla sbarra e piegava la testa verso di me. La luce del lampione di
fronte le coglieva la bianca curva del collo e illuminava i capelli raccolti sulla
nuca, la mano posata sulla sbarra. Cadendo di lato sul vestito, coglieva anche
l’orlo bianco della sottana, messo in evidenza dalla posa trascurata.
- Sei fortunato tu a poterci andare, - disse.
- Be’, se ci vado ti porterò qualcosa.
Quali innumerevoli follie non mi sconvolsero la mente, da quella sera, sia che
stessi sveglio, sia che dormissi. Avrei voluto annientare le monotone giornate che
seguirono. Lo studio m’era divenuto insopportabile: di notte in camera, di giorno
a scuola, l’immagine di lei s’interponeva fra me e la pagina che mi sforzavo di
leggere, e nel silenzio in cui s’esaltava l’anima mia le sillabe della parola “Arabia”
mi tornavano in mente per versarmi in cuore un incanto orientale.
Alla fine mi decisi a chiedere il permesso d’andare al bazar, il sabato sera. La zia
se ne stupì ed espresse la speranza che non si trattasse di qualche trappola da
frammassoni. In classe non seppi rispondere all’interrogazione. Vidi la faccia
dell’insegnante mutarsi man mano da benevola in severa: c’era da augurarsi che
non diventassi uno sfaticato, mi disse. Non riuscivo a raccogliere le idee e sentivo
tutto il peso dei seri impegni della vita ora che, ostacolandomi nei miei desideri,
m’apparivano uno sciocco e tedioso gioco da bambini.
Il sabato mattina ricordai allo zio che avrei voluto andare al bazar, quella sera.
Stava frugando nella cassapanca in cerca di una spazzola da cappelli e mi rispose
breve:
- Sì, sì, lo so, ragazzo mio.
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Ora che c’era lui in anticamera non potevo andare nel salotto d’ingresso e
affacciarmi alla finestra. Sentivo che c’era un’aria di malumore in casa e così
m’avviai lentamente verso la scuola. Faceva freddo e in cuore già avevo un triste
presentimento.
Quando tornai a casa per il desinare lo zio non era rientrato. Era ancora presto.
Per un po’ rimasi lì seduto a guardare l’orologio e quando il suo tic-tac cominciò a
irritarmi, lasciai la stanza. Salii le scale fino al piano superiore. Le stanze alte,
fredde e vuote mi dettero un senso di sollievo: passavo dall’una all’altra cantando.
Dalla finestra sul davanti vedevo i miei compagni giocare giù nella strada. Le loro
grida mi giungevano opache e indistinte e con la fronte appoggiata al vetro freddo
guardavo la casa buia dove abitava lei. Sarò rimasto lì quasi un’ora, non vedendo
altro che la sua figura vestita di scuro evocata dalla mia fantasia, con la luce del
lampione che illuminava discretamente la bianca curva del collo, la mano posata
sulla sbarra e l’orlo della sottana.
Scendendo trovai la signora Mercer seduta presso il fuoco. Era la vedova d’uno
strozzino, una vecchia chiacchierona che faceva collezione di francobolli usati per
conto di un’istituzione pia. Mi dovetti sorbire le sue ciarle interminabili durante il
tè. Il pasto durò oltre un’ora e ancora mio zio non tornava. La signora Mercer
s’alzò per andarsene: le spiaceva non potersi trattenere più a lungo ma erano le
otto sonate e non voleva trovarsi fuori tanto tardi perché l’aria della notte le
faceva male. Quando se ne fu andata mi misi a passeggiare in su e in giù per la
stanza, coi pugni stretti. La zia disse:
- Ho paura che dovrai rinunciare al tuo bazar per stasera.
Alle nove sentii lo zio che girava la chiave nella serratura. Lo sentii anche parlare
fra sé e notai il dondolio dell’attaccapanni sotto il peso del cappotto: tutti indizi
chiari per me. Solo a metà cena mi decisi a chiedergli i soldi per il bazar. Se n’era
dimenticato.
- È a letto la gente a quest’ora e nel primo sonno, - disse.
Ma io non sorrisi e la zia intervenne energica.
- Potresti anche darglieli i soldi e lasciarlo andare... L’hai già fatto aspettare
abbastanza.
Lo zio si dichiarò allora spiacente della dimenticanza: era del parere che ogni
tanto un po’ di svago ci vuole. Mi chiese dove volevo andare e quando gliel’ebbi


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ripetuto una seconda volta domandò se non conoscevo «L’addio dell’arabo al suo
stallone». Quando uscii di cucina ne stava recitando i primi versi alla zia.
Col mio fiorino stretto in pugno m’avviai giù per Buckingham Street, verso la
stazione. La vista delle strade illuminate a gas e affollate di compratori mi
rammentò la meta del mio viaggio. Mi sedetti in un vagone di terza classe, in un
treno deserto. Dopo un’attesa interminabile il treno uscì adagio dalla stazione.
Arrancava lento fra file di case in rovina, lungo il fiume che luccicava. A Westland
Row una folla di gente s’accalcò agli sportelli ma i facchini la respinsero dicendo
che era un treno speciale per il bazar. Rimasi solo nello scompartimento vuoto.
Pochi minuti dopo il treno si fermava presso una piattaforma di legno
improvvisata.
Uscii nella strada e dal quadrante luminoso di un orologio vidi che mancavano
dieci minuti alle dieci. Un capannone mi stava di fronte, ostentando il magico
nome.
Non mi riuscì di trovare l’ingresso da sei “pence” e temendo che avessero a
chiudere passai in fretta da un’entrata girevole e tesi uno scellino a un uomo
dall’aria stanca. Mi trovai in una gran sala circondata a mezza altezza da una
galleria. Quasi tutti i padiglioni erano già chiusi e la sala per la maggior parte era
al buio. Vi ritrovavo il silenzio delle chiese dopo la funzione.
M’avviai timido verso il centro del bazar. Poca gente si raccoglieva intorno ai
padiglioni ancora aperti. Dinanzi a una tenda sopra la quale erano scritte a
lampadine luminose le parole «“Café Chantant”», due uomini contavano del
denaro su un vassoio. Sentivo il tintinnare delle monete contro il metallo.
Ricordandomi con sforzo il motivo per cui ero venuto, m’avvicinai a uno dei
banchi e mi misi a guardare i vasi di porcellana e i servizi da tè a fiorami.
Sull’ingresso del padiglione una signorina parlava e rideva con due giovanotti.
Notai che avevano l’accento inglese e prestai un orecchio disattento ai loro
discorsi.
- Ma io non ho mai detto una cosa simile.
- Vi dico di sì!
- Macché!
- Non è vero che l’ha detto?
- Sì, l’ho sentita anch’io.
- Per carità! È una bugia, ecco.
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Scorgendomi, la signorina s’avvicinò e mi chiese se volevo comprare qualcosa.
Non aveva un tono troppo incoraggiante e pareva me lo domandasse solo per un
senso di dovere. Guardai umile gli alti vasi che come guardie orientali s’ergevano
da ambo i lati dell’ingresso buio e mormorai:
- No, grazie.
La signorina cambiò di posto a una brocca e tornò dai suoi giovanotti.
Ripresero a parlare sullo stesso argomento. Una volta o due la vidi darmi
un’occhiata da sopra la spalla.
Sebbene ne sapessi l’inutilità, indugiai ancora dinanzi al banco, tanto per rendere
più evidente il mio interesse alla merce. Poi mi voltai e adagio presi giù per il
corridoio centrale. Mi lasciai scivolare in tasca le due monete da un “penny”
accanto a quella da sei “pence” e dal fondo della galleria sentii una voce gridare
che si spengevano le luci. Adesso la parte superiore della sala era completamente
in ombra.
Alzando allora lo sguardo su nel buio mi vidi come una creatura trascinata e
derisa dalla vanità e gli occhi mi bruciarono d’ira e d’angoscia.




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Eveline




Seduta alla finestra guardava la sera invadere il viale. Teneva la testa appoggiata
contro le tendine e sentiva nelle narici l’odore del “crétonne” polveroso. Era
stanca.
Poca gente per strada. Passò l’inquilino della casa di fondo che rientrava. Senti i
passi risuonare sul marciapiede di cemento, poi lo scricchiolio della ghiaia sul
sentiero dinanzi alla fila di costruzioni nuove, color mattone. Un tempo c’era un
campo laggiù e loro solevano giocarci ogni sera, insieme agli altri ragazzi del
quartiere. Poi l’aveva comprato un tale di Belfast e ci aveva costruito delle case;
non misere casupole nere come le loro, ma case chiare in mattoni, dal tetto
lucente.
Tutti i ragazzi del viale avevano giocato in quel campo: i Devine, i Water, i Dunn,
il piccolo Keogh lo zoppo e lei coi suoi fratelli e sorelle. Solo Ernest non ci giocava:
era troppo grande. Spesso veniva il padre a scacciarli di là col suo bastone di
pruno, ma di solito il piccolo Keogh stava di guardia e chiamava non appena lo
vedeva arrivare. Eppure parevan bei tempi quelli! Il padre non era ancora così
cattivo e la mamma era ancora viva. Molti anni erano passati da allora: adesso lei
e i suoi fratelli e sorelle s’erano fatti grandi e la mamma era morta. Anche Tizzie
Dunn era morto e i Water erano tornati in Inghilterra. Come tutto cambia!
Toccava a lei ora d’andarsene come gli altri, lasciare la casa.
La sua casa! Si guardò attorno nella stanza fissando ad uno ad uno gli oggetti
familiari che in tutti quegli anni aveva spolverato regolarmente una volta alla
settimana, domandandosi sempre da dove poteva venire tanta polvere. Forse non
li avrebbe più visti quegli oggetti, dai quali mai aveva immaginato di doversi
separare un giorno. Nonostante ne fosse passato del tempo, ancora non era
riuscita a sapere il nome del prete la cui fotografia ingiallita pendeva dalla parete
sopra l’harmonium scordato, accanto alla stampa a colori dei voti dedicati alla
Beata Margherita Maria Alacoque. Era stato un compagno di scuola del padre e
ogni volta che questi mostrava il ritratto a un visitatore non mancava
d’accompagnare il gesto con una parola casuale:
- È a Melbourne adesso.
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Sì, aveva acconsentito ad andarsene, a lasciare la casa. Ma era ragionevole da
parte sua? Si sforzava di prendere in considerazione ogni lato del problema. Lì
almeno non le sarebbero mai mancati cibo e alloggio; né, quel che più conta, le
persone che era avvezza a vedersi intorno sin dalla nascita. Certo doveva lavorare,
e lavorare sodo, sia in casa che fuori. Chissà cosa avrebbero detto ai Magazzini
quando si fosse risaputo che era scappata con un giovanotto? Le avrebbero dato
della scema, forse, e messo un annuncio sul giornale per sostituirla.
Sarebbe stata contenta la signorina Gavan. Non le aveva mai risparmiato le sue
stoccate, specie se c’era gente che sentiva.
- Non vedete che le signore aspettano, signorina Hill?
- Ma svegliatevi signorina Hill, fatemi il piacere...
Non c’era da piangerci davvero a lasciare i Magazzini.
Nella casa nuova però, in un paese lontano e sconosciuto, non sarebbe andata
così. Sarebbe stata una donna maritata lei, Eveline, e la gente le avrebbe usato
rispetto. Non si sarebbe lasciata trattare come sua madre, no. Ancora adesso, per
quanto avesse già diciannove anni compiuti, le avveniva a volte di temere la
violenza paterna. Era stata questa paura, lo sapeva, a farle venire le palpitazioni.
Prima, quando erano ancora piccoli, il padre non si sfogava mai su di lei come su
Harry e Ernest, perché era una ragazza; ma in seguito aveva cominciato a
minacciarla e a dirle che, se non fosse stato per la memoria di quella buon’anima
di sua madre, non avrebbe mancato di darle il fatto suo. E ora non c’era più
nessuno a proteggerla. Ernest era morto e Harry che faceva il decoratore di
chiese, era sempre via, lontano da casa. C’erano poi le eterne discussioni per i
soldi, il sabato sera; discussioni che la sfinivano. Dava lo stipendio intero in
famiglia - sette scellini alla settimana - e Harry mandava quanto poteva; ma il
guaio era cavarli al padre, i quattrini. Era una spendacciona, le diceva, una
scervellata e non se la sentiva lui di darle i soldi guadagnati con tanta fatica per
vederli buttare dalla finestra; questo e altro le diceva, perché era sempre di cattivo
umore il sabato sera. Alla fine però glieli dava e le chiedeva se non aveva per caso
l’intenzione di comperare qualcosa per il pranzo della domenica. Così le toccava
scappar via a fare la spesa, aprendosi la strada a gomitate fra la folla, il borsellino
di pelle nera stretto nel pugno, per rincasare poi, tardi, carica di provviste. C’era
da faticare, è vero, a tenere in ordine le stanze e a stare attenta che i due fratellini


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minori, affidati alle sue cure, andassero a scuola ogni mattina e avessero di che
mangiare. Un lavoro duro, sì, una vitaccia; eppure, ora che stava per lasciarla, già
non la trovava più così insopportabile.
Ne avrebbe cominciata un’altra, adesso, con Frank. Era buono e forte Frank, e di
cuore generoso. Sarebbe andata via con lui quella sera, col piroscafo della notte.
Sarebbe andata via per diventare sua moglie e vivere con lui a Buenos Aires nella
casa che l’aspettava. Come ricordava bene la prima volta che l’aveva visto! Aveva
preso alloggio in una casa sulla strada principale, dove lei aveva degli amici. Le
pareva fossero passate poche settimane da allora. Stava sul cancello, il berretto
tirato all’indietro sulla nuca e i capelli che gli ricadevano a ciocche sulla fronte
abbronzata. Poi si erano conosciuti. Ogni sera andava a prenderla all’uscita dei
Magazzini e l’accompagnava fino a casa. Una volta l’aveva anche portata a sentire
“La ragazza di Boemia” e a lei era parso un sogno potersene stare lì fianco a
fianco, a teatro, in posti che non le erano abituali. Gli piaceva la musica a Frank
e sapeva anche cantare.
Tutti erano al corrente del loro amore e così quand’egli cantava la canzone della
ragazza innamorata del marinaio, Eveline non poteva fare a meno di sentire un
certo dolce imbarazzo. La chiamava Poppy, tanto per ridere. In principio l’idea di
avere un corteggiatore le aveva dato alla testa, ma poi s’era messa a volergli bene
sul serio. Le parlava di paesi lontani, di come avesse cominciato da mozzo, a una
sterlina al mese, su una nave della linea Allan che andava al Canada. E le diceva
i nomi delle altre navi su cui era stato e dei diversi servizi, le raccontava di
quando aveva passato lo Stretto di Magellano e le sue mirabolanti avventure coi
selvaggi. Aveva avuto fortuna a Buenos Aires, diceva, e in patria c’era tornato solo
per godersi una vacanza. Naturalmente il padre era venuto a saperlo e le aveva
proibito d’avere a che fare con lui.
- Li conosco, va’ là, questi marinai! - aveva detto.
Un giorno avevano litigato, Frank e il padre, e da allora avevano dovuto vedersi di
nascosto.
La sera s’andava infittendo sul viale e il bianco delle due lettere che aveva in
grembo, si faceva indistinto. Una era per Harry, l’altra per il padre. Il suo
prediletto, veramente, era stato Ernest, ma anche a Harry voleva bene. Aveva
notato che in quegli ultimi tempi il padre era un po’ invecchiato; avrebbe sentito
la sua mancanza. Anche lui a volte sapeva essere gentile. Non molto tempo prima,
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un giorno che era stata a letto, malata, s’era messo a leggerle una storia di
fantasmi e le aveva abbrustolito il pane sul fuoco. Un’altra volta, quando ancora
era viva la madre, erano andati tutti insieme a far merenda sulla collina di Howth
e ricordava com’egli si fosse messo in testa il cappellino della moglie, per farli
divertire.
Il tempo passava ma lei rimaneva lì seduta presso la finestra, la testa appoggiata
contro le tendine e l’odore polveroso del “crétonne” nelle narici. Giù dal viale
saliva il suono di un organetto. Lo conosceva quel motivo. Strano che venisse
proprio quella sera a rammentarle la promessa fatta alla madre, la promessa di
tenere insieme la famiglia fintanto che avesse potuto. Le tornò a mente l’ultima
notte della sua malattia. Si rivide nella stanza buia, chiusa, in fondo al corridoio:
da fuori giungeva il melanconico suono dell’organetto. Avevano dato sei “pence” al
sonatore, perché se ne andasse. E ricordava il padre che tornava in punta di piedi
nella camera dell’ammalata dicendo:
- Dannati italiani! Proprio qui debbono venire!
E mentre stava lì a meditare, la penosa visione della vita della madre operava nel
più profondo del suo essere una specie di maleficio; una vita di sacrifici meschini
conclusasi nella pazzia finale. Tremò riudendo la voce materna ripetere con vuota
insistenza:
- Derevaun Seraun! Derevaun Seraun!
S’alzò di scatto, sotto l’impulso del terrore. Fuggire! Fuggire doveva!
Frank l’avrebbe salvata. Le avrebbe dato vita e forse anche amore. E voleva vivere
lei! Perché avrebbe dovuto essere infelice? Anche lei aveva diritto alla felicità. E
Frank l’avrebbe presa fra le braccia, l’avrebbe stretta fra le braccia, l’avrebbe
salvata.




Era alla stazione di North Wall, in mezzo alla folla ondeggiante. Egli la teneva per
mano ed essa sapeva che le stava parlando, che le ripeteva qualche cosa sulla
traversata. La stazione era piena di soldati coi loro bagagli scuri e attraverso le
ampie porte della tettoia si scorgeva a tratti, oltre la murata della banchina, la
massa immobile e nera della nave, con gli oblò illuminati. Taceva. Si sentiva le
guance pallide e fredde e in quel groviglio di disperazione pregava Iddio
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d’illuminarla, di mostrarle qual era il suo dovere. Il lungo, lamentoso fischio della
sirena tagliò la nebbia. Se partiva, domani si sarebbe trovata in alto mare, con
Frank, diretta a Buenos Aires. Avevano già fissato i posti. Come poteva tirarsi
indietro dopo tutto quel che aveva fatto per lei? Lo sgomento le dette quasi un
senso di nausea: continuava a muovere le labbra in tacita e fervida preghiera.
Una campana le rintoccò sul cuore. Senti ch’egli l’afferrava per mano.
- Vieni!
Tutti i mari del mondo le s’infrangevano sul cuore. E lui la trascinava dentro, la
voleva annegare. Con ambo le mani s’aggrappò alla cancellata.
- Vieni!
No! no! no! Era impossibile. Le mani strinsero frenetiche le sbarre. E dal fondo dei
mari ella alzò un grido d’angoscia.
- Eveline! Evy!
Lo vide correre di là dai cancelli, chiamandola perché lo seguisse. Gli gridarono di
andare avanti ma egli continuava a chiamarla. Volse allora verso di lui la faccia
pallida, passiva, come un povero animale impotente, e i suoi occhi non gli diedero
alcun segno d’amore o di addio o di riconoscimento.




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Dopo la corsa




Le macchine puntavano in corsa su Dublino filando come proiettili nel solco della
Naas Road. Lungo la cresta della collina di Inchicore si erano raccolti gruppi di
spettatori per assistere al ritorno e attraverso questo canale di povertà e d’inerzia
fluiva l’industria e la ricchezza del continente: di tanto in tanto dalla folla s’alzava
l’applauso di gratitudine dell’oppresso. Le simpatie, però, andavano tutte alle
macchine azzurre, le macchine dei loro amici, i francesi.
I francesi, del resto, virtualmente almeno, potevano considerarsi i vincitori. La
loro squadra aveva concluso in bellezza: si erano piazzati al secondo e terzo posto
e pareva inoltre che il guidatore della macchina tedesca vincente fosse un belga.
Ogni macchina azzurra, così, arrivando in cima alla collina, riceveva doppia dose
di evviva e da parte di quelli che erano dentro ogni evviva veniva accolto con
sorrisi e cenni del capo. In una di queste automobili di gran modello c’era una
combriccola di quattro giovanotti il cui buonumore in quell’occasione superava di
molto quello solito dei francesi quando vincono; i quattro giovanotti, di fatti,
esultavano addirittura. Si trattava di Charles Segouin, il proprietario della
macchina; André Rivière, un giovane elettrotecnico nato nel Canada; un
ungherese grande e grosso a nome Villona e un giovanottino ben vestito, certo
Doyle. Segouin era di buonumore perché aveva ricevuto ordinazioni del tutto
inattese (stava per fondare una fabbrica di automobili a Parigi) e Rivière lo era
perché di questa fabbrica sarebbe stato il direttore: entrambi inoltre (erano
cugini) si compiacevano del successo delle macchine francesi. Villona poi era
soddisfatto perché aveva pranzato bene, nonché per un innato ottimismo e in
quanto al quarto membro della compagnia si trovava in uno stato di troppa
eccitazione per potersi dire genuinamente felice.
Doveva essere sui ventisei anni circa e aveva morbidi baffi castano chiaro e occhi
grigi dall’espressione piuttosto ingenua. Suo padre pur iniziando la carriera da
acceso nazionalista, non aveva tardato a mutare opinione. I primi soldi se li era
guadagnati facendo il macellaio a Kingstown e a forza di aprir botteghe in Dublino
e dintorni aveva addirittura moltiplicato il patrimonio. Gli era anche capitata la
fortuna di metter le mani su certi appalti vantaggiosi e in conclusione era
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diventato così ricco che i giornali cittadini alludevano a lui come a un re del
commercio. Aveva mandato il figlio prima in Inghilterra a compiere la sua
educazione in un noto collegio cattolico, e poi all’Università di Dublino a studiarvi
legge. Ma Jimmy non prendeva lo studio sul serio e per un po’ di tempo s’era dato
ai bagordi. Lo conoscevano tutti laggiù e i quattrini non gli mancavano: strano a
dirsi, divideva il suo tempo fra i circoli automobilistici e quelli musicali. In seguito
l’avevano mandato a Cambridge per un trimestre, perché si godesse un po’ di vita
e il padre che pur fra le rimostranze si sentiva in fondo in fondo orgoglioso degli
eccessi del figlio, saldati tutti i conti, se l’era poi riportato a casa. Era stato a
Cambridge che aveva incontrato Segouin e per quanto non fossero ancora nulla
più di semplici conoscenze, Jimmy trovava gran piacere nella compagnia di un
giovane che aveva già visto tanto mondo e che per di più era ritenuto proprietario
di alcuni fra gli alberghi più lussuosi e rinomati di Francia.
Un tipo simile (anche suo padre era d’accordo), anche non fosse stato quel
simpaticone che era, poteva ben dirsi degno d’amicizia. Anche Villona dal canto
suo, non mancava d’interesse. Era un pianista di talento, ma, disgraziatamente
assai povero.
La macchina continuava a correre col suo carico di festosa gioventù. I due cugini
sedevano davanti e Jimmy con l’amico ungherese, dietro. Villona decisamente era
d’umore eccellente; per miglia e miglia seguitò a mugolare un motivo fra sé, con la
sua voce fonda di basso. I francesi invece gettavan frizzi e risate di sopra le spalle
e Jimmy doveva chinarsi in avanti se voleva afferrarne il senso; còmpito non
troppo piacevole perché quasi sempre gli toccava di buttarsi a indovinare,
sforzandosi a gridare controvento la risposta adatta. Il mugolio di Villona, poi,
avrebbe confuso chiunque; senza contare il rumore del motore.
La rapida corsa dà sempre un senso di ebbrezza, allo stesso modo che la fama e il
denaro: eccellenti motivi tutti e tre per spiegare l’eccitazione di Jimmy. Molti
amici lo avevano visto quel giorno in compagnia dei continentali. Al traguardo
Segouin lo aveva presentato a uno della squadra francese e in risposta al suo
imbarazzato mormorio di complimento la faccia sudata del corridore aveva
dischiuso una fila di denti abbaglianti. Era stato bello, dopo un simile onore,
tornarsene nella folla anonima degli spettatori fra colpi di gomito e occhiate
significative. Quanto poi al denaro ne aveva già a disposizione una bella somma.
Per Segouin forse non lo sarebbe stata ma, nonostante i passeggeri errori, Jimmy
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si serbava nel fondo erede di ben solidi istinti, e sapeva quanto era stato difficile
metterli insieme quei soldi: consapevolezza che già prima aveva trattenuto le sue
spese nei limiti di una ragionevole disinvoltura; e se della fatica inerente al
denaro già era consapevole prima, quando non si trattava che di capricci da
raffinato, tanto più se ne rendeva conto adesso che stava per mettere a rischio la
maggior parte della sua sostanza. Una cosa seria per lui!
Certo l’investimento era buono e Segouin si era condotto in modo di dar
l’impressione che solo grazie all’amicizia quell’esigua parte di denaro irlandese
sarebbe stata accolta nel capitale della società. Jimmy teneva assai conto
dell’abilità paterna in fatto d’affari e in questo caso era stato proprio il padre a
suggerire per primo l’investimento: c’era da far quattrini con l’industria
automobilistica, quattrini a palate. Segouin inoltre aveva indiscutibilmente l’aria
del riccone. Jimmy prese senz’altro a tradurre in termini di lavoro quotidiano la
macchina principesca in cui era seduto. Come filava liscia e spedita! E con che
stile si erano slanciati a corsa per le strade! Il viaggio posava un magico dito sul
genuino polso della vita e coraggiosamente il complicato meccanismo dei nervi
umani cercava d’adeguarsi ai balzi impetuosi del veloce animale azzurro.
Svoltarono in Dame Street. C’era un insolito traffico nella via, in cui risuonavano
lo strombettio degli autisti e lo scampanellare dei tranvieri impazienti. Vicino alla
Banca, Segouin fermò e Jimmy e l’amico scesero. Subito sul marciapiede si
radunò un gruppetto di gente per rendere omaggio al motore rombante.
Avrebbero cenato tutti Insieme all’albergo di Segouin quella sera e nel frattempo
Jimmy e Villona, che era suo ospite, sarebbero andati a casa a vestirsi. Mentre la
macchina virava adagio in direzione di Grafton Street i due giovani s’aprirono la
strada nel gruppo dei curiosi. Andavano verso nord provando uno strano senso
d’impaccio nel camminare e sopra di loro nella nebbia della sera estiva la città
appendeva pallidi globi di luce.
In casa di Jimmy questa cena veniva considerata un avvenimento. Nei suoi
genitori l’orgoglio si mischiava alla trepidazione nonché a un certo desiderio di
buttar polvere negli occhi: merito anche questo da ascriversi al nome delle grandi
città straniere. Lo stesso Jimmy del resto, vestito che fu, faceva la sua figura, e
mentre indugiava nell’atrio dandosi l’ultimo ritocco al nodo della cravatta, suo
padre anche dal lato commerciale non poteva che ritenersi soddisfatto di aver
assicurato al figliolo qualità sovente impossibili a comprarsi. Il pover’uomo d’altra
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parte si sfogava dimostrandosi nei riguardi di Villona insolitamente amichevole e
il suo contegno esprimeva un vero e proprio rispetto per la cultura straniera; tutte
finezze    ch’era     probabile   andassero     completamente    perdute    agli    occhi
dell’ungherese il cui desiderio della cena si faceva man mano sempre più vivo.
Fu in realtà una cena eccellente, squisita. Segouin, decise Jimmy, doveva avere
un gusto fra i più raffinati. Alla combriccola s’era aggiunto adesso un giovane
inglese, certo Routh, che Jimmy aveva visto a Cambridge con Segouin. La stanza
in cui cenarono era comoda, illuminata a candele elettriche e i discorsi liberi e
variati. Jimmy, cui s’era accesa la fantasia, si spinse ad un’ardita immagine della
giovane    vitalità    francese   elegantemente     allacciata   alla   solida     cornice
dell’educazione anglo-sassone: immagine a suo giudizio non priva di grazia e
appropriata. Ammirava l’abilità con cui l’ospite sapeva dirigere la conversazione. I
cinque giovanotti avevano gusti diversi e la parlantina si era sciolta a tutti.
Villona con immenso rispetto s’adoperava a svelare al semplice Routh che lo
ascoltava stupito, le bellezze del madrigale inglese, deplorando che gli antichi
strumenti fossero caduti in disuso: mentre Rivière dal canto suo e non del tutto
ingenuamente, iniziava a beneficio di Jimmy il panegirico delle industrie
meccaniche francesi. La sonora voce del musicista stava per prendere il
sopravvento nella mordace critica ai falsi liuti dei pittori romantici, allorché
Segouin intervenne avviando i commensali in una discussione politica. Qui si
trovarono tutti a proprio agio. Sotto quelle influenze generose, Jimmy si sentì
risvegliare dentro l’ormai sepolto entusiasmo paterno e alla fine riuscì a scuotere
dal suo torpore perfino Routh. Il calore della stanza raddoppiò e il còmpito di
Segouin si fece sempre più difficile: c’era rischio di passare addirittura alle offese
personali. Alla prima occasione però l’ospite accorto levò il calice all’Umanità e
finito il brindisi aprì con gesto significativo una finestra.
La città quella notte s’era mascherata da grande metropoli.
I cinque giovanotti procedevano lungo lo Stephen’s Green, avvolti in odorose
nuvole di fumo. Parlavano a voce alta e allegra, i mantelli penzolanti dalle spalle,
e la gente si scostava per lasciarli passare.
All’angolo di Grafton Street un ometto grasso aiutava due belle signore a salire in
vettura affidandole alle cure di un altro grassone. La macchina si avviò e l’ometto
scorse la gaia brigata.
- André!
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- È Farley!
Ne seguì un torrente di parole. Farley era americano. Nessuno si rendeva conto di
che cosa si stesse parlando. Villona e Rivière erano i più chiassoni, ma anche gli
altri parevano eccitatissimi. Salirono tutti insieme in una macchina, pigiandosi
fra le risate, e al suono di un’allegra musica di campane, tagliarono la folla fusa
adesso in scialbature di colore. Presero il treno a Westland Row e in pochi
secondi, così almeno parve a Jimmy, arrivavano alla stazione di Kingstown. Il
controllore, un vecchio, lo salutò:
- Felice notte, signore!
Era una quieta sera estiva. Come uno specchio abbrunato il porto giaceva ai loro
piedi. Vi si diressero tenendosi a braccetto: cantavano in coro “Cadet Roussel” e
ad ogni «“Ho! ho! hoé vraiment!”» battevano il piede.
Al molo salirono in una barca e puntarono verso lo “yacht” dell’americano. Là ci
sarebbe stata cena, musica e carte. Villona disse convinto:
- Sarà delizioso!
C’era un pianoforte nella cabina. Villona suonò un valzer per Farley e Rivière:
Farley faceva da cavaliere e Rivière da dama. Poi improvvisò una quadriglia e i
ballerini si diedero a inventare le più strane figure.
Che divertimento! Jimmy prendeva sul serio la sua parte: quella sì ch’era vita!
Alla fine Farley gridò senza fiato: - Alt! - Venne servito un leggero spuntino e pro
forma i giovani si sedettero a tavola. Bevvero però: era vino di Boemia. Brindarono
all’Irlanda, all’Inghilterra, alla Francia, all’Ungheria, agli Stati Uniti d’America.
Jimmy fece un discorso, un lunghissimo discorso e ad ogni pausa Villona
interveniva gridando: - Bravo! Bravo! - Lo applaudirono tutti quando si sedette.
Doveva essere stato un bel discorso. Farley gli dava gran manate sulle spalle e
rideva forte. Che mattacchioni! Che simpatica compagnia!
Carte! Carte! La tavola fu sparecchiata. Villona se ne tornò calmo calmo al
pianoforte e si mise a improvvisare. Gli altri intanto giocavano una partita dopo
l’altra buttandosi a capofitto nell’avventura. Brindarono alla regina di cuori e a
quella di quadri. Jimmy sentiva oscuramente la mancanza di un uditorio: la
tensione era al colmo. Si giocava forte ora e i conti s’allungavano. Jimmy non
riusciva nemmeno a capire con precisione chi fosse a vincere, ma sapeva che lui
perdeva. Tutta colpa sua del resto, perché spesso sbagliava le carte ed erano gli
altri a dovergli fare il conto di quanto doveva. Diavoli di ragazzi! Avrebbe voluto
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che smettessero, però: si faceva tardi. Uno brindò allo “yacht”, «La bella di
Newport» e un altro propose un gioco in grande, tanto per finire.
Il pianoforte taceva: Villona doveva essere andato sul ponte. Fu una partita
tremenda. S’interruppero un po’ prima della fine per brindare alla fortuna. Jimmy
sapeva che adesso la lotta era fra Segouin e Routh. Che emozione! Si sentiva
eccitatissimo e avrebbe perso, naturalmente.
Quanto aveva firmato? Gli uomini s’alzarono in piedi per giocare gli ultimi colpi,
gridando e gesticolando. Vinse Routh. La cabina rintronò sotto gli applausi e
vennero raccolte le carte. Poi si fecero i conti: quelli che avevano perso di più
erano Farley e Jimmy.
L’indomani gli sarebbe dispiaciuto, lo sapeva, ma           adesso era   contento
d’abbandonarsi, contento dell’oscuro stupore che avrebbe annegato la sua follia.
Appoggiò i gomiti sul tavolo tenendosi la testa fra le mani e s’ascoltò il battito
delle tempie. La porta della cabina si aprì e apparve l’ungherese in piedi, nel
grigio riquadro di luce:
- Signori, è l’alba!




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I due galanti




La calda, grigia sera d’agosto era scesa sulla città. Un’aria dolce e ferma, ricordo
dell’estate, circolava per le vie, e nelle vie con le serrande abbassate per il riposo
domenicale, sciamava un’allegra folla variopinta. Dal sommo degli alti pali le
lampade splendevano come perle luminose su quella trama viva che mutando
incessantemente di colore e di forma mandava su nell’aria calda e grigia della
sera un continuo, incessante mormorio.
Due giovani scendevano la collina di Rutland Square. Uno di essi stava
concludendo giusto allora un lungo monologo e l’altro che camminava sull’orlo
del marciapiede e a tratti per la malagrazia del compagno era costretto a
sconfinare nella strada, ascoltava intento e divertito. Era un individuo tarchiato e
acceso di colore. Portava all’indietro sulla nuca un berretto da marinaio e il
discorso cui prestava orecchio gli provocava in viso continui mutamenti
d’espressione che a ondate gli s’irradiavano dagli angoli della bocca, degli occhi e
del naso. Scoppi di riso convulso lo scuotevano senza posa e ad ogni istante gli
occhi, ammiccando compiaciuti, si volgevano alla faccia dell’amico. Una volta o
due si raggiustò con una scrollata l’impermeabile che gli pendeva da una spalla
alla maniera dei toreador; impermeabile buttato là alla brava e che assieme ai
pantaloni e alle scarpe bianche di gomma, esprimeva la gioventù, mentre la
persona, rotondeggiante alla vita, i capelli grigi e radi e il viso, ad ogni spegnersi
di quelle ondate d’espressione, gli davano un aspetto devastato.
Sicuro che fu della fine del racconto rise silenziosamente per mezzo minuto
buono, poi disse:
- Ah, questo é il colmo!
La voce gli suonava priva d’energia e quasi per dare maggior enfasi alle parole,
aggiunse con brio:
- Proprio il colmo dei colmi!
Detto questo ritornò subito serio e silenzioso.
Gli s’era seccata la lingua quel pomeriggio a furia di discorrere in una bottiglieria
della Dorset Street. Agli occhi della maggior parte della gente, Lenehan era uno
scroccone ma, nonostante tale nomea, il suo saper fare e la sua eloquenza
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avevano sempre impedito agli amici di boicottarlo. Aveva un suo modo spavaldo
d’aggregarsi ad un crocchio nel bar tenendosene abilmente ai margini finché non
veniva incluso nella partita. Un vero e proprio mendicante del divertimento,
Lenehan, armato di tutto un repertorio di aneddoti, barzellette e indovinelli e per
di più insensibile ad ogni sorta di sgarberie. A nessuno era noto in qual maniera
risolvesse il difficile problema dell’esistenza, ma il suo nome, sia pur vagamente,
veniva associato a trucchi e scommesse nel campo delle corse.
- E dove l’hai pescata, Corley? - domandò.
Corley si passò in fretta la lingua sul labbro superiore.
- Caro mio, - disse, - una sera me ne andavo giù per Dame Street quando proprio
sotto l’orologio della Waterhouse ti vedo un bel bocconcino. Naturalmente, sai
come succede, le do la buonasera e così ce ne andiamo a fare quattro passi lungo
il canale. Mi raccontò che faceva la serva in una casa di Baggot Street. Le misi un
braccio intorno alla vita e per quella sera mi limitai a palparla un po’. Ci demmo
appuntamento per la domenica dopo e questa volta ce ne andammo fuori a
Donnybrook. Laggiù la portai in un campo. Se la intendeva con un lattaio, m’ha
detto... Una bazza, te lo dico io. Sigarette ogni giorno mi porta e in più mi paga il
tram all’andata e al ritorno. Una volta m’ha portato anche due sigari di marca,
sigari coi fiocchi, sai, di quelli che fumava l’altro... Avevo paura mi restasse
incinta, ma conosce il trucco.
- Penserà tu la voglia sposare, - osservò Lenehan.
- Eh, no, le ho già detto che sono senza lavoro. Le avevo inventato che stavo da
Pim. Il mio nome non lo sa: troppo furbo per dirglielo. Ciò non toglie che mi creda
un signore...
Lenehan si rimise a ridere come prima, senza rumore.
- Fra tutte quelle che ho sentito questa le supera tutte, te l’assicuro io.
L’andatura di Corley confermò il complimento. Con un dondolìo del coppo
massiccio costrinse l’amico a due o tre saltelli, dal marciapiede alla strada e
viceversa. Corley era figlio di un ispettore di polizia e dal padre aveva ereditato la
sagoma e il modo di camminare. Procedeva eretto, le braccia ciondoloni,
oscillando col capo in qua e in là. Aveva un gran testone sferico e unto che gli
sudava in tutte le stagioni e il largo cappello rotondo inclinato da una parte dava
l’impressione di un bulbo cresciuto su un altro più grosso. Teneva sempre lo
sguardo fisso dinanzi a sé, come se stesse in parata, e quando voleva voltarsi a
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guardare qualcuno per strada, gli toccava girarsi con tutto il busto. Al momento
era a spasso. Ogni volta che si faceva un posto vuoto, diceva, c’era sempre un
amico pronto a metterci una cattiva parola. Spesso lo si vedeva in giro con agenti
in borghese, che discorreva fitto fitto. Sapeva il lato oscuro d’ogni questione e su
tutto amava dare un giudizio definitivo. Mai che ascoltasse gli altri quando
parlava e quasi sempre eran discorsi che vertevano sulla sua persona: quel che
aveva detto a un tale e quel che il tale gli aveva risposto e come egli aveva
sistemato l’intera faccenda. Riferendo questi dialoghi aspirava la prima lettera del
proprio nome all’uso toscano.
Lenehan offrì una sigaretta all’amico. Mentre camminavano fra la folla Corley non
tralasciava di lanciare sorrisi all’indirizzo delle ragazze che passavano; Lenehan
invece teneva fisso lo sguardo sulla gran luna pallida, cerchiata d’un duplice
alone e seguiva intento la grigia trama del crepuscolo che le passava lenta sul
volto. Alla fine disse:
- Dimmi un po’, Corley, sei proprio sicuro di cavartela?
Per tutta risposta Corley strizzò un occhio con aria significativa.
- Sì, ma credi che lei ci stia? - chiese Lenehan dubbioso. - Con le donne non si sa
mai.
- Ci starà, ci starà, non dubitare. So da che verso prenderla caro mio. Ha un po’
perso la testa, capisci?
- Ah, sei proprio quel che si dice un gaio Lotario, - esclamò Lenehan. -
Il vero tipo del Lotario, anzi. Una sfumatura d’ironia attenuava la servilità dei suoi
modi. Come via di scampo era uso lasciare la lusinga sempre aperta a
un’interpretazione mordace. Ma Corley non era di mente così sottile.
- Credi a me, ci vuol poco per fare colpo su una serva, - dichiarò.
- Per chi le ha già provate tutte, magari.
- Sai, prima anch’io andavo a spasso con le ragazze per bene, - disse
Corley con l’aria di confidarsi. - Ragazze del South Circular, non so se mi spiego.
Le portavo fuori in tram e pagavo io, oppure le conducevo a teatro o a sentire la
banda e compravo cioccolatini, dolci e così via. Insomma ci spendevo fior di
quattrini, - aggiunse in tono convincente, quasi fosse certo di non essere creduto.
Ma Lenehan poteva ben credergli; assentì grave.
- Conosco il gioco. Un gioco da cretini.
- Già. E sia dannato se ci ho mai ricavato nulla.
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- Idem per me.
- Una soltanto...
Corley s’inumidì il labbro con la lingua e gli occhi gli s’accesero al ricordo. Fissava
anche lui il pallido disco lunare ora già quasi interamente coperto, e pareva
immerso in profonde meditazioni.
- Peccato, era in gamba, - disse con rimpianto.
Tacque di nuovo, poi aggiunse:
- Fa il marciapiede adesso. L’ho vista una sera in automobile giù per Earl Street,
in compagnia di due giovanotti.
- Colpa tua, probabilmente, - disse Lenehan.
- Ce n’erano stati altri prima di me, - osservò Corley con filosofia.
Questa volta però Lenehan era propenso a non credergli. Scosse il capo e sorrise.
- A me non la dài a bere, Corley.
- Com’è vero Dio. Me lo disse lei stessa. Lenehan ebbe un gesto drammatico.
- Mascalzone! - esclamò.
Passarono lungo la cancellata del Trinity College e Lenehan saltellò fuori del
marciapiede nella strada, per dare un’occhiata all’orologio.
- Passati i venti, - disse.
- C’è tempo, - fece Corley. - Lei ci sarà già, ma io la faccio sempre aspettare.
Lenehan ridacchiò piano.
- Perdinci, Corley, sai come trattarle.
- Eh, li conosco i loro trucchi, - confessò l’altro.
- Ma dimmi, - riprese Lenehan ansioso, - sei sicuro di farcela? È una faccenda
delicata. In genere sono maledettamente tirate su quel punto. Eh... cosa?
Scrutava con gli occhietti lustri la faccia dell’amico quasi per esserne rassicurato.
Ma Corley scosse la testa e aggrottò la fronte, come per scacciare un insetto
molesto.
- Me la caverò, sta’ tranquillo. Lascia fare a me. Lenehan non replicò.
Non voleva s’irritasse e magari lo mandasse al diavolo dicendo che non aveva
bisogno dei consigli: tatto, ci voleva. La fronte di Corley però fece presto a
spianarsi. I suoi pensieri già seguivano un altro corso.
- Un bel bocconcino, - commentò in tono d’intenditore. - Te lo garantisco io.
Percorsa la Nassau Street svoltarono in Kildare Street. Non lontano dai portici del
club, proprio in mezzo alla via, un arpista suonava fra una cerchia di ascoltatori.
                                           38
Pizzicava le corde con aria distratta e di tanto in tanto levava rapido gli occhi in
faccia ai nuovi venuti per poi riportarli stancamente al cielo. Incurante che la
copertura le fosse scesa ai ginocchi, l’arpa pareva stanca anche lei, sia degli
sguardi di quegli estranei, sia delle mani del suo padrone. Una eseguiva nel basso
la melodia di “Silent, O Moyle” e ad ogni gruppo di note l’altra scorreva nelle
fioriture degli acuti. Il canto emergeva pieno e profondo.
I due giovanotti seguitarono per la loro strada senza parlare, inseguiti dalla
musica lamentosa. Raggiunto lo Stephen’s Green, attraversarono.
Qui il rumore dei tram, la folla e le luci vennero a liberarli dal silenzio.
- Eccola! - disse Corley.
C’era una ragazza infatti all’angolo della Hume Street. Portava un abito azzurro e
un berretto bianco alla marinara e mentre aspettava lì ferma sul marciapiede, con
una mano faceva dondolare l’ombrellino. Lenehan si animò.
- Lascia che le dia un’occhiata, Corley.
Corley lo guardò di sbieco e una smorfia sgradevole gli comparve sul viso.
- Di’, niente niente, me la vorresti soffiare?
- Per Dio, non pretendo mica che me la presenti! - protestò Lenehan con calore. -
Solo un’occhiata. Va’ là, che non te la mangio!
- Be’, se è solo per questo, - fece Corley in tono più amabile. - Aspetta che ti dico
come... Io m’avvicino e mentre le parlo tu ci passi accanto.
- Benissimo.
Corley aveva già scavalcato con una gamba le catene quando Lenehan gli gridò:
- E dopo? Dove ci troviamo?
- Alle dieci e mezzo, - rispose Corley scavalcando anche con l’altra.
- Ma dove?
- All’angolo di Merrion Street. Ci passeremo al ritorno.
- Mi raccomando fai le cose ammodo! - fece Lenehan a mo’ di saluto.
Corley non rispose. Traversò lemme lemme la strada dondolando la testa. Il torso
massiccio, l’andatura sicura, e il picchio risoluto degli stivali gli davano l’aria del
conquistatore. Abbordò la ragazza e senza nemmeno salutarla attaccò subito a
discorrere. Lei faceva oscillare più in fretta l’ombrellino e si rigirava a mezzo sui
tacchi. Una volta o due mentre egli le parlava sul viso, rise e chinò il capo.
Per qualche minuto Lenehan li stette a guardare, ma poi s’avviò rasente le catene
e traversò di sbieco la strada. Avvicinandosi all’angolo di Hume Street, sentì l’aria
                                           39
greve di profumo e i suoi occhi scrutarono ansiosi la ragazza. S’era messa il
vestito delle feste. La sottana di lanetta azzurra era tenuta in vita da una cinta di
pelle nera e la grossa fibbia d’argento le comprimeva il mezzo del corpo
stringendole come in una morsa il tessuto leggero della camicetta bianca. Sopra
indossava un corto giacchetto nero coi bottoni di madreperla e un boa
spelacchiato al collo. S’era spiegazzati ad arte gli orli della collaretta di tulle e in
petto aveva appuntato un grosso mazzo di fiori rossi coi gambi all’insù.
Lenehan ne notò subito con compiacenza il corpo tozzo e muscoloso. Una salute
franca e rigogliosa le accendeva il viso, le grasse guance rosse e gli occhi azzurri
sfrontati. Aveva fattezze grossolane: le narici larghe, la bocca tumida sempre
aperta in una smorfia impudente e i due denti davanti sporgenti. Passando,
Lenehan si tolse il berretto e dieci secondi dopo Corley ricambiava un saluto
distratto portandosi con gesto vago la mano al cappello e mutandogli di posizione
con aria meditabonda.
Lenehan proseguì fino allo Shelbourne Hotel e qui si fermò ad aspettare. Dopo un
po’ se li vide venire incontro e quando svoltarono a destra li seguì camminando
senza rumore con le sue scarpe di gomma lungo un lato della Merrion Square.
Mentre camminava così, adagio, regolando il suo passo sul loro, osservava la
testa di Corley voltarsi ad ogni istante verso la ragazza come una palla che
rotasse su un perno. Li tenne d’occhio finché non li vide salire sul tram di
Donnybrook. Allora si rivoltò e rifece la strada per cui era venuto.
Adesso che era solo la sua faccia appariva più vecchia. Pareva che ogni allegria lo
avesse disertato e costeggiando la cancellata del DukÈs Lawn s’abbandonò a far
scorrere la mano lungo le sbarre. Il motivo della canzone suonata dall’arpista
cominciava a regolare i suoi movimenti: i piedi calzati di gomma segnavano il
tempo e ad ogni gruppo di note le dita indolenti eseguivano variazioni sulla
ringhiera.
Vagabondò a caso attorno allo Stephen’s Green e poi giù per Grafton Street. Ma
per quanto i suoi occhi non tralasciassero di osservare anche nei minimi dettagli
la folla che lo circondava, ciò avveniva senza che vi prendesse interesse. Tutto
quel che avrebbe dovuto attrarlo gli appariva invece volgare e non riusciva a
rispondere agli sguardi che lo invitavano all’avventura. Sapeva che avrebbe
dovuto dire chissà quante cose, inventare e far dello spirito e si sentiva gola e
cervello troppo aridi per un compito simile. Lo tormentava il problema di come
                                          40
avrebbe passato il tempo finché non si fosse ritrovato con Corley. E alla mente
non gli venne altra idea che seguitare a camminare.
Arrivato all’angolo di Rutland Square svoltò a sinistra e si sentì più a suo agio
nella via buia e tranquilla il cui squallore meglio si addiceva al suo stato d’animo.
Alla fine si fermò dinanzi alla vetrina di una botteguccia modesta che portava
stampato in lettere bianche il nome: «Bibite e liquori». Sul vetro c’erano due
scritte svolazzanti: “Ginger beer” e “Ginger ale”, su un gran piatto azzurro era
esposto un prosciutto incominciato e accanto, su un altro piatto, un frammento
di torta di susine. Per un po’ i suoi sguardi si posarono avidi sul cibo e girato che
ebbe un’occhiata circospetta da un capo all’altro della strada, entrò in fretta.
Aveva fame perché dalla mattina a colazione, all’infuori ci pochi biscotti servitigli
a malincuore da due garzoni svogliati, non aveva mangiato altro. Sedette a un
tavolo di legno senza tovaglia di fronte a un meccanico e due operaie. Una ragazza
trasandata venne a chiedergli ordini.
- Quanto un piatto di piselli? - le domandò.
- Un “penny” e mezzo, signore.
- Bene, portatemene un piatto e una bottiglia di birra. Parlava grossolano in modo
da smentire la sua aria da signore poiché al suo ingresso era seguito un silenzio
nel locale. Si sentiva accaldato in viso e per parer naturale si spinse il berretto
sulla nuca e piantò i gomiti sul tavolo. Il meccanico e le due operaie lo
esaminarono punto per punto prima di riprendere in tono più sommesso il
discorso.
La serva portò un piatto di piselli caldi conditi con pepe e aceto, una forchetta e
una bottiglia di birra. Mangiò il cibo di gusto e lo trovò così saporito che
mentalmente prese nota della bottega. Spolverati che ebbe tutti i piselli, sorseggiò
pian piano la birra e per un po’ rimase lì seduto pensando all’avventura di Corley.
Nella fantasia vedeva la coppia d’amanti passeggiare lungo una strada buia,
udiva la voce di Corley profondersi in energiche galanterie e gli riappariva il
sorriso impudente della ragazza: visione che riacuiva in lui il senso della propria
povertà di spirito e di portafoglio. Era stanco di quel suo vagabondare continuo,
di quello stentare la vita a furia d’espedienti e d’intrighi. A novembre avrebbe
compiuto trentun anni. Non gli sarebbe mai riuscito dunque di trovare un
impiego decoroso? Non avrebbe mai avuto una casa sua?


                                         41
Pensò a come sarebbe stato bello avere un fuoco acceso e una buona cena
davanti. Da troppo tempo ormai correva le strade con ragazze e amici, e sapeva
quanto valessero e le une e gli altri. L’esperienza gli aveva inasprito il cuore
contro il mondo, ma ancora non aveva perduto del tutto la speranza. Si sentiva
meglio adesso che aveva mangiato, meno stanco della vita e meno abbattuto di
spirito. Sì, avrebbe potuto sistemarsi anche lui in qualche cantuccio e vivere in
pace, se tanto tanto gli fosse capitata la fortuna d’incontrare una brava figliola,
semplice di cuore e con un po’ di soldi da parte.
Pagò due “pence” e mezzo alla serva malvestita e uscì dalla bottega per riprendere
il suo vagabondaggio. Imboccò Capel Street e si diresse verso la City Hall; poi
svoltò in Dame Street. All’angolo di George Street incontrò due amici e si fermò a
chiacchierare: era contento di riposarsi della camminata. Gli amici gli chiesero se
aveva visto Corley e se c’erano novità. Parlavano poco: con occhio distratto
guardavano la gente che passava azzardando ogni poco un commento. Uno disse
che un’ora prima aveva visto Mac in Westmoreland Street e a questo Lenehan
osservò che era stato con Mac la sera prima, da Egan. Il giovanotto che aveva
visto Mac in Westmoreland Street domandò se era vero che avesse vinto dei soldi
al bigliardo. Lenehan non lo sapeva: disse che Holohan aveva pagato da bere a
tutti, da Egan.
A un quarto alle dieci li lasciò e prese su per George Street. Al City Market svoltò
a sinistra e imboccò Grafton Street. La folla di giovanotti e ragazze si era diradata
e risalendo la strada sentì diverse comitive e coppie che si salutavano dandosi la
buona notte. Si spinse fino all’orologio del Surgeons College: suonavano le dieci in
punto. Allora s’avviò lungo il lato nord del Green affrettandosi per timore che
Corley fosse di ritorno in anticipo. Raggiunto l’angolo di Merrion Street si appostò
nell’ombra di un lampione e tirata fuori una delle sigarette che aveva di riserva
l’accese. Appoggiato al lampione teneva gli occhi fissi dalla parte da cui si
aspettava di veder tornare Corley e la ragazza.
Riprese a lavorare di cervello. Si domandava se Corley se l’era cavata e se
gliel’aveva chiesto subito o aveva aspettato invece all’ultimo momento. Soffriva
insomma tutti i tremori e le ansie sia della situazione dell’amico che della propria.
Venne però a rassicurarlo il ricordo delle lente evoluzioni della testa di Corley: se
la sarebbe cavata certamente. Lo colpì allora il dubbio che potesse avere
accompagnato la ragazza per un’altra strada facendogliela in barba. Appuntò gli
                                         42
occhi verso il fondo della via: non si vedeva nessuno. Eppure doveva essere già
passata di certo una mezz’ora da quando aveva guardato l’orologio al Surgeons
College. Sarebbe stato capace Corley di un’azione simile?
Accese l’ultima sigaretta e cominciò a fumarla nervosamente. Aguzzava lo
sguardo ogni volta che i tram si fermavano all’angolo della piazza. Dovevano
proprio essere tornati a casa per un’altra strada. La carta della sigaretta gli si
ruppe e la buttò via con una bestemmia.
A un tratto li vide venire alla sua volta. Trasalì di piacere e tenendosi accosto al
lampione cercò d’indovinare dalla loro andatura il risultato dell’impresa.
Camminavano in fretta, a passettini brevi la ragazza, mentre Corley le teneva
dietro col suo passo lungo e deciso. Avevan l’aria di tacere, e un presentimento lo
punse. Corley aveva fatto fiasco, lo sapeva: tutto tempo sprecato.
Svoltarono per Baggot Street ed egli li seguì subito, prendendo l’altro marciapiede.
Quando si fermarono si fermò anche lui. Stettero un po’ lì a confabulare davanti a
una casa, poi la ragazza scese gli scalini che portavano in cortile. Corley rimase a
poca distanza, sul marciapiede.
Passò qualche minuto. La porta d’ingresso si aprì adagio, con cautela. Una donna
scese i gradini di corsa e tossì. Corley si voltò e le si accostò. Per pochi secondi la
sua figura massiccia la nascose alla vista poi essa riapparve mentre correva su
per la scala. La porta si richiuse alle sue spalle e Corley si avviò a passo svelto
verso lo Stephen’s Green.
Lenehan s’affrettò nella stessa direzione. Cadeva qualche goccia di pioggia. Egli la
prese come un avvertimento e data un’occhiata alla casa in cui era scomparsa la
ragazza per vedere se non c’era nessuno a osservarlo, traversò correndo la strada.
L’ansia e la velocità della corsa lo facevano ansimare. Gridò:
- Ehi, Corley!
Corley voltò la testa per vedere chi lo chiamava e continuò a camminare come
niente fosse. Lenehan gli corse dietro e con una mano si raggiustava
l’impermeabile sulle spalle.
- Corley! - ripeté.
Raggiunse l’amico e lo guardò bene in faccia. Non riuscì a leggervi nulla.
- Be’, - chiese. - Com’è andata?
Erano arrivati all’angolo di Ely Place. Sempre senza rispondere Corley svoltò a
sinistra e risalì la strada laterale. Una calma solenne gli componeva i lineamenti.
                                          43
Lenehan gli si teneva a passo, ansando a disagio. Si sentiva tradito e una nota di
minaccia gl’incrinò la voce.
- Non mi dici nulla? Hai provato?
Corley si fermò sotto il primo lampione e guardò fisso dinanzi a sé. Poi con gesto
grave tese una mano verso la luce e sorridendo l’aprì adagio allo sguardo del suo
discepolo. Una piccola moneta d’oro brillava nel palmo.




                                       44
Pensione di famiglia




La signora Mooney era figlia di un macellaio: una donna che sapeva il fatto suo,
una donna di carattere insomma. Aveva sposato un garzone del padre e aperto
una macelleria nei pressi degli Spring Gardens.
Appena morto il suocero, però, il signor Mooney cominciò ad andare in rovina.
Beveva, spendeva e spandeva, s’ingolfava nei debiti; ed era inutile che facesse
promesse: dopo pochi giorni si poteva star sicuri che tornava daccapo. A furia poi
di maltrattare la moglie in presenza degli avventori e di comprare carne di
pessima qualità finì per screditarsi. Una notte arrivò perfino a minacciare la
moglie con la scure e la poveretta dovette rifugiarsi a dormire in casa di un vicino.
Dopo di ciò vissero ognuno per conto suo. Lei andò dal prete e ottenne la
separazione dal marito e la tutela dei figli. Non volle passargli né soldi, né cibo, né
alloggio e per campare egli fu costretto ad arruolarsi nelle guardie municipali. Era
un povero ubriacone, curvo e striminzito, con faccia e capelli bianchi e un paio di
sopracciglia pure bianche, messe lì a virgola sugli occhietti smorti e venosi. Le
sue giornate le passava seduto nell’ufficio di polizia in attesa che gli dessero
qualcosa da fare.
La signora Mooney invece, la quale col denaro avanzatole liquidata la macelleria,
aveva messo su una pensione nella Hardwicke Street, non mancava di una certa
imponenza. La sua era una clientela composta da un lato di gente di passaggio -
turisti che venivano da Liverpool o dall’Isola di Man, e, occasionalmente, artisti e
artiste di caffè-concerto; dall’altro di pensionanti fissi, per la maggior parte
impiegati. Abile e ferma essa dirigeva la casa: sapeva quando far credito, quando
essere severa e quando chiudere un occhio e i suoi giovani ospiti la chiamavano
di comune accordo la «madama».
Pagavano tutti per vitto e alloggio quindici scellini la settimana (birra o “stout”
durante il pasto, esclusi), e avendo gli stessi gusti e le stesse occupazioni, si
divertivano a discutere fra di loro le possibilità di questo o quel favorito, di questo
o quel fuoriclasse, e nel complesso erano piuttosto affiatati.
Jack Mooney, figlio di «madama» e impiegato in un’agenzia della Fleet Street,
aveva, da parte sua, fama d’essere un brutto tipo. Si compiaceva di usare il gergo
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James joyce gente di dublino

  • 1. James Joyce GENTE DI DUBLINO Traduzione di Marco Papi e Emilio Tadini > digitalizzazione a cura di Yorikarus @ http://forum.tntvillage.scambioetico.org < 1
  • 2. Sorelle Non c’era speranza per lui questa volta: era il terzo attacco. Sera per sera passavo dinanzi alla sua casa (si era in tempo di vacanze) e scrutavo il quadrato di luce della finestra, e sera per sera lo trovavo illuminato allo stesso modo, debole e eguale. Se fosse morto, pensavo, vedrei il riflesso delle candele sulle imposte abbassate, poiché sapevo che si mettono due ceri accesi al capezzale di un defunto. Spesso mi diceva: - Non ci resterò più per molto in questo mondo, - e io credevo che parlasse a vuoto. Capivo adesso che diceva la verità. Ogni sera alzando gli occhi alla finestra ripetevo piano fra me la parola «paralisi». M’era sempre suonata strana, come «gnomone» in Euclide o «simonia» nel catechismo. Ora però mi suonava come il nome di un essere malefico e peccaminoso; un essere che mi riempiva di terrore e al quale al tempo stesso avrei voluto star vicino per assistere alla sua opera mortale. Quando scesi per cena trovai il vecchio Cotter che fumava, seduto accanto al fuoco. E mentre la zia mi scodellava la minestra, disse, come tornando su una precedente osservazione: - No, non che fosse proprio... ma c’era qualcosa di strano, sì... qualcosa di misterioso in lui. Vi dirò la mia opinione... Prese a tirar boccate dalla pipa e certo pensava fra sé al miglior modo di formulare questa sua opinione. Vecchio imbecille! I primi tempi che lo conoscevamo quasi m’interessava coi suoi discorsi su storte e alambicchi: ma poi avevo fatto presto a stancarmi di lui e delle sue chiacchiere interminabili sulle distillerie. - Ho la mia teoria in proposito, - disse. - Secondo me è uno... uno di quei casi particolari, insomma. Ma è difficile a spiegarsi... E si rimise a tirare alla pipa senza spiegarcela, la sua teoria. Lo zio, visto che stavo lì ad occhi spalancati, mi disse: - Be’, ti dispiacerà saperlo, ma il tuo vecchio amico se n’è andato. - Chi? - domandai. - Padre Flynn. - È morto? - Ce lo diceva giusto ora il signor Cotter. È passato da casa sua. 2
  • 3. Sapevo di essere osservato, così continuai a mangiare come se non m’importasse della notizia. Lo zio spiegò al vecchio Cotter: - Erano grandi amici, lui e il ragazzo. Pover’uomo, gl’insegnava un sacco di cose. Dicevano tutti che gli voleva un gran bene. - Dio l’abbia in gloria, - commentò la zia in tono pio. Il vecchio Cotter mi guardò. Sentivo quei suoi occhietti neri a capocchia di spillo che mi scrutavano, ma non volli dargli la soddisfazione di alzare i miei dal piatto. Tornò alla sua pipa e alla fine sputò con forza sulla grata. - Non mi garberebbe che figli miei avessero a che fare con un uomo simile, - dichiarò. - Che volete dire signor Cotter? - chiese la zia. - Voglio dire che non hanno nulla da guadagnarci, ecco. Per conto mio, i ragazzi dovrebbero correre e divertirsi fra di loro e non essere... Ho ragione Jack? - Sono del tuo parere anch’io, - disse lo zio. - Che impari a difendere il suo posto nel mondo. È quel che dico sempre a questo Rosacroce qui. Fa’ della ginnastica. Quando ero ragazzo, ogni mattina senza fallo, estate o inverno, mi facevo un bel bagno freddo. Ecco perché sono ancora in gamba adesso. L’istruzione sarà una bella cosa ma... Forse il signor Cotter l’assaggerebbe volentieri un po’ di quel coscio di montone... - aggiunse rivolgendosi alla zia. - No, no, prego, - si schermì quello. La zia prese il piatto dalla credenza e lo posò sul tavolo. - Ma perché secondo voi, signor Cotter, sarebbe un male per i ragazzi? - insisté. - Perché sono di natura impressionabile. E il vedere certe cose, non so se mi spiego, ha un effetto... Mi riempii la bocca di minestra per timore di dare sfogo alla mia rabbia. Vecchio peperone rammollito! Era tardi quando m’addormentai. Sebbene ce l’avessi col vecchio Cotter per quel suo trattarmi da marmocchio, mi torturavo il cervello per trarre un qualche significato dalle sue frasi lasciate a mezzo. Nel buio della stanza mi immaginavo di rivedere la faccia grigia e massiccia del paralitico. Mi tirai le coperte fin sulla testa e cercai di pensare al Natale. Ma la faccia grigia mi perseguitava. Bisbigliava piano e capivo che voleva confessarmi qualcosa. Sentivo che il mio animo si ritraeva nei recessi di una regione piacevole e viziosa e qui di nuovo ritrovavo quella faccia ad aspettarmi. 3
  • 4. Cominciava a confessarsi in un bisbiglio e mi chiedevo perché sorridesse di continuo e perché le labbra fossero umide di saliva. Poi mi ricordavo che era morto di paralisi e sentivo che sorridevo anch’io, debolmente, come per assolvere il simoniaco dal suo peccato. L’indomani mattina, dopo colazione, andai a dare un’occhiata alla casa, in Great Britain Street. Era una bottega modesta, catalogata sotto la generica dicitura: «Abbigliamento». Per la maggior parte poi questo abbigliamento consisteva in ombrelli e scarponcini per ragazzi e di solito in vetrina pendeva un cartello con la scritta «Si ricoprono ombrelli». Adesso però non si vedevano cartelli di sorta perché i battenti erano chiusi e alla maniglia era legato con un nastro un fiocco di crespo nero. Due donnette e un fattorino del telegrafo leggevano il biglietto appuntato sul crespo. M’avvicinai anch’io e lessi: 11 Luglio 1895 Il Rev. James Flynn (già della Chiesa di Santa Caterina in Meath Street) di anni 65 – R. I. P. La lettura del biglietto mi convinse che era morto e il trovarmi così di fronte all’evidenza mi turbò. Se fosse stato ancora in vita sarei andato nella stanzetta buia del retrobottega e lo avrei trovato là in poltrona, vicino al fuoco, mezzo affogato nelle pieghe della sottana. Forse la zia mi avrebbe dato da portargli un pacchetto di High Toast e il regalo sarebbe valso a destarlo dal suo torpore. Ero sempre io a vuotargli il pacchetto nella vecchia tabacchiera nera: le mani gli tremavano troppo perché potesse farlo da sé senza versarne metà sull’impiantito. Perfino nel gesto di portarsi la grossa mano tremula al naso, nuvolette brune gli sfuggivano di fra le dita cadendogli in rivoli sul davanti della veste. E forse era proprio questo innaffiamento continuo a dare ai suoi vecchi abiti talari quel colore verdastro; tanto più che il fazzoletto rosso, annerito, come sempre, dalle macchie di tabacco di un’intera settimana, e col quale tentava di spolverarsi, si rivelava del tutto insufficiente allo scopo. Avrei voluto entrare a vederlo ma non ebbi il coraggio di bussare alla porta. M’allontanai adagio lungo il lato assolato della strada e passando dinanzi ai negozi mi leggevo via via tutti gli avvisi teatrali esposti in vetrina. Trovavo strano che né io né la giornata fossimo disposti alla tristezza e mi dispiaceva scoprire 4
  • 5. anzi in me quasi un senso di sollievo perché, come aveva detto lo zio la sera prima, egli m’era stato in molte cose maestro. Aveva studiato nei collegio dei Padri irlandesi a Roma e così mi aveva appreso una corretta pronuncia latina. Soleva raccontarmi aneddoti sulle catacombe o su Napoleone Bonaparte e m’aveva spiegato il significato delle diverse cerimonie della Messa nonché dei diversi paramenti indossati dal sacerdote. A volte si divertiva a sottopormi difficili quesiti, chiedendomi come ci si dovesse comportare in date circostanze e se certi peccati fossero da considerarsi mortali o veniali o, altrimenti, semplici imperfezioni. Tali domande mi dimostravano quanto misteriose e complesse fossero certe istituzioni della Chiesa che fino allora avevo riguardato come le cose più elementari. Le responsabilità del sacerdote nei confronti dell’Eucarestia e del segreto della Confessione mi apparivano addirittura di tal gravità che mi stupivo si potesse trovare chi aveva il coraggio di portarne il peso; e non rimanevo affatto sorpreso quando mi raccontava che i Padri della Chiesa avevano scritto volumi e volumi, dello spessore dell’annuario delle poste e di stampa fitta come il notiziario legale dei giornali, al fine di delucidare tutte quelle intricate questioni. Spesso, pensandoci, non riuscivo a rispondergli oppure mi veniva alle labbra solo una risposta molto sciocca o confusa, della quale egli era solito sorridere scuotendo il capo, due o tre volte. Talora invece mi faceva ripassare le risposte della Messa, che aveva voluto imparassi a memoria e quando incespicavo sorrideva pensoso e scuoteva la testa, fiutando enormi prese di tabacco ora da una narice ora dall’altra, alternativamente. Di solito, quando sorrideva, scopriva i grossi denti giallastri e lasciava pendere la lingua sul labbro inferiore; abitudine che sul principio della nostra amicizia, prima ancora di conoscerlo bene, mi dava un certo disagio. Mentre camminavo al sole mi tornarono in mente le parole del vecchio Cotter e cercai di rammentarmi cosa fosse accaduto, dopo, nel sogno. Ricordavo di aver visto lunghe tende di velluto e una lampada antica che dondolava... Sentivo che dovevo essere stato via, lontano lontano, in un paese dalle usanze strane, in Persia forse... Ma non riuscivo a rammentarmi come fosse finito il sogno. Quella sera la zia mi portò con sé a far visita in casa del defunto. Era dopo il tramonto ma i vetri delle finestre delle case che guardavano a occidente riflettevano ancora l’oro cupo di una gran massa di nubi. Nannie ci ricevette 5
  • 6. nell’entrata e poiché sarebbe parso sconveniente rivolgerle la parola ad alta voce, la zia si limitò a stringerle la mano. Con fare interrogativo la vecchia alzò gli occhi verso il piano superiore e a un cenno di consenso della zia ci fece strada arrancando su per le scale, con la testa curva che sporgeva appena di sopra la ringhiera. Sul primo pianerottolo si fermò e con gesto incoraggiante additò la porta aperta della stanza funebre. La zia entrò per prima e la vecchia, vedendo che esitavo, rinnovò più volte con cenni della mano l’invito. Entrai in punta di piedi. Attraverso l’orlo di trina delle tende filtrava nella stanza una cupa luce dorata in cui le candele apparivano come pallide fiamme lievi. L’avevano già messo nella bara. Nannie diede l’esempio e tutti e tre c’inginocchiammo ai piedi del letto. Feci finta di pregare ma non riuscivo a raccogliere le idee perché il borbottio della vecchia mi distraeva. Le guardavo la sottana goffamente agganciata sul dorso e i tacchi delle scarpe di panno tutti storti da un lato. E mi venne in mente che il vecchio prete ne dovesse sorridere, disteso là, nella bara. Ma no. Quando ci alzammo e ci avvicinammo a capo del letto vidi che non sorrideva. Giaceva massiccio e solenne, vestito come per andare all’altare, un calice fra le grosse mani abbandonate. Aveva una faccia truce, grigia e pesante, con le narici nere e fonde cerchiate di rada peluria bianca. E c’era un odor greve nella stanza, i fiori. Ci segnammo ed uscimmo. Nella stanzetta dabbasso trovammo Eliza seduta solennemente nella poltrona del prete. Mi diressi incerto verso la mia solita sedia, nell’angolo, mentre Nannie s’avvicinava alla credenza e ne toglieva una bottiglia di sherry e dei bicchieri. Li posò sul tavolo e ci invitò a bere. Poi, ad un cenno della sorella, versò lo sherry nei bicchieri e ce li porse. Si fece anche premura d’insistere perché prendessi del croccante, ma rifiutai pensando al rumore che avrei fatto mangiandolo. Ebbe quasi l’aria di restar male al mio rifiuto e in silenzio s’accostò al divano dove sedette alle spalle della sorella. Nessuno parlava. Guardavamo tutti il focolare vuoto. La zia attese un sospiro da parte di Eliza, poi disse: - Be’ se n’è andato in un mondo migliore. Eliza sospirò di nuovo e chinò il capo in assenso. Ad ogni sorso la zia si gingillava col piede del bicchiere. 6
  • 7. - E... è morto serenamente? - chiese. - Oh, sì, serenamente, signora, - disse Eliza. - Non ci si è neanche accorti di quando ha esalato l’ultimo respiro. Una bella morte, sì, ringraziando Iddio. - E per i... - È venuto Padre O’Rourke martedì a dargli l’Estrema Unzione e a prepararlo. - Sapeva, allora? - Era pienamente rassegnato. - Si vede, infatti. - È quel che ha detto la donna ch’è venuta a lavarlo. Pare che dorma, ha detto, tanto ha l’aria serena e rassegnata. Chi avrebbe detto che avrebbe fatto una così bella salma. - Già, è vero, - disse la zia. Bevve un altro sorso e aggiunse: - Ad ogni modo, signorina Flynn, dev’esservi di gran consolazione il pensiero che avete fatto tutto quel che potevate per lui. Bisogna riconoscere che siete state buone assai, tutt’e due. Eliza si lisciò il vestito sulle ginocchia. - Eh, povero James! Dio sa se abbiamo fatto il possibile, povere come siamo... Ma mai, fintanto che era in vita, gli avremmo fatto mancare qualcosa... Nannie aveva appoggiato la testa sul cuscino del divano e pareva lì lì per addormentarsi. - Guardate un po’ la povera Nannie, - disse Eliza, - è sfinita. Tutto quel che abbiamo avuto da fare lei ed io, e chiamare la donna per lavarlo, e preparare la salma, e la bara, e prendere gli accordi per la messa nella cappella... Se non fosse stato per Padre O’Rourke non so proprio come ce la saremmo cavata. È stato lui a portarci tutti i fiori e perfino quei due candelabri dalla chiesa. Lui che ha scritto l’annuncio per il «Freeman’s General» e s’è incaricato dei documenti per il cimitero e per l’assicurazione del povero James. - Ah, ma è stato buono davvero! - disse la zia. Eliza chiuse gli occhi e scosse la testa, adagio. - Solo dei vecchi amici ci si può fidare, - disse. - Alla resa dei conti se no, non trovi un cane che t’aiuti. - È vero, e come se è vero, - disse la zia. - E sono certa che ora ch’è andato a ricevere il premio eterno non si dimenticherà di voi e della vostra bontà. 7
  • 8. - Eh, povero James... Non era davvero che ci desse fastidio. Non si sentiva nemmeno in casa, non più di ora... Eppure so che se n’è andato e... - Quando sarà finito tutto, allora sì che ne sentirete la mancanza, - disse la zia. - Lo so. Non gli porterò più la sua tazza di brodo e voi signora non avrete più da mandargli il tabacco... povero James! Tacque, come in intima comunione col passato, poi riprese cauta: - Vedete, m’ero accorta, in questi ultimi tempi, che doveva avere qualcosa. Ogni volta che gli portavo la minestra lo trovavo qui sdraiato nella poltrona col breviario che gli era caduto per terra e la bocca spalancata. Si posò un dito sul naso corrugando la fronte. Poi seguitò: - Eppure, continuava a dire che un giorno di bel tempo, prima che finisse l’estate, avrebbe fatto una gita in carrozza, tanto per rivedere la casa dove siamo nati, giù a Irishtown e ci avrebbe portate con sé, Nannie ed io. Se avessimo potuto trovare qui di fronte, diceva, da John Rush, una di quelle carrozzelle moderne che non fanno rumore, di cui gli aveva parlato Padre O’Rourke, di quelle insomma con le ruote gommate, per intenderci, da prendere a nolo per tutta la giornata, allora ci si sarebbe potuti andare tutti e tre insieme, una domenica sera... Ci s’era fissato, povero James! - Che Dio abbia misericordia dell’anima sua! - commentò la zia. Eliza tirò fuori il fazzoletto e s’asciugò il naso. Poi se lo rimise in tasca e per un po’ stette lì a fissare il caminetto vuoto in silenzio. - Ha avuto sempre troppi scrupoli, - disse. - I doveri del sacerdozio erano troppo per lui. E così ha avuto una vita, come dire... contrariata, ecco. - Già. Un uomo deluso. Si vedeva. Il silenzio s’impadronì della stanza e profittandone mi avvicinai al tavolo, assaggiai il mio sherry e me ne tornai pian pianino nel mio angolo. Eliza pareva immersa in profonda meditazione. Aspettammo reverenti che rompesse il silenzio. Alla fine, dopo una lunga pausa, disse adagio: - Fu quel calice che ruppe... Da lì cominciò ogni cosa. Naturalmente dicevano tutti che non c’era da darvi peso... era un calice vuoto, voglio dire. Eppure... Pare che fosse stata colpa del chierico. Ma il povero James era così nervoso, Dio gli perdoni! - Fu quello, allora? - fece la zia. - Ne avevo sentito parlare ma... Eliza accennò di sì col capo. 8
  • 9. - Gli scombussolò la mente. Da allora cominciò a intristirsi, a non voler più parlare con nessuno e ad andare in giro da solo. Così una sera che l’avevano mandato a chiamare, non riuscirono a trovarlo da nessuna parte. Lo cercarono in lungo e in largo, dappertutto... macché, non lo trovavano. Alla fine il sagrestano suggerì che poteva essere in cappella e col Padre O’Rourke e un altro prete ch’era lì entrarono con un lume a cercarlo. E lo credereste? Lo trovarono là, solo solo, nel buio del confessionale, completamente sveglio e che se la rideva piano fra sé. S’interruppe d’un tratto come per ascoltare. Stetti in ascolto anch’io ma non s’udiva suono in tutta la casa e sapevo che il vecchio prete giaceva immobile nella bara, come lo avevamo visto noi, solenne e truce nella morte, il calice abbandonato sul petto. Eliza riprese: - Completamente sveglio, sì e che se la rideva piano fra sé... Naturalmente quando se ne accorsero pensarono subito che dovesse avergli dato di volta il cervello... 9
  • 10. Un incontro Fu Joe Dillon a farci conoscere il Far West. Aveva una piccola biblioteca fatta di vecchi numeri dell’«Union Jack», del «Pluck» e dell’«Halfpenny Marvel». Ogni sera, usciti di scuola, ci si riuniva nel giardino sul retro di casa sua e là organizzavamo battaglie indiane. Lui e quel grassone del suo fratello minore, Leo, lo sfaticato, tenevano il soppalco della stalla e noi, dal basso, si tentava di prenderlo d’assalto; quando non ci disponevamo invece a combattere battaglie in piena regola sull’erba. Ma per quanto ci si mettesse d’impegno mai riuscimmo a vincere né assedio né battaglie e tutte le nostre imprese terminavano immancabilmente con la vittoriosa danza di guerra di Joe Dillon. Tutte le mattine i suoi genitori andavano alla messa delle otto in Gardiner Street, e nel vestibolo indugiava sempre il soave profumo della signora Dillon. Per noi però, più piccoli e più timidi com’eravamo, egli era troppo violento nei suoi giochi. Pareva proprio un indiano quando con un vecchio copriteiera in testa scorrazzava su e giù per il giardino battendo col pugno su una latta e urlando: - Ya! Yaka, yaka, yaka, ya! Stentammo a crederlo quando ci vennero a dire che aveva vocazione al sacerdozio. Eppure era vero. Ben presto uno spirito di rivolta si diffuse fra noi e sotto la sua influenza anche diversità di cultura e di temperamento furon messe da parte. Ci si raccolse tutti in una banda, chi per arditezza, chi per gioco, altri per paura, e nel numero di questi ultimi indiani riluttanti che avevano timore di apparire deboli o sgobboni, c’ero anch’io. Le avventure descritte dalla letteratura del Far West erano ben lontane dalla mia natura, ma servivano almeno ad aprire le porte all’evasione. Si confacevano di più al mio gusto certi racconti polizieschi, ravvivati da fugaci apparizioni di belle ragazze, fiere e scapigliate. E sebbene non ci fosse nulla di male in questo genere di racconti, non privi a volte di velleità letterarie, pure a scuola li facevano circolare di nascosto. Un giorno che Padre Butler stava interrogando sulle solite quattro pagine di storia romana, quello sciocco di Leo Dillon si fece sorprendere con una copia dell’«Halfpenny Marvel». 10
  • 11. - Che pagina allora? Questa o quella? Questa?... Su Dillon, alzati... «Appena il giorno... » Avanti! Che giorno?... «Appena il giorno si fu levato...» Ma insomma hai studiato sì o no? Che cos’hai lì in tasca? Ci prese a tutti il batticuore quando Leo Dillon tirò fuori il giornale e tutti si fece il viso innocente. Padre Butler sfogliò le pagine, accigliato. - Ma che roba è? «Il capo degli Apaches!» E così è questo che leggete invece di studiare la storia romana! Che non trovi più porcherie simili in iscuola! Chi le ha scritte doveva essere proprio un disgraziato che adoperava la penna tanto per guadagnarsi di che bere. E mi stupisce che ragazzi come voi, colti e educati, leggano di queste sciocchezze. Lo capirei se foste... che so... allievi della Scuola Nazionale. Siamo intesi allora, Dillon. T’avverto una volta per tutte: mettiti sul serio al lavoro o... Dinanzi alla gravità della ramanzina nel raccolto silenzio delle ore di scuola, la gloria del Far West perse ai miei occhi molto del suo splendore e la grassa faccia imbarazzata di Leo Dillon mi destò seri scrupoli di coscienza. Ma fuori di questa influenza moderatrice mi riprendeva la sete di sensazioni violente e di un’evasione che solo quelle cronache di disordine parevano offrirmi. Le finte battaglie della sera mi divennero altrettanto noiose del giornaliero tran tran della scuola al mattino, poiché il mio era adesso un desiderio di avventure vere. Ma, riflettevo, non capitano mai le avventure a chi se ne sta a casa propria: bisogna andar fuori a cercarsele. S’avvicinavano le vacanze estive allorché mi risolsi a rompere per un giorno almeno la monotonia della mia vita di scolaro. Con Leo Dillon e un certo Mahony combinammo di marinare la scuola, una giornata intera. Avevamo in serbo sei “pence” ciascuno. Ci saremmo dovuti trovare sul ponte, alle dieci del mattino. La sorella maggiore di Mahony gli avrebbe scritto un biglietto di giustificazione e Leo Dillon avrebbe incaricato il fratello di dire che era ammalato. Avevamo stabilito di prendere giù per la Wharf Road fino alla darsena e là di fare la traversata in “ferry-boat” per spingerci fino alla Pigeon House. Leo Dillon aveva paura che incontrassimo Padre Butler o qualcun altro del Collegio, ma Mahony obbiettò con molto buon senso che cosa avrebbe mai potuto andare a fare Padre Butler alla Pigeon House. Rassicurati che si fu su questo punto, spettò a me di portare a termine la prima parte del programma facendomi dare i sei “pence” dagli altri due e mostrando allo stesso tempo i miei. Eravamo tutti un po’ eccitati la vigilia, 11
  • 12. quando prendemmo gli ultimi accordi. Ci stringemmo la mano ridendo e Mahony disse: - A domani, camerati! Dormii male quella notte. Al mattino fui il primo ad arrivare al ponte, poiché ero quello che abitava più vicino. Nascosi i libri nell’erba folta accanto all’immondezzaio, in fondo al giardino, dove non andava mai nessuno, e m’affrettai lungo il fiume. Era un mattino di primo giugno, dolce e soleggiato. Mi sedetti sul parapetto del ponte e presi ad ammirarmi le leggere scarpe di tela che avevo diligentemente pulito col bianchetto la sera prima; a osservare i docili cavalli di un omnibus carico di gente indaffarata, che arrancavano adagio su per la collina. I rami degli alti alberi sul viale si ergevano tutti in un’allegria di foglioline verde chiaro e il sole le traversava cadendo di sbieco sull’acqua. La pietra del parapetto cominciava a riscaldarsi e io presi a batterla con le mani sul ritmo di un motivo che avevo in mente. Ero felice. Saranno stati cinque o dieci minuti che stavo lì seduto quando vidi apparire di lontano il vestito grigio di Mahony. Saliva sorridendo la collina e raggiunto che m’ebbe mi s’arrampicò accanto sul parapetto. Mentre aspettavamo tirò fuori la fionda che gli gonfiava la tasca e mi spiegò tutti i miglioramenti che vi aveva fatti. Gli chiesi perché l’aveva portata e lui rispose che voleva divertirsi a tirare agli uccelli. Mahony non si peritava di usare il dialetto e parlava di Padre Butler come del «vecchio sgonfione». Aspettammo un altro quarto d’ora ma Leo Dillon non si vedeva. Alla fine Mahony saltò giù dal parapetto. - Andiamocene, va’! Lo sapevo che avrebbe avuto fifa, il grassone. - Ma... e i suoi sei “pence”? - Requisiti. Tanto meglio per noi. Avremo uno scellino e mezzo invece d’uno solo. Prendemmo giù per la North Strand Road fino alla fabbrica del vetriolo e poi voltammo a destra lungo la Wharf Road. Appena fummo fuori di vista Mahony si mise a fare l’indiano. Impugnata la fionda scarica diede la caccia a un branco di ragazzine cenciose e quando due straccioncelli per spirito di cavalleria cominciarono a prenderci a sassate, mi propose di dar loro battaglia. Osservai che erano troppo piccoli e così proseguimmo per la nostra strada mentre la marmaglia prendendoci evidentemente per protestanti, perché Mahony, che era assai scuro di pelle, portava sul berretto il distintivo d’argento di un’associazione di cricket, ci gridava dietro: «“Swaddlers! Swaddlers!”» [Termine spregiativo con cui 12
  • 13. gli irlandesi sogliono chiamare i protestanti. – N.d.T.]. Arrivati a Smoothing Iron stabilimmo di organizzare un assedio in grande stile, ma fu un fiasco perché avremmo dovuto essere almeno in tre. Ci vendicammo allora di Leo Dillon dicendo che era un fifone e domandandoci chissà quante gliene avrebbe dette il signor Ryan alla lezione delle tre. Arrivammo così al fiume. Per un bel pezzo seguitammo a vagabondare per le strade rumorose fiancheggiate da alti muri di pietra. Ci fermavamo intenti dinanzi a manovre di gru e locomotive e la nostra immobilità non mancava d’attirarci le fiorite apostrofi dei carrettieri. Fummo al molo a mezzogiorno passato e poiché pareva che tutti gli operai se ne fossero andati a far colazione, ci comprammo anche noi due belle focacce all’uva e ce le mangiammo seduti sulle tubature vicino al fiume. Ci godevamo lo spettacolo del traffico dublinese: i vaporetti che si annunciavano da lontano con fiocchi di fumo lanoso, le brune barche da pesca oltre il Ringsend e il gran veliero bianco che scaricava dall’altra parte della banchina. Mahony disse che sarebbe stata una gran bella cosa potersene andare via sul mare in uno di quei barconi e anch’io guardando le alte alberature vedevo o immaginavo di vedere quella geografia che a scuola mi veniva propinata in dosi così modeste, prendere a poco a poco sostanza sotto i miei occhi. Ma già pareva che scuola e casa s’allontanassero sempre più e ogni loro influenza scompariva. Traversammo il Liffey in “ferry-boat”, pagando il nostro pedaggio per essere traghettati in compagnia di due operai e di un piccolo ebreo con un sacco. Avevamo un’aria seria, quasi solenne, ma l’unica volta che in quel breve tragitto i nostri sguardi s’incontrarono, scoppiammo a ridere tutti e due. Approdati che fummo ci fermammo a veder scaricare il bel tre alberi che avevamo già notato dall’altra parte del porto. Un tale che stava lì ci disse che era un battello norvegese. M’avvicinai a poppa per cercare di decifrarne il nome, ma non ci riuscii e tornato indietro mi misi allora a osservare i marinai forestieri per vedere se per caso ce n’era qualcuno con gli occhi verdi, poiché, ricordavo, m’avevano detto... Ma li avevano tutti azzurri o grigi o anche neri e l’unico ad averli quasi verdi era un uomo alto che dava spettacolo alla folla raggruppata sulla banchina gridando allegramente ad ogni cadere di tavole: - Bene! Bene! 13
  • 14. Quando fummo stanchi di stare a guardare, ci avviammo adagio verso il Ringsend. La giornata s’era fatta afosa e nelle vetrine di droghiere stavano a scolorire biscotti ammuffiti. Ci comprammo un po’ di biscotti e di cioccolata e ce li mangiammo pian piano vagabondando per le squallide viuzze dove abitavano le famiglie dei pescatori. Non ci riuscì di trovare una latteria e così dovemmo entrare nella baracca di un venditore ambulante per comprarci una bottiglia di sciroppo al lampone per ciascuno. Preso nuovo vigore dalla bevanda Mahony si mise a inseguire un gatto lungo un viottolo, ma il gatto fuggì in un campo. Eravamo piuttosto stanchi tutti e due e arrivati nel campo ci dirigemmo senz’altro verso la scarpata dalla quale si poteva vedere il Dodder. Era troppo tardi e ci sentivamo troppo stanchi per risolverci a realizzare il nostro progetto di visitare la Pigeon House. Dovevamo essere di ritorno per prima delle quattro se non volevamo che la nostra avventura venisse scoperta. Mahony guardava con rimpianto la sua fionda e dovetti proporre di tornare a casa in treno perché ritrovasse un po’ della sua allegria. Il sole scomparve dietro le nubi lasciandoci soli coi nostri tristi pensieri e le briciole della merenda. Tranne noi non c’era anima viva nel campo. Era già un po’ che stavamo là sdraiati senza parlare quando vidi da lontano un uomo che si avvicinava. Lo osservavo con aria indolente, masticando uno di quei fili d’erba coi quali le ragazze leggono l’avvenire. Camminava adagio lungo la scarpata, una mano su un fianco e nell’altra un bastone col quale andava battendo piano per terra. Era vestito miseramente con un abito di un nero-verdastro e in capo portava uno di quei cappelli a cupola alta, un po’ malandato. Pareva piuttosto vecchio perché aveva i baffi grigio cenere. Nel passarci davanti alzò in fretta gli occhi a guardarci, poi continuò la sua strada. Lo seguimmo con lo sguardo tutti e due e vedemmo che, fatta una cinquantina di passi, si voltava e tornava indietro. Veniva verso di noi molto adagio e sempre battendo per terra col bastone, così adagio che pensai stesse cercando qualcosa fra l’erba. Raggiunti che ci ebbe si fermò e ci dette il buongiorno. Ricambiammo il saluto e lui, sempre adagio e con gran precauzione, si sedette accanto a noi sulla scarpata. Si mise a parlare del tempo. Disse che sarebbe stata un’estate calda assai e aggiunse che le stagioni erano mutate di molto da quando lui era ragazzo, tanti anni fa. Disse anche che il più felice periodo della vita è senza dubbio quello in cui si va ancora a scuola e che avrebbe dato qualsiasi cosa pur di tornare a 14
  • 15. essere giovane. Mentre esprimeva questi suoi sentimenti che in realtà c’interessavano poco, noi serbavamo il silenzio. Poi cominciò a parlare di scuola e di libri. Ci chiese se avessimo mai letto le poesie di Thomas Moore o i romanzi di Walter Scott e di Lord Lytton. Feci finta d’aver letto tutto, così che alla fine mi disse: - Be’, vedo che sei un topo di biblioteca anche tu, come me. Il tuo amico invece è diverso, - aggiunse indicando Mahony che ci guardava a bocca aperta. - Gli piace giocare a lui. Aveva a casa tutti i libri di Walter Scott e di Lord Lytton, disse, e non si stancava mai di leggerli. - Certo che, specie fra quelli di Lord Lytton, ce ne sono di non adatti per i ragazzi, - osservò. Mahony domandò perché non erano adatti, domanda che mi turbò e mi mise in imbarazzo: temevo di far la figura dello stupido anch’io di fronte a quell’uomo. Vidi invece che si limitava a sorridere e notai i vuoti fra i denti giallastri. Ci chiese poi chi dei due aveva più innamorate. Mahony affermò disinvolto di averne tre. Mi chiese allora quante ne avevo io e risposi che non ne avevo nessuna. Non mi credette: ne dovevo avere una anch’io, n’era certo. Rimasi in silenzio. - E voi, - domandò Mahony con piglio arrogante, - quante ne avete, sentiamo? L’uomo sorrise come prima e disse che alla nostra età ne aveva a non finire. - Tutti i ragazzi hanno l’innamorata, - dichiarò. Questo suo modo di considerare l’argomento mi colpì come stranamente libero per un uomo della sua età. Pensavo entro di me che era giusto quanto diceva dei ragazzi e delle innamorate, ma mi spiacevano quelle parole in bocca sua e mi domandai anche perché fosse rabbrividito una volta o due come se avesse paura di qualcosa o avesse sentito freddo, tutto a un tratto. Aveva buon accento, notai, mentre riprendeva il discorso. Parlava delle ragazze e dei loro bei capelli morbidi e delle belle mani bianche e diceva che si faceva presto ad accorgersi che non erano poi tanto buone come parevano, non appena se ne aveva un po’ d’esperienza. - Non c’è niente che mi piaccia, - diceva, - come guardare una bella fanciulla e le sue belle mani bianche e i bei capelli morbidi -. E via via che parlava avevo l’impressione che ripetesse qualcosa d’imparato a memoria e che quasi magnetizzata dalle sue parole la mente gli girasse adagio torno torno, sempre nella stessa orbita. Dalla voce pareva talvolta che alludesse semplicemente a un 15
  • 16. fatto risaputo da tutti, talaltra l’abbassava invece fino a un bisbiglio e assumeva un tono di mistero quasi ci stesse confidando un segreto che non voleva fosse udito da altri. E così continuava a ripetere e ripetere le sue frasi, variandole e rigirandole con monotonia. L’ascoltavo, lo sguardo fisso in fondo alla scarpata. Dopo un bel po’ interruppe il monologo. S’alzò adagio dicendo che doveva lasciarci per un minuto o due, poco tempo insomma, e senza mutare la direzione del mio sguardo lo vidi allontanarsi lentamente verso il fondo del campo. Rimanemmo in silenzio, quando se ne fu andato. Poco dopo però sentii Mahony che esclamava: - Ma di’... Guarda che sta facendo! E poiché non rispondevo né alzavo lo sguardo proseguì: - Bel tipo dev’essere! - Caso mai ci domandasse i nomi, - dissi, - tu ti chiami Murphy e io Smith. Non aggiungemmo altro. Stavo ancora considerando se dovevo andarmene o no quando l’uomo tornò indietro e ci risedette accanto. Si era appena seduto che Mahony, scorto il gatto che gli era sfuggito poco prima, saltò in piedi e si diede a inseguirlo per il campo. L’uomo ed io osservavamo la caccia. Il gatto riuscì a scamparla ancora una volta e Mahony cominciò a tirar sassi contro il muro su cui si era arrampicato. Alla fine smise e prese a vagare senza scopo in fondo al campo. Dopo una pausa l’uomo attaccò a parlare. Disse che il mio amico doveva essere un ragazzaccio e mi chiese se lo frustavano spesso a scuola. Fui lì lì per rispondere indignato che non si era allievi della scuola nazionale, noi, per essere frustati come diceva lui; ma tacqui. Quello cominciò allora a parlare dei diversi modi di castigare i ragazzi. Pareva che la sua mente, tornando a subire il magnetismo delle parole, girasse in lenta cerchia attorno a quel nuovo polo. Ragazzi di tal sorta, disse, avrebbero dovuto essere frustati ben bene. Non c’è nulla che valga come una buona frustata quando si è violenti o indisciplinati. Colpi sulle mani o scapaccioni non servono; quel che ci vuole è la frusta. Rimasi stupito di queste sue affermazioni e involontariamente gli detti un’occhiata. Incontrai così lo sguardo d’un paio d’occhi verde bottiglia che mi spiavano di sotto alla fronte contratta e subito riabbassai i miei. 16
  • 17. L’uomo continuò nel suo monologo. Pareva si fosse dimenticato l’indulgenza di poc’anzi. Se avesse sorpreso un ragazzo a parlare con una fanciulla o uno che avesse l’innamorata, lo avrebbe frustato a sangue: gli avrebbe insegnato così a fare il galletto. Se poi avesse fatto all’amore di nascosto gliene avrebbe date tante come nessun altro al mondo. E mi descriveva come avrebbe fatto a frustarlo, quasi stesse rivelando un qualche complicatissimo mistero. Gli sarebbe piaciuto, disse, più di qualsiasi cosa; e la voce, via via che monotonamente mi guidava attraverso quel mistero, gli s’inteneriva e pareva mi supplicasse di capirlo. Attesi che il monologo giungesse a una nuova pausa. Allora m’alzai di scatto. Per non tradire la mia agitazione indugiai ancora un poco, fingendo di allacciarmi una scarpa; poi dissi che me ne dovevo andare e lo salutai. Risalii adagio la scarpata ma il cuore mi batteva forte per timore ch’egli mi fermasse afferrandomi a una caviglia. Quando fui in cima mi voltai e chiamai forte in direzione del campo. - Murphy! La mia voce aveva un accento di forzata spavalderia e mi vergognavo di quel vile strattagemma. Dovetti chiamare ancora prima che Mahony mi vedesse e gridasse in risposta. Come mi batteva il cuore mentre egli mi correva incontro, attraverso il campo! Correva come per portarmi aiuto ed ebbi rimorso perché entro di me lo avevo sempre disprezzato un poco. 17
  • 18. Arabia Era a fondo cieco la North Richmond Street e come tale poco frequentata, tranne nell’ora in cui uscivano i ragazzi dalla scuola dei Fratelli Cristiani. Al termine della strada s’ergeva una casa disabitata a due piani, separata dalle sue vicine da un quadrato di terreno. Le altre case, consce dell’integerrima vita che si svolgeva entro di esse, si guardavano l’un l’altra con brune facce imperturbabili. Il precedente inquilino della nostra casa, un prete, era morto nel salotto sul retro. In tutte le stanze, tenute chiuse per tanto tempo, aleggiava un odore di muffa e il ripostiglio dietro la cucina era disseminato di cartacce. Era qui che avevo trovato fra l’altro vecchi libri senza rilegatura, dalle pagine umide e gualcite: “L’abate” di Walter Scott, “Il devoto comunicante” e “Le memorie di Vidocq”. Quest’ultimo mi piaceva in modo particolare perché aveva i fogli ingialliti. Nel mezzo del giardino incolto dietro la casa c’era un melo e cespugli qua e là, sotto uno dei quali m’era capitato di trovare un giorno la pompa da bicicletta dell’ex locatario, tutta arrugginita. Era stato un prete caritatevole e nel testamento aveva lasciato tutto il suo denaro a istituzioni pie e i mobili alla sorella. D’inverno, accorciandosi le giornate, calava la sera prima che avessimo finito di cenare. Quando ci ritrovavamo nella strada la fila di case era già in ombra. Il tratto di cielo sulle nostre teste si faceva d’un color viola cangiante e verso di esso i lampioni alzavano le deboli fiamme delle lanterne. L’aria era fredda e pungente e noi si giocava fino a sentirci avvampare in tutto il corpo. Le nostre grida echeggiavano nella strada silenziosa e spesso il corso del gioco ci trascinava per vicoli bui e fangosi dietro le case, ad affrontare la marmaglia del rione, fino alle porte dei giardinetti sul retro cupi e stillanti da cui saliva il lezzo degli immondezzai o alle scure stalle odorose dove un cocchiere strigliava il suo cavallo facendo tintinnare musicalmente le fibbie dei finimenti. Quando tornavamo nella strada, le luci delle cucine già inondavano i cortili. Ogni volta che scorgevamo mio zio svoltare la cantonata ci nascondevamo nell’ombra e vi si restava finché non eravamo sicuri che fosse entrato in casa. Quando poi la sorella di Mangan si faceva sulla soglia a chiamare suo fratello per il tè, dal nostro nascondiglio la guardavamo scrutare la strada a destra e a sinistra. 18
  • 19. Stavamo lì a guardare se se ne andava o se rimaneva, e se rimaneva eravamo costretti a lasciare l’angolo buio e ad avviarci rassegnati verso la porta dei Mangan. Lei ci aspettava, la figura inquadrata nell’alone di luce dell’uscio semiaperto. La faceva sempre ammattire il fratello, prima di obbedirle, e io in piedi presso il cancello la guardavo. Ad ogni movimento le ondeggiava la veste e la treccia morbida dondolava in qua e in là. Ogni mattina mi sdraiavo sul pavimento del salotto d’entrata per spiare la porta di casa sua. Tenevo le persiane abbassate fino a pochi centimetri dal davanzale, così che nessuno poteva vedermi, e quando appariva sulla soglia il cuore mi dava un tuffo. Correvo in anticamera, afferravo i libri e la seguivo. Non perdevo mai d’occhio la sua figurina bruna e arrivati al punto in cui le nostre strade divergevano, affrettavo il passo e la sorpassavo. Ciò avveniva ogni mattina. Non le avevo mai parlato, se non per rivolgerle poche parole casuali eppure il solo suo nome era un richiamo per il mio sangue impetuoso. L’immagine sua m’accompagnava anche nei luoghi meno propizi al romanticismo. Il sabato sera quando la zia si recava al mercato ero costretto ad andare con lei per aiutarla a portare i pacchi. Si camminava per le strade illuminate fra gli spintoni degli ubriachi e delle donne che contrattavano, fra le bestemmie degli operai, le stridule tiritere dei garzoni a guardia dei barili di carne salata e le nenie nasali dei cantastorie che declamavano inni su O’Donovan Rossa o ballate sulle agitazioni nel nostro paese. Tutti rumori che per me convergevano in un’unica sensazione di vita: immaginavo di recare in salvo il mio calice frammezzo a una folla di nemici. A volte il nome di lei mi saliva alle labbra in lodi e preghiere che io stesso non capivo; senza che me ne rendessi conto gli occhi sovente mi si riempivano di lacrime e a tratti la piena del mio cuore sembrava traboccarmi in petto. Non pensavo all’avvenire. Non sapevo se le avrei mai parlato né in qual modo, sempre che ne avessi avuto il coraggio, avrei potuto farla partecipe di quella mia attonita adorazione. Sapevo solo che il mio corpo era come un’arpa e i gesti, le parole di lei come dita che ne sfiorassero le corde. Una sera me ne andai nel salotto sul retro, dov’era morto il prete. Era una buia sera di pioggia e non s’udiva rumore in tutta la casa. Attraverso i vetri rotti sentivo la pioggia battere sul terreno: sottili, incessanti aghi di pioggia che giocavano sulle fradice aiuole. Giù, in basso, scorgevo il vago baluginare di un lampione in distanza o di una finestra illuminata e m’era grato 19
  • 20. vedere così poco. Tutti i miei sensi pareva aspirassero a un velo d’oblio e accorgendomi d’essere lì lì per venir meno premetti insieme le palme fino a farle tremare, mormorando più volte: O amore... amore... amore! Finalmente ella mi parlò. Alle prime parole che mi rivolse rimasi così confuso che non seppi risponderle. Mi aveva chiesto se sarei andato all’«Arabia». Non ricordo se risposi di sì o di no. Era un bellissimo bazar, disse e le sarebbe piaciuto andarci. - E chi te lo impedisce? - chiesi. Parlando si rigirava un braccialetto d’argento intorno al polso. Non poteva, spiegò: aveva il ritiro al convento quella settimana. Il fratello e altri due ragazzi si stavano disputando i berretti nella strada e io ero solo presso il cancello. Con una mano lei si teneva alla sbarra e piegava la testa verso di me. La luce del lampione di fronte le coglieva la bianca curva del collo e illuminava i capelli raccolti sulla nuca, la mano posata sulla sbarra. Cadendo di lato sul vestito, coglieva anche l’orlo bianco della sottana, messo in evidenza dalla posa trascurata. - Sei fortunato tu a poterci andare, - disse. - Be’, se ci vado ti porterò qualcosa. Quali innumerevoli follie non mi sconvolsero la mente, da quella sera, sia che stessi sveglio, sia che dormissi. Avrei voluto annientare le monotone giornate che seguirono. Lo studio m’era divenuto insopportabile: di notte in camera, di giorno a scuola, l’immagine di lei s’interponeva fra me e la pagina che mi sforzavo di leggere, e nel silenzio in cui s’esaltava l’anima mia le sillabe della parola “Arabia” mi tornavano in mente per versarmi in cuore un incanto orientale. Alla fine mi decisi a chiedere il permesso d’andare al bazar, il sabato sera. La zia se ne stupì ed espresse la speranza che non si trattasse di qualche trappola da frammassoni. In classe non seppi rispondere all’interrogazione. Vidi la faccia dell’insegnante mutarsi man mano da benevola in severa: c’era da augurarsi che non diventassi uno sfaticato, mi disse. Non riuscivo a raccogliere le idee e sentivo tutto il peso dei seri impegni della vita ora che, ostacolandomi nei miei desideri, m’apparivano uno sciocco e tedioso gioco da bambini. Il sabato mattina ricordai allo zio che avrei voluto andare al bazar, quella sera. Stava frugando nella cassapanca in cerca di una spazzola da cappelli e mi rispose breve: - Sì, sì, lo so, ragazzo mio. 20
  • 21. Ora che c’era lui in anticamera non potevo andare nel salotto d’ingresso e affacciarmi alla finestra. Sentivo che c’era un’aria di malumore in casa e così m’avviai lentamente verso la scuola. Faceva freddo e in cuore già avevo un triste presentimento. Quando tornai a casa per il desinare lo zio non era rientrato. Era ancora presto. Per un po’ rimasi lì seduto a guardare l’orologio e quando il suo tic-tac cominciò a irritarmi, lasciai la stanza. Salii le scale fino al piano superiore. Le stanze alte, fredde e vuote mi dettero un senso di sollievo: passavo dall’una all’altra cantando. Dalla finestra sul davanti vedevo i miei compagni giocare giù nella strada. Le loro grida mi giungevano opache e indistinte e con la fronte appoggiata al vetro freddo guardavo la casa buia dove abitava lei. Sarò rimasto lì quasi un’ora, non vedendo altro che la sua figura vestita di scuro evocata dalla mia fantasia, con la luce del lampione che illuminava discretamente la bianca curva del collo, la mano posata sulla sbarra e l’orlo della sottana. Scendendo trovai la signora Mercer seduta presso il fuoco. Era la vedova d’uno strozzino, una vecchia chiacchierona che faceva collezione di francobolli usati per conto di un’istituzione pia. Mi dovetti sorbire le sue ciarle interminabili durante il tè. Il pasto durò oltre un’ora e ancora mio zio non tornava. La signora Mercer s’alzò per andarsene: le spiaceva non potersi trattenere più a lungo ma erano le otto sonate e non voleva trovarsi fuori tanto tardi perché l’aria della notte le faceva male. Quando se ne fu andata mi misi a passeggiare in su e in giù per la stanza, coi pugni stretti. La zia disse: - Ho paura che dovrai rinunciare al tuo bazar per stasera. Alle nove sentii lo zio che girava la chiave nella serratura. Lo sentii anche parlare fra sé e notai il dondolio dell’attaccapanni sotto il peso del cappotto: tutti indizi chiari per me. Solo a metà cena mi decisi a chiedergli i soldi per il bazar. Se n’era dimenticato. - È a letto la gente a quest’ora e nel primo sonno, - disse. Ma io non sorrisi e la zia intervenne energica. - Potresti anche darglieli i soldi e lasciarlo andare... L’hai già fatto aspettare abbastanza. Lo zio si dichiarò allora spiacente della dimenticanza: era del parere che ogni tanto un po’ di svago ci vuole. Mi chiese dove volevo andare e quando gliel’ebbi 21
  • 22. ripetuto una seconda volta domandò se non conoscevo «L’addio dell’arabo al suo stallone». Quando uscii di cucina ne stava recitando i primi versi alla zia. Col mio fiorino stretto in pugno m’avviai giù per Buckingham Street, verso la stazione. La vista delle strade illuminate a gas e affollate di compratori mi rammentò la meta del mio viaggio. Mi sedetti in un vagone di terza classe, in un treno deserto. Dopo un’attesa interminabile il treno uscì adagio dalla stazione. Arrancava lento fra file di case in rovina, lungo il fiume che luccicava. A Westland Row una folla di gente s’accalcò agli sportelli ma i facchini la respinsero dicendo che era un treno speciale per il bazar. Rimasi solo nello scompartimento vuoto. Pochi minuti dopo il treno si fermava presso una piattaforma di legno improvvisata. Uscii nella strada e dal quadrante luminoso di un orologio vidi che mancavano dieci minuti alle dieci. Un capannone mi stava di fronte, ostentando il magico nome. Non mi riuscì di trovare l’ingresso da sei “pence” e temendo che avessero a chiudere passai in fretta da un’entrata girevole e tesi uno scellino a un uomo dall’aria stanca. Mi trovai in una gran sala circondata a mezza altezza da una galleria. Quasi tutti i padiglioni erano già chiusi e la sala per la maggior parte era al buio. Vi ritrovavo il silenzio delle chiese dopo la funzione. M’avviai timido verso il centro del bazar. Poca gente si raccoglieva intorno ai padiglioni ancora aperti. Dinanzi a una tenda sopra la quale erano scritte a lampadine luminose le parole «“Café Chantant”», due uomini contavano del denaro su un vassoio. Sentivo il tintinnare delle monete contro il metallo. Ricordandomi con sforzo il motivo per cui ero venuto, m’avvicinai a uno dei banchi e mi misi a guardare i vasi di porcellana e i servizi da tè a fiorami. Sull’ingresso del padiglione una signorina parlava e rideva con due giovanotti. Notai che avevano l’accento inglese e prestai un orecchio disattento ai loro discorsi. - Ma io non ho mai detto una cosa simile. - Vi dico di sì! - Macché! - Non è vero che l’ha detto? - Sì, l’ho sentita anch’io. - Per carità! È una bugia, ecco. 22
  • 23. Scorgendomi, la signorina s’avvicinò e mi chiese se volevo comprare qualcosa. Non aveva un tono troppo incoraggiante e pareva me lo domandasse solo per un senso di dovere. Guardai umile gli alti vasi che come guardie orientali s’ergevano da ambo i lati dell’ingresso buio e mormorai: - No, grazie. La signorina cambiò di posto a una brocca e tornò dai suoi giovanotti. Ripresero a parlare sullo stesso argomento. Una volta o due la vidi darmi un’occhiata da sopra la spalla. Sebbene ne sapessi l’inutilità, indugiai ancora dinanzi al banco, tanto per rendere più evidente il mio interesse alla merce. Poi mi voltai e adagio presi giù per il corridoio centrale. Mi lasciai scivolare in tasca le due monete da un “penny” accanto a quella da sei “pence” e dal fondo della galleria sentii una voce gridare che si spengevano le luci. Adesso la parte superiore della sala era completamente in ombra. Alzando allora lo sguardo su nel buio mi vidi come una creatura trascinata e derisa dalla vanità e gli occhi mi bruciarono d’ira e d’angoscia. 23
  • 24. Eveline Seduta alla finestra guardava la sera invadere il viale. Teneva la testa appoggiata contro le tendine e sentiva nelle narici l’odore del “crétonne” polveroso. Era stanca. Poca gente per strada. Passò l’inquilino della casa di fondo che rientrava. Senti i passi risuonare sul marciapiede di cemento, poi lo scricchiolio della ghiaia sul sentiero dinanzi alla fila di costruzioni nuove, color mattone. Un tempo c’era un campo laggiù e loro solevano giocarci ogni sera, insieme agli altri ragazzi del quartiere. Poi l’aveva comprato un tale di Belfast e ci aveva costruito delle case; non misere casupole nere come le loro, ma case chiare in mattoni, dal tetto lucente. Tutti i ragazzi del viale avevano giocato in quel campo: i Devine, i Water, i Dunn, il piccolo Keogh lo zoppo e lei coi suoi fratelli e sorelle. Solo Ernest non ci giocava: era troppo grande. Spesso veniva il padre a scacciarli di là col suo bastone di pruno, ma di solito il piccolo Keogh stava di guardia e chiamava non appena lo vedeva arrivare. Eppure parevan bei tempi quelli! Il padre non era ancora così cattivo e la mamma era ancora viva. Molti anni erano passati da allora: adesso lei e i suoi fratelli e sorelle s’erano fatti grandi e la mamma era morta. Anche Tizzie Dunn era morto e i Water erano tornati in Inghilterra. Come tutto cambia! Toccava a lei ora d’andarsene come gli altri, lasciare la casa. La sua casa! Si guardò attorno nella stanza fissando ad uno ad uno gli oggetti familiari che in tutti quegli anni aveva spolverato regolarmente una volta alla settimana, domandandosi sempre da dove poteva venire tanta polvere. Forse non li avrebbe più visti quegli oggetti, dai quali mai aveva immaginato di doversi separare un giorno. Nonostante ne fosse passato del tempo, ancora non era riuscita a sapere il nome del prete la cui fotografia ingiallita pendeva dalla parete sopra l’harmonium scordato, accanto alla stampa a colori dei voti dedicati alla Beata Margherita Maria Alacoque. Era stato un compagno di scuola del padre e ogni volta che questi mostrava il ritratto a un visitatore non mancava d’accompagnare il gesto con una parola casuale: - È a Melbourne adesso. 24
  • 25. Sì, aveva acconsentito ad andarsene, a lasciare la casa. Ma era ragionevole da parte sua? Si sforzava di prendere in considerazione ogni lato del problema. Lì almeno non le sarebbero mai mancati cibo e alloggio; né, quel che più conta, le persone che era avvezza a vedersi intorno sin dalla nascita. Certo doveva lavorare, e lavorare sodo, sia in casa che fuori. Chissà cosa avrebbero detto ai Magazzini quando si fosse risaputo che era scappata con un giovanotto? Le avrebbero dato della scema, forse, e messo un annuncio sul giornale per sostituirla. Sarebbe stata contenta la signorina Gavan. Non le aveva mai risparmiato le sue stoccate, specie se c’era gente che sentiva. - Non vedete che le signore aspettano, signorina Hill? - Ma svegliatevi signorina Hill, fatemi il piacere... Non c’era da piangerci davvero a lasciare i Magazzini. Nella casa nuova però, in un paese lontano e sconosciuto, non sarebbe andata così. Sarebbe stata una donna maritata lei, Eveline, e la gente le avrebbe usato rispetto. Non si sarebbe lasciata trattare come sua madre, no. Ancora adesso, per quanto avesse già diciannove anni compiuti, le avveniva a volte di temere la violenza paterna. Era stata questa paura, lo sapeva, a farle venire le palpitazioni. Prima, quando erano ancora piccoli, il padre non si sfogava mai su di lei come su Harry e Ernest, perché era una ragazza; ma in seguito aveva cominciato a minacciarla e a dirle che, se non fosse stato per la memoria di quella buon’anima di sua madre, non avrebbe mancato di darle il fatto suo. E ora non c’era più nessuno a proteggerla. Ernest era morto e Harry che faceva il decoratore di chiese, era sempre via, lontano da casa. C’erano poi le eterne discussioni per i soldi, il sabato sera; discussioni che la sfinivano. Dava lo stipendio intero in famiglia - sette scellini alla settimana - e Harry mandava quanto poteva; ma il guaio era cavarli al padre, i quattrini. Era una spendacciona, le diceva, una scervellata e non se la sentiva lui di darle i soldi guadagnati con tanta fatica per vederli buttare dalla finestra; questo e altro le diceva, perché era sempre di cattivo umore il sabato sera. Alla fine però glieli dava e le chiedeva se non aveva per caso l’intenzione di comperare qualcosa per il pranzo della domenica. Così le toccava scappar via a fare la spesa, aprendosi la strada a gomitate fra la folla, il borsellino di pelle nera stretto nel pugno, per rincasare poi, tardi, carica di provviste. C’era da faticare, è vero, a tenere in ordine le stanze e a stare attenta che i due fratellini 25
  • 26. minori, affidati alle sue cure, andassero a scuola ogni mattina e avessero di che mangiare. Un lavoro duro, sì, una vitaccia; eppure, ora che stava per lasciarla, già non la trovava più così insopportabile. Ne avrebbe cominciata un’altra, adesso, con Frank. Era buono e forte Frank, e di cuore generoso. Sarebbe andata via con lui quella sera, col piroscafo della notte. Sarebbe andata via per diventare sua moglie e vivere con lui a Buenos Aires nella casa che l’aspettava. Come ricordava bene la prima volta che l’aveva visto! Aveva preso alloggio in una casa sulla strada principale, dove lei aveva degli amici. Le pareva fossero passate poche settimane da allora. Stava sul cancello, il berretto tirato all’indietro sulla nuca e i capelli che gli ricadevano a ciocche sulla fronte abbronzata. Poi si erano conosciuti. Ogni sera andava a prenderla all’uscita dei Magazzini e l’accompagnava fino a casa. Una volta l’aveva anche portata a sentire “La ragazza di Boemia” e a lei era parso un sogno potersene stare lì fianco a fianco, a teatro, in posti che non le erano abituali. Gli piaceva la musica a Frank e sapeva anche cantare. Tutti erano al corrente del loro amore e così quand’egli cantava la canzone della ragazza innamorata del marinaio, Eveline non poteva fare a meno di sentire un certo dolce imbarazzo. La chiamava Poppy, tanto per ridere. In principio l’idea di avere un corteggiatore le aveva dato alla testa, ma poi s’era messa a volergli bene sul serio. Le parlava di paesi lontani, di come avesse cominciato da mozzo, a una sterlina al mese, su una nave della linea Allan che andava al Canada. E le diceva i nomi delle altre navi su cui era stato e dei diversi servizi, le raccontava di quando aveva passato lo Stretto di Magellano e le sue mirabolanti avventure coi selvaggi. Aveva avuto fortuna a Buenos Aires, diceva, e in patria c’era tornato solo per godersi una vacanza. Naturalmente il padre era venuto a saperlo e le aveva proibito d’avere a che fare con lui. - Li conosco, va’ là, questi marinai! - aveva detto. Un giorno avevano litigato, Frank e il padre, e da allora avevano dovuto vedersi di nascosto. La sera s’andava infittendo sul viale e il bianco delle due lettere che aveva in grembo, si faceva indistinto. Una era per Harry, l’altra per il padre. Il suo prediletto, veramente, era stato Ernest, ma anche a Harry voleva bene. Aveva notato che in quegli ultimi tempi il padre era un po’ invecchiato; avrebbe sentito la sua mancanza. Anche lui a volte sapeva essere gentile. Non molto tempo prima, 26
  • 27. un giorno che era stata a letto, malata, s’era messo a leggerle una storia di fantasmi e le aveva abbrustolito il pane sul fuoco. Un’altra volta, quando ancora era viva la madre, erano andati tutti insieme a far merenda sulla collina di Howth e ricordava com’egli si fosse messo in testa il cappellino della moglie, per farli divertire. Il tempo passava ma lei rimaneva lì seduta presso la finestra, la testa appoggiata contro le tendine e l’odore polveroso del “crétonne” nelle narici. Giù dal viale saliva il suono di un organetto. Lo conosceva quel motivo. Strano che venisse proprio quella sera a rammentarle la promessa fatta alla madre, la promessa di tenere insieme la famiglia fintanto che avesse potuto. Le tornò a mente l’ultima notte della sua malattia. Si rivide nella stanza buia, chiusa, in fondo al corridoio: da fuori giungeva il melanconico suono dell’organetto. Avevano dato sei “pence” al sonatore, perché se ne andasse. E ricordava il padre che tornava in punta di piedi nella camera dell’ammalata dicendo: - Dannati italiani! Proprio qui debbono venire! E mentre stava lì a meditare, la penosa visione della vita della madre operava nel più profondo del suo essere una specie di maleficio; una vita di sacrifici meschini conclusasi nella pazzia finale. Tremò riudendo la voce materna ripetere con vuota insistenza: - Derevaun Seraun! Derevaun Seraun! S’alzò di scatto, sotto l’impulso del terrore. Fuggire! Fuggire doveva! Frank l’avrebbe salvata. Le avrebbe dato vita e forse anche amore. E voleva vivere lei! Perché avrebbe dovuto essere infelice? Anche lei aveva diritto alla felicità. E Frank l’avrebbe presa fra le braccia, l’avrebbe stretta fra le braccia, l’avrebbe salvata. Era alla stazione di North Wall, in mezzo alla folla ondeggiante. Egli la teneva per mano ed essa sapeva che le stava parlando, che le ripeteva qualche cosa sulla traversata. La stazione era piena di soldati coi loro bagagli scuri e attraverso le ampie porte della tettoia si scorgeva a tratti, oltre la murata della banchina, la massa immobile e nera della nave, con gli oblò illuminati. Taceva. Si sentiva le guance pallide e fredde e in quel groviglio di disperazione pregava Iddio 27
  • 28. d’illuminarla, di mostrarle qual era il suo dovere. Il lungo, lamentoso fischio della sirena tagliò la nebbia. Se partiva, domani si sarebbe trovata in alto mare, con Frank, diretta a Buenos Aires. Avevano già fissato i posti. Come poteva tirarsi indietro dopo tutto quel che aveva fatto per lei? Lo sgomento le dette quasi un senso di nausea: continuava a muovere le labbra in tacita e fervida preghiera. Una campana le rintoccò sul cuore. Senti ch’egli l’afferrava per mano. - Vieni! Tutti i mari del mondo le s’infrangevano sul cuore. E lui la trascinava dentro, la voleva annegare. Con ambo le mani s’aggrappò alla cancellata. - Vieni! No! no! no! Era impossibile. Le mani strinsero frenetiche le sbarre. E dal fondo dei mari ella alzò un grido d’angoscia. - Eveline! Evy! Lo vide correre di là dai cancelli, chiamandola perché lo seguisse. Gli gridarono di andare avanti ma egli continuava a chiamarla. Volse allora verso di lui la faccia pallida, passiva, come un povero animale impotente, e i suoi occhi non gli diedero alcun segno d’amore o di addio o di riconoscimento. 28
  • 29. Dopo la corsa Le macchine puntavano in corsa su Dublino filando come proiettili nel solco della Naas Road. Lungo la cresta della collina di Inchicore si erano raccolti gruppi di spettatori per assistere al ritorno e attraverso questo canale di povertà e d’inerzia fluiva l’industria e la ricchezza del continente: di tanto in tanto dalla folla s’alzava l’applauso di gratitudine dell’oppresso. Le simpatie, però, andavano tutte alle macchine azzurre, le macchine dei loro amici, i francesi. I francesi, del resto, virtualmente almeno, potevano considerarsi i vincitori. La loro squadra aveva concluso in bellezza: si erano piazzati al secondo e terzo posto e pareva inoltre che il guidatore della macchina tedesca vincente fosse un belga. Ogni macchina azzurra, così, arrivando in cima alla collina, riceveva doppia dose di evviva e da parte di quelli che erano dentro ogni evviva veniva accolto con sorrisi e cenni del capo. In una di queste automobili di gran modello c’era una combriccola di quattro giovanotti il cui buonumore in quell’occasione superava di molto quello solito dei francesi quando vincono; i quattro giovanotti, di fatti, esultavano addirittura. Si trattava di Charles Segouin, il proprietario della macchina; André Rivière, un giovane elettrotecnico nato nel Canada; un ungherese grande e grosso a nome Villona e un giovanottino ben vestito, certo Doyle. Segouin era di buonumore perché aveva ricevuto ordinazioni del tutto inattese (stava per fondare una fabbrica di automobili a Parigi) e Rivière lo era perché di questa fabbrica sarebbe stato il direttore: entrambi inoltre (erano cugini) si compiacevano del successo delle macchine francesi. Villona poi era soddisfatto perché aveva pranzato bene, nonché per un innato ottimismo e in quanto al quarto membro della compagnia si trovava in uno stato di troppa eccitazione per potersi dire genuinamente felice. Doveva essere sui ventisei anni circa e aveva morbidi baffi castano chiaro e occhi grigi dall’espressione piuttosto ingenua. Suo padre pur iniziando la carriera da acceso nazionalista, non aveva tardato a mutare opinione. I primi soldi se li era guadagnati facendo il macellaio a Kingstown e a forza di aprir botteghe in Dublino e dintorni aveva addirittura moltiplicato il patrimonio. Gli era anche capitata la fortuna di metter le mani su certi appalti vantaggiosi e in conclusione era 29
  • 30. diventato così ricco che i giornali cittadini alludevano a lui come a un re del commercio. Aveva mandato il figlio prima in Inghilterra a compiere la sua educazione in un noto collegio cattolico, e poi all’Università di Dublino a studiarvi legge. Ma Jimmy non prendeva lo studio sul serio e per un po’ di tempo s’era dato ai bagordi. Lo conoscevano tutti laggiù e i quattrini non gli mancavano: strano a dirsi, divideva il suo tempo fra i circoli automobilistici e quelli musicali. In seguito l’avevano mandato a Cambridge per un trimestre, perché si godesse un po’ di vita e il padre che pur fra le rimostranze si sentiva in fondo in fondo orgoglioso degli eccessi del figlio, saldati tutti i conti, se l’era poi riportato a casa. Era stato a Cambridge che aveva incontrato Segouin e per quanto non fossero ancora nulla più di semplici conoscenze, Jimmy trovava gran piacere nella compagnia di un giovane che aveva già visto tanto mondo e che per di più era ritenuto proprietario di alcuni fra gli alberghi più lussuosi e rinomati di Francia. Un tipo simile (anche suo padre era d’accordo), anche non fosse stato quel simpaticone che era, poteva ben dirsi degno d’amicizia. Anche Villona dal canto suo, non mancava d’interesse. Era un pianista di talento, ma, disgraziatamente assai povero. La macchina continuava a correre col suo carico di festosa gioventù. I due cugini sedevano davanti e Jimmy con l’amico ungherese, dietro. Villona decisamente era d’umore eccellente; per miglia e miglia seguitò a mugolare un motivo fra sé, con la sua voce fonda di basso. I francesi invece gettavan frizzi e risate di sopra le spalle e Jimmy doveva chinarsi in avanti se voleva afferrarne il senso; còmpito non troppo piacevole perché quasi sempre gli toccava di buttarsi a indovinare, sforzandosi a gridare controvento la risposta adatta. Il mugolio di Villona, poi, avrebbe confuso chiunque; senza contare il rumore del motore. La rapida corsa dà sempre un senso di ebbrezza, allo stesso modo che la fama e il denaro: eccellenti motivi tutti e tre per spiegare l’eccitazione di Jimmy. Molti amici lo avevano visto quel giorno in compagnia dei continentali. Al traguardo Segouin lo aveva presentato a uno della squadra francese e in risposta al suo imbarazzato mormorio di complimento la faccia sudata del corridore aveva dischiuso una fila di denti abbaglianti. Era stato bello, dopo un simile onore, tornarsene nella folla anonima degli spettatori fra colpi di gomito e occhiate significative. Quanto poi al denaro ne aveva già a disposizione una bella somma. Per Segouin forse non lo sarebbe stata ma, nonostante i passeggeri errori, Jimmy 30
  • 31. si serbava nel fondo erede di ben solidi istinti, e sapeva quanto era stato difficile metterli insieme quei soldi: consapevolezza che già prima aveva trattenuto le sue spese nei limiti di una ragionevole disinvoltura; e se della fatica inerente al denaro già era consapevole prima, quando non si trattava che di capricci da raffinato, tanto più se ne rendeva conto adesso che stava per mettere a rischio la maggior parte della sua sostanza. Una cosa seria per lui! Certo l’investimento era buono e Segouin si era condotto in modo di dar l’impressione che solo grazie all’amicizia quell’esigua parte di denaro irlandese sarebbe stata accolta nel capitale della società. Jimmy teneva assai conto dell’abilità paterna in fatto d’affari e in questo caso era stato proprio il padre a suggerire per primo l’investimento: c’era da far quattrini con l’industria automobilistica, quattrini a palate. Segouin inoltre aveva indiscutibilmente l’aria del riccone. Jimmy prese senz’altro a tradurre in termini di lavoro quotidiano la macchina principesca in cui era seduto. Come filava liscia e spedita! E con che stile si erano slanciati a corsa per le strade! Il viaggio posava un magico dito sul genuino polso della vita e coraggiosamente il complicato meccanismo dei nervi umani cercava d’adeguarsi ai balzi impetuosi del veloce animale azzurro. Svoltarono in Dame Street. C’era un insolito traffico nella via, in cui risuonavano lo strombettio degli autisti e lo scampanellare dei tranvieri impazienti. Vicino alla Banca, Segouin fermò e Jimmy e l’amico scesero. Subito sul marciapiede si radunò un gruppetto di gente per rendere omaggio al motore rombante. Avrebbero cenato tutti Insieme all’albergo di Segouin quella sera e nel frattempo Jimmy e Villona, che era suo ospite, sarebbero andati a casa a vestirsi. Mentre la macchina virava adagio in direzione di Grafton Street i due giovani s’aprirono la strada nel gruppo dei curiosi. Andavano verso nord provando uno strano senso d’impaccio nel camminare e sopra di loro nella nebbia della sera estiva la città appendeva pallidi globi di luce. In casa di Jimmy questa cena veniva considerata un avvenimento. Nei suoi genitori l’orgoglio si mischiava alla trepidazione nonché a un certo desiderio di buttar polvere negli occhi: merito anche questo da ascriversi al nome delle grandi città straniere. Lo stesso Jimmy del resto, vestito che fu, faceva la sua figura, e mentre indugiava nell’atrio dandosi l’ultimo ritocco al nodo della cravatta, suo padre anche dal lato commerciale non poteva che ritenersi soddisfatto di aver assicurato al figliolo qualità sovente impossibili a comprarsi. Il pover’uomo d’altra 31
  • 32. parte si sfogava dimostrandosi nei riguardi di Villona insolitamente amichevole e il suo contegno esprimeva un vero e proprio rispetto per la cultura straniera; tutte finezze ch’era probabile andassero completamente perdute agli occhi dell’ungherese il cui desiderio della cena si faceva man mano sempre più vivo. Fu in realtà una cena eccellente, squisita. Segouin, decise Jimmy, doveva avere un gusto fra i più raffinati. Alla combriccola s’era aggiunto adesso un giovane inglese, certo Routh, che Jimmy aveva visto a Cambridge con Segouin. La stanza in cui cenarono era comoda, illuminata a candele elettriche e i discorsi liberi e variati. Jimmy, cui s’era accesa la fantasia, si spinse ad un’ardita immagine della giovane vitalità francese elegantemente allacciata alla solida cornice dell’educazione anglo-sassone: immagine a suo giudizio non priva di grazia e appropriata. Ammirava l’abilità con cui l’ospite sapeva dirigere la conversazione. I cinque giovanotti avevano gusti diversi e la parlantina si era sciolta a tutti. Villona con immenso rispetto s’adoperava a svelare al semplice Routh che lo ascoltava stupito, le bellezze del madrigale inglese, deplorando che gli antichi strumenti fossero caduti in disuso: mentre Rivière dal canto suo e non del tutto ingenuamente, iniziava a beneficio di Jimmy il panegirico delle industrie meccaniche francesi. La sonora voce del musicista stava per prendere il sopravvento nella mordace critica ai falsi liuti dei pittori romantici, allorché Segouin intervenne avviando i commensali in una discussione politica. Qui si trovarono tutti a proprio agio. Sotto quelle influenze generose, Jimmy si sentì risvegliare dentro l’ormai sepolto entusiasmo paterno e alla fine riuscì a scuotere dal suo torpore perfino Routh. Il calore della stanza raddoppiò e il còmpito di Segouin si fece sempre più difficile: c’era rischio di passare addirittura alle offese personali. Alla prima occasione però l’ospite accorto levò il calice all’Umanità e finito il brindisi aprì con gesto significativo una finestra. La città quella notte s’era mascherata da grande metropoli. I cinque giovanotti procedevano lungo lo Stephen’s Green, avvolti in odorose nuvole di fumo. Parlavano a voce alta e allegra, i mantelli penzolanti dalle spalle, e la gente si scostava per lasciarli passare. All’angolo di Grafton Street un ometto grasso aiutava due belle signore a salire in vettura affidandole alle cure di un altro grassone. La macchina si avviò e l’ometto scorse la gaia brigata. - André! 32
  • 33. - È Farley! Ne seguì un torrente di parole. Farley era americano. Nessuno si rendeva conto di che cosa si stesse parlando. Villona e Rivière erano i più chiassoni, ma anche gli altri parevano eccitatissimi. Salirono tutti insieme in una macchina, pigiandosi fra le risate, e al suono di un’allegra musica di campane, tagliarono la folla fusa adesso in scialbature di colore. Presero il treno a Westland Row e in pochi secondi, così almeno parve a Jimmy, arrivavano alla stazione di Kingstown. Il controllore, un vecchio, lo salutò: - Felice notte, signore! Era una quieta sera estiva. Come uno specchio abbrunato il porto giaceva ai loro piedi. Vi si diressero tenendosi a braccetto: cantavano in coro “Cadet Roussel” e ad ogni «“Ho! ho! hoé vraiment!”» battevano il piede. Al molo salirono in una barca e puntarono verso lo “yacht” dell’americano. Là ci sarebbe stata cena, musica e carte. Villona disse convinto: - Sarà delizioso! C’era un pianoforte nella cabina. Villona suonò un valzer per Farley e Rivière: Farley faceva da cavaliere e Rivière da dama. Poi improvvisò una quadriglia e i ballerini si diedero a inventare le più strane figure. Che divertimento! Jimmy prendeva sul serio la sua parte: quella sì ch’era vita! Alla fine Farley gridò senza fiato: - Alt! - Venne servito un leggero spuntino e pro forma i giovani si sedettero a tavola. Bevvero però: era vino di Boemia. Brindarono all’Irlanda, all’Inghilterra, alla Francia, all’Ungheria, agli Stati Uniti d’America. Jimmy fece un discorso, un lunghissimo discorso e ad ogni pausa Villona interveniva gridando: - Bravo! Bravo! - Lo applaudirono tutti quando si sedette. Doveva essere stato un bel discorso. Farley gli dava gran manate sulle spalle e rideva forte. Che mattacchioni! Che simpatica compagnia! Carte! Carte! La tavola fu sparecchiata. Villona se ne tornò calmo calmo al pianoforte e si mise a improvvisare. Gli altri intanto giocavano una partita dopo l’altra buttandosi a capofitto nell’avventura. Brindarono alla regina di cuori e a quella di quadri. Jimmy sentiva oscuramente la mancanza di un uditorio: la tensione era al colmo. Si giocava forte ora e i conti s’allungavano. Jimmy non riusciva nemmeno a capire con precisione chi fosse a vincere, ma sapeva che lui perdeva. Tutta colpa sua del resto, perché spesso sbagliava le carte ed erano gli altri a dovergli fare il conto di quanto doveva. Diavoli di ragazzi! Avrebbe voluto 33
  • 34. che smettessero, però: si faceva tardi. Uno brindò allo “yacht”, «La bella di Newport» e un altro propose un gioco in grande, tanto per finire. Il pianoforte taceva: Villona doveva essere andato sul ponte. Fu una partita tremenda. S’interruppero un po’ prima della fine per brindare alla fortuna. Jimmy sapeva che adesso la lotta era fra Segouin e Routh. Che emozione! Si sentiva eccitatissimo e avrebbe perso, naturalmente. Quanto aveva firmato? Gli uomini s’alzarono in piedi per giocare gli ultimi colpi, gridando e gesticolando. Vinse Routh. La cabina rintronò sotto gli applausi e vennero raccolte le carte. Poi si fecero i conti: quelli che avevano perso di più erano Farley e Jimmy. L’indomani gli sarebbe dispiaciuto, lo sapeva, ma adesso era contento d’abbandonarsi, contento dell’oscuro stupore che avrebbe annegato la sua follia. Appoggiò i gomiti sul tavolo tenendosi la testa fra le mani e s’ascoltò il battito delle tempie. La porta della cabina si aprì e apparve l’ungherese in piedi, nel grigio riquadro di luce: - Signori, è l’alba! 34
  • 35. I due galanti La calda, grigia sera d’agosto era scesa sulla città. Un’aria dolce e ferma, ricordo dell’estate, circolava per le vie, e nelle vie con le serrande abbassate per il riposo domenicale, sciamava un’allegra folla variopinta. Dal sommo degli alti pali le lampade splendevano come perle luminose su quella trama viva che mutando incessantemente di colore e di forma mandava su nell’aria calda e grigia della sera un continuo, incessante mormorio. Due giovani scendevano la collina di Rutland Square. Uno di essi stava concludendo giusto allora un lungo monologo e l’altro che camminava sull’orlo del marciapiede e a tratti per la malagrazia del compagno era costretto a sconfinare nella strada, ascoltava intento e divertito. Era un individuo tarchiato e acceso di colore. Portava all’indietro sulla nuca un berretto da marinaio e il discorso cui prestava orecchio gli provocava in viso continui mutamenti d’espressione che a ondate gli s’irradiavano dagli angoli della bocca, degli occhi e del naso. Scoppi di riso convulso lo scuotevano senza posa e ad ogni istante gli occhi, ammiccando compiaciuti, si volgevano alla faccia dell’amico. Una volta o due si raggiustò con una scrollata l’impermeabile che gli pendeva da una spalla alla maniera dei toreador; impermeabile buttato là alla brava e che assieme ai pantaloni e alle scarpe bianche di gomma, esprimeva la gioventù, mentre la persona, rotondeggiante alla vita, i capelli grigi e radi e il viso, ad ogni spegnersi di quelle ondate d’espressione, gli davano un aspetto devastato. Sicuro che fu della fine del racconto rise silenziosamente per mezzo minuto buono, poi disse: - Ah, questo é il colmo! La voce gli suonava priva d’energia e quasi per dare maggior enfasi alle parole, aggiunse con brio: - Proprio il colmo dei colmi! Detto questo ritornò subito serio e silenzioso. Gli s’era seccata la lingua quel pomeriggio a furia di discorrere in una bottiglieria della Dorset Street. Agli occhi della maggior parte della gente, Lenehan era uno scroccone ma, nonostante tale nomea, il suo saper fare e la sua eloquenza 35
  • 36. avevano sempre impedito agli amici di boicottarlo. Aveva un suo modo spavaldo d’aggregarsi ad un crocchio nel bar tenendosene abilmente ai margini finché non veniva incluso nella partita. Un vero e proprio mendicante del divertimento, Lenehan, armato di tutto un repertorio di aneddoti, barzellette e indovinelli e per di più insensibile ad ogni sorta di sgarberie. A nessuno era noto in qual maniera risolvesse il difficile problema dell’esistenza, ma il suo nome, sia pur vagamente, veniva associato a trucchi e scommesse nel campo delle corse. - E dove l’hai pescata, Corley? - domandò. Corley si passò in fretta la lingua sul labbro superiore. - Caro mio, - disse, - una sera me ne andavo giù per Dame Street quando proprio sotto l’orologio della Waterhouse ti vedo un bel bocconcino. Naturalmente, sai come succede, le do la buonasera e così ce ne andiamo a fare quattro passi lungo il canale. Mi raccontò che faceva la serva in una casa di Baggot Street. Le misi un braccio intorno alla vita e per quella sera mi limitai a palparla un po’. Ci demmo appuntamento per la domenica dopo e questa volta ce ne andammo fuori a Donnybrook. Laggiù la portai in un campo. Se la intendeva con un lattaio, m’ha detto... Una bazza, te lo dico io. Sigarette ogni giorno mi porta e in più mi paga il tram all’andata e al ritorno. Una volta m’ha portato anche due sigari di marca, sigari coi fiocchi, sai, di quelli che fumava l’altro... Avevo paura mi restasse incinta, ma conosce il trucco. - Penserà tu la voglia sposare, - osservò Lenehan. - Eh, no, le ho già detto che sono senza lavoro. Le avevo inventato che stavo da Pim. Il mio nome non lo sa: troppo furbo per dirglielo. Ciò non toglie che mi creda un signore... Lenehan si rimise a ridere come prima, senza rumore. - Fra tutte quelle che ho sentito questa le supera tutte, te l’assicuro io. L’andatura di Corley confermò il complimento. Con un dondolìo del coppo massiccio costrinse l’amico a due o tre saltelli, dal marciapiede alla strada e viceversa. Corley era figlio di un ispettore di polizia e dal padre aveva ereditato la sagoma e il modo di camminare. Procedeva eretto, le braccia ciondoloni, oscillando col capo in qua e in là. Aveva un gran testone sferico e unto che gli sudava in tutte le stagioni e il largo cappello rotondo inclinato da una parte dava l’impressione di un bulbo cresciuto su un altro più grosso. Teneva sempre lo sguardo fisso dinanzi a sé, come se stesse in parata, e quando voleva voltarsi a 36
  • 37. guardare qualcuno per strada, gli toccava girarsi con tutto il busto. Al momento era a spasso. Ogni volta che si faceva un posto vuoto, diceva, c’era sempre un amico pronto a metterci una cattiva parola. Spesso lo si vedeva in giro con agenti in borghese, che discorreva fitto fitto. Sapeva il lato oscuro d’ogni questione e su tutto amava dare un giudizio definitivo. Mai che ascoltasse gli altri quando parlava e quasi sempre eran discorsi che vertevano sulla sua persona: quel che aveva detto a un tale e quel che il tale gli aveva risposto e come egli aveva sistemato l’intera faccenda. Riferendo questi dialoghi aspirava la prima lettera del proprio nome all’uso toscano. Lenehan offrì una sigaretta all’amico. Mentre camminavano fra la folla Corley non tralasciava di lanciare sorrisi all’indirizzo delle ragazze che passavano; Lenehan invece teneva fisso lo sguardo sulla gran luna pallida, cerchiata d’un duplice alone e seguiva intento la grigia trama del crepuscolo che le passava lenta sul volto. Alla fine disse: - Dimmi un po’, Corley, sei proprio sicuro di cavartela? Per tutta risposta Corley strizzò un occhio con aria significativa. - Sì, ma credi che lei ci stia? - chiese Lenehan dubbioso. - Con le donne non si sa mai. - Ci starà, ci starà, non dubitare. So da che verso prenderla caro mio. Ha un po’ perso la testa, capisci? - Ah, sei proprio quel che si dice un gaio Lotario, - esclamò Lenehan. - Il vero tipo del Lotario, anzi. Una sfumatura d’ironia attenuava la servilità dei suoi modi. Come via di scampo era uso lasciare la lusinga sempre aperta a un’interpretazione mordace. Ma Corley non era di mente così sottile. - Credi a me, ci vuol poco per fare colpo su una serva, - dichiarò. - Per chi le ha già provate tutte, magari. - Sai, prima anch’io andavo a spasso con le ragazze per bene, - disse Corley con l’aria di confidarsi. - Ragazze del South Circular, non so se mi spiego. Le portavo fuori in tram e pagavo io, oppure le conducevo a teatro o a sentire la banda e compravo cioccolatini, dolci e così via. Insomma ci spendevo fior di quattrini, - aggiunse in tono convincente, quasi fosse certo di non essere creduto. Ma Lenehan poteva ben credergli; assentì grave. - Conosco il gioco. Un gioco da cretini. - Già. E sia dannato se ci ho mai ricavato nulla. 37
  • 38. - Idem per me. - Una soltanto... Corley s’inumidì il labbro con la lingua e gli occhi gli s’accesero al ricordo. Fissava anche lui il pallido disco lunare ora già quasi interamente coperto, e pareva immerso in profonde meditazioni. - Peccato, era in gamba, - disse con rimpianto. Tacque di nuovo, poi aggiunse: - Fa il marciapiede adesso. L’ho vista una sera in automobile giù per Earl Street, in compagnia di due giovanotti. - Colpa tua, probabilmente, - disse Lenehan. - Ce n’erano stati altri prima di me, - osservò Corley con filosofia. Questa volta però Lenehan era propenso a non credergli. Scosse il capo e sorrise. - A me non la dài a bere, Corley. - Com’è vero Dio. Me lo disse lei stessa. Lenehan ebbe un gesto drammatico. - Mascalzone! - esclamò. Passarono lungo la cancellata del Trinity College e Lenehan saltellò fuori del marciapiede nella strada, per dare un’occhiata all’orologio. - Passati i venti, - disse. - C’è tempo, - fece Corley. - Lei ci sarà già, ma io la faccio sempre aspettare. Lenehan ridacchiò piano. - Perdinci, Corley, sai come trattarle. - Eh, li conosco i loro trucchi, - confessò l’altro. - Ma dimmi, - riprese Lenehan ansioso, - sei sicuro di farcela? È una faccenda delicata. In genere sono maledettamente tirate su quel punto. Eh... cosa? Scrutava con gli occhietti lustri la faccia dell’amico quasi per esserne rassicurato. Ma Corley scosse la testa e aggrottò la fronte, come per scacciare un insetto molesto. - Me la caverò, sta’ tranquillo. Lascia fare a me. Lenehan non replicò. Non voleva s’irritasse e magari lo mandasse al diavolo dicendo che non aveva bisogno dei consigli: tatto, ci voleva. La fronte di Corley però fece presto a spianarsi. I suoi pensieri già seguivano un altro corso. - Un bel bocconcino, - commentò in tono d’intenditore. - Te lo garantisco io. Percorsa la Nassau Street svoltarono in Kildare Street. Non lontano dai portici del club, proprio in mezzo alla via, un arpista suonava fra una cerchia di ascoltatori. 38
  • 39. Pizzicava le corde con aria distratta e di tanto in tanto levava rapido gli occhi in faccia ai nuovi venuti per poi riportarli stancamente al cielo. Incurante che la copertura le fosse scesa ai ginocchi, l’arpa pareva stanca anche lei, sia degli sguardi di quegli estranei, sia delle mani del suo padrone. Una eseguiva nel basso la melodia di “Silent, O Moyle” e ad ogni gruppo di note l’altra scorreva nelle fioriture degli acuti. Il canto emergeva pieno e profondo. I due giovanotti seguitarono per la loro strada senza parlare, inseguiti dalla musica lamentosa. Raggiunto lo Stephen’s Green, attraversarono. Qui il rumore dei tram, la folla e le luci vennero a liberarli dal silenzio. - Eccola! - disse Corley. C’era una ragazza infatti all’angolo della Hume Street. Portava un abito azzurro e un berretto bianco alla marinara e mentre aspettava lì ferma sul marciapiede, con una mano faceva dondolare l’ombrellino. Lenehan si animò. - Lascia che le dia un’occhiata, Corley. Corley lo guardò di sbieco e una smorfia sgradevole gli comparve sul viso. - Di’, niente niente, me la vorresti soffiare? - Per Dio, non pretendo mica che me la presenti! - protestò Lenehan con calore. - Solo un’occhiata. Va’ là, che non te la mangio! - Be’, se è solo per questo, - fece Corley in tono più amabile. - Aspetta che ti dico come... Io m’avvicino e mentre le parlo tu ci passi accanto. - Benissimo. Corley aveva già scavalcato con una gamba le catene quando Lenehan gli gridò: - E dopo? Dove ci troviamo? - Alle dieci e mezzo, - rispose Corley scavalcando anche con l’altra. - Ma dove? - All’angolo di Merrion Street. Ci passeremo al ritorno. - Mi raccomando fai le cose ammodo! - fece Lenehan a mo’ di saluto. Corley non rispose. Traversò lemme lemme la strada dondolando la testa. Il torso massiccio, l’andatura sicura, e il picchio risoluto degli stivali gli davano l’aria del conquistatore. Abbordò la ragazza e senza nemmeno salutarla attaccò subito a discorrere. Lei faceva oscillare più in fretta l’ombrellino e si rigirava a mezzo sui tacchi. Una volta o due mentre egli le parlava sul viso, rise e chinò il capo. Per qualche minuto Lenehan li stette a guardare, ma poi s’avviò rasente le catene e traversò di sbieco la strada. Avvicinandosi all’angolo di Hume Street, sentì l’aria 39
  • 40. greve di profumo e i suoi occhi scrutarono ansiosi la ragazza. S’era messa il vestito delle feste. La sottana di lanetta azzurra era tenuta in vita da una cinta di pelle nera e la grossa fibbia d’argento le comprimeva il mezzo del corpo stringendole come in una morsa il tessuto leggero della camicetta bianca. Sopra indossava un corto giacchetto nero coi bottoni di madreperla e un boa spelacchiato al collo. S’era spiegazzati ad arte gli orli della collaretta di tulle e in petto aveva appuntato un grosso mazzo di fiori rossi coi gambi all’insù. Lenehan ne notò subito con compiacenza il corpo tozzo e muscoloso. Una salute franca e rigogliosa le accendeva il viso, le grasse guance rosse e gli occhi azzurri sfrontati. Aveva fattezze grossolane: le narici larghe, la bocca tumida sempre aperta in una smorfia impudente e i due denti davanti sporgenti. Passando, Lenehan si tolse il berretto e dieci secondi dopo Corley ricambiava un saluto distratto portandosi con gesto vago la mano al cappello e mutandogli di posizione con aria meditabonda. Lenehan proseguì fino allo Shelbourne Hotel e qui si fermò ad aspettare. Dopo un po’ se li vide venire incontro e quando svoltarono a destra li seguì camminando senza rumore con le sue scarpe di gomma lungo un lato della Merrion Square. Mentre camminava così, adagio, regolando il suo passo sul loro, osservava la testa di Corley voltarsi ad ogni istante verso la ragazza come una palla che rotasse su un perno. Li tenne d’occhio finché non li vide salire sul tram di Donnybrook. Allora si rivoltò e rifece la strada per cui era venuto. Adesso che era solo la sua faccia appariva più vecchia. Pareva che ogni allegria lo avesse disertato e costeggiando la cancellata del DukÈs Lawn s’abbandonò a far scorrere la mano lungo le sbarre. Il motivo della canzone suonata dall’arpista cominciava a regolare i suoi movimenti: i piedi calzati di gomma segnavano il tempo e ad ogni gruppo di note le dita indolenti eseguivano variazioni sulla ringhiera. Vagabondò a caso attorno allo Stephen’s Green e poi giù per Grafton Street. Ma per quanto i suoi occhi non tralasciassero di osservare anche nei minimi dettagli la folla che lo circondava, ciò avveniva senza che vi prendesse interesse. Tutto quel che avrebbe dovuto attrarlo gli appariva invece volgare e non riusciva a rispondere agli sguardi che lo invitavano all’avventura. Sapeva che avrebbe dovuto dire chissà quante cose, inventare e far dello spirito e si sentiva gola e cervello troppo aridi per un compito simile. Lo tormentava il problema di come 40
  • 41. avrebbe passato il tempo finché non si fosse ritrovato con Corley. E alla mente non gli venne altra idea che seguitare a camminare. Arrivato all’angolo di Rutland Square svoltò a sinistra e si sentì più a suo agio nella via buia e tranquilla il cui squallore meglio si addiceva al suo stato d’animo. Alla fine si fermò dinanzi alla vetrina di una botteguccia modesta che portava stampato in lettere bianche il nome: «Bibite e liquori». Sul vetro c’erano due scritte svolazzanti: “Ginger beer” e “Ginger ale”, su un gran piatto azzurro era esposto un prosciutto incominciato e accanto, su un altro piatto, un frammento di torta di susine. Per un po’ i suoi sguardi si posarono avidi sul cibo e girato che ebbe un’occhiata circospetta da un capo all’altro della strada, entrò in fretta. Aveva fame perché dalla mattina a colazione, all’infuori ci pochi biscotti servitigli a malincuore da due garzoni svogliati, non aveva mangiato altro. Sedette a un tavolo di legno senza tovaglia di fronte a un meccanico e due operaie. Una ragazza trasandata venne a chiedergli ordini. - Quanto un piatto di piselli? - le domandò. - Un “penny” e mezzo, signore. - Bene, portatemene un piatto e una bottiglia di birra. Parlava grossolano in modo da smentire la sua aria da signore poiché al suo ingresso era seguito un silenzio nel locale. Si sentiva accaldato in viso e per parer naturale si spinse il berretto sulla nuca e piantò i gomiti sul tavolo. Il meccanico e le due operaie lo esaminarono punto per punto prima di riprendere in tono più sommesso il discorso. La serva portò un piatto di piselli caldi conditi con pepe e aceto, una forchetta e una bottiglia di birra. Mangiò il cibo di gusto e lo trovò così saporito che mentalmente prese nota della bottega. Spolverati che ebbe tutti i piselli, sorseggiò pian piano la birra e per un po’ rimase lì seduto pensando all’avventura di Corley. Nella fantasia vedeva la coppia d’amanti passeggiare lungo una strada buia, udiva la voce di Corley profondersi in energiche galanterie e gli riappariva il sorriso impudente della ragazza: visione che riacuiva in lui il senso della propria povertà di spirito e di portafoglio. Era stanco di quel suo vagabondare continuo, di quello stentare la vita a furia d’espedienti e d’intrighi. A novembre avrebbe compiuto trentun anni. Non gli sarebbe mai riuscito dunque di trovare un impiego decoroso? Non avrebbe mai avuto una casa sua? 41
  • 42. Pensò a come sarebbe stato bello avere un fuoco acceso e una buona cena davanti. Da troppo tempo ormai correva le strade con ragazze e amici, e sapeva quanto valessero e le une e gli altri. L’esperienza gli aveva inasprito il cuore contro il mondo, ma ancora non aveva perduto del tutto la speranza. Si sentiva meglio adesso che aveva mangiato, meno stanco della vita e meno abbattuto di spirito. Sì, avrebbe potuto sistemarsi anche lui in qualche cantuccio e vivere in pace, se tanto tanto gli fosse capitata la fortuna d’incontrare una brava figliola, semplice di cuore e con un po’ di soldi da parte. Pagò due “pence” e mezzo alla serva malvestita e uscì dalla bottega per riprendere il suo vagabondaggio. Imboccò Capel Street e si diresse verso la City Hall; poi svoltò in Dame Street. All’angolo di George Street incontrò due amici e si fermò a chiacchierare: era contento di riposarsi della camminata. Gli amici gli chiesero se aveva visto Corley e se c’erano novità. Parlavano poco: con occhio distratto guardavano la gente che passava azzardando ogni poco un commento. Uno disse che un’ora prima aveva visto Mac in Westmoreland Street e a questo Lenehan osservò che era stato con Mac la sera prima, da Egan. Il giovanotto che aveva visto Mac in Westmoreland Street domandò se era vero che avesse vinto dei soldi al bigliardo. Lenehan non lo sapeva: disse che Holohan aveva pagato da bere a tutti, da Egan. A un quarto alle dieci li lasciò e prese su per George Street. Al City Market svoltò a sinistra e imboccò Grafton Street. La folla di giovanotti e ragazze si era diradata e risalendo la strada sentì diverse comitive e coppie che si salutavano dandosi la buona notte. Si spinse fino all’orologio del Surgeons College: suonavano le dieci in punto. Allora s’avviò lungo il lato nord del Green affrettandosi per timore che Corley fosse di ritorno in anticipo. Raggiunto l’angolo di Merrion Street si appostò nell’ombra di un lampione e tirata fuori una delle sigarette che aveva di riserva l’accese. Appoggiato al lampione teneva gli occhi fissi dalla parte da cui si aspettava di veder tornare Corley e la ragazza. Riprese a lavorare di cervello. Si domandava se Corley se l’era cavata e se gliel’aveva chiesto subito o aveva aspettato invece all’ultimo momento. Soffriva insomma tutti i tremori e le ansie sia della situazione dell’amico che della propria. Venne però a rassicurarlo il ricordo delle lente evoluzioni della testa di Corley: se la sarebbe cavata certamente. Lo colpì allora il dubbio che potesse avere accompagnato la ragazza per un’altra strada facendogliela in barba. Appuntò gli 42
  • 43. occhi verso il fondo della via: non si vedeva nessuno. Eppure doveva essere già passata di certo una mezz’ora da quando aveva guardato l’orologio al Surgeons College. Sarebbe stato capace Corley di un’azione simile? Accese l’ultima sigaretta e cominciò a fumarla nervosamente. Aguzzava lo sguardo ogni volta che i tram si fermavano all’angolo della piazza. Dovevano proprio essere tornati a casa per un’altra strada. La carta della sigaretta gli si ruppe e la buttò via con una bestemmia. A un tratto li vide venire alla sua volta. Trasalì di piacere e tenendosi accosto al lampione cercò d’indovinare dalla loro andatura il risultato dell’impresa. Camminavano in fretta, a passettini brevi la ragazza, mentre Corley le teneva dietro col suo passo lungo e deciso. Avevan l’aria di tacere, e un presentimento lo punse. Corley aveva fatto fiasco, lo sapeva: tutto tempo sprecato. Svoltarono per Baggot Street ed egli li seguì subito, prendendo l’altro marciapiede. Quando si fermarono si fermò anche lui. Stettero un po’ lì a confabulare davanti a una casa, poi la ragazza scese gli scalini che portavano in cortile. Corley rimase a poca distanza, sul marciapiede. Passò qualche minuto. La porta d’ingresso si aprì adagio, con cautela. Una donna scese i gradini di corsa e tossì. Corley si voltò e le si accostò. Per pochi secondi la sua figura massiccia la nascose alla vista poi essa riapparve mentre correva su per la scala. La porta si richiuse alle sue spalle e Corley si avviò a passo svelto verso lo Stephen’s Green. Lenehan s’affrettò nella stessa direzione. Cadeva qualche goccia di pioggia. Egli la prese come un avvertimento e data un’occhiata alla casa in cui era scomparsa la ragazza per vedere se non c’era nessuno a osservarlo, traversò correndo la strada. L’ansia e la velocità della corsa lo facevano ansimare. Gridò: - Ehi, Corley! Corley voltò la testa per vedere chi lo chiamava e continuò a camminare come niente fosse. Lenehan gli corse dietro e con una mano si raggiustava l’impermeabile sulle spalle. - Corley! - ripeté. Raggiunse l’amico e lo guardò bene in faccia. Non riuscì a leggervi nulla. - Be’, - chiese. - Com’è andata? Erano arrivati all’angolo di Ely Place. Sempre senza rispondere Corley svoltò a sinistra e risalì la strada laterale. Una calma solenne gli componeva i lineamenti. 43
  • 44. Lenehan gli si teneva a passo, ansando a disagio. Si sentiva tradito e una nota di minaccia gl’incrinò la voce. - Non mi dici nulla? Hai provato? Corley si fermò sotto il primo lampione e guardò fisso dinanzi a sé. Poi con gesto grave tese una mano verso la luce e sorridendo l’aprì adagio allo sguardo del suo discepolo. Una piccola moneta d’oro brillava nel palmo. 44
  • 45. Pensione di famiglia La signora Mooney era figlia di un macellaio: una donna che sapeva il fatto suo, una donna di carattere insomma. Aveva sposato un garzone del padre e aperto una macelleria nei pressi degli Spring Gardens. Appena morto il suocero, però, il signor Mooney cominciò ad andare in rovina. Beveva, spendeva e spandeva, s’ingolfava nei debiti; ed era inutile che facesse promesse: dopo pochi giorni si poteva star sicuri che tornava daccapo. A furia poi di maltrattare la moglie in presenza degli avventori e di comprare carne di pessima qualità finì per screditarsi. Una notte arrivò perfino a minacciare la moglie con la scure e la poveretta dovette rifugiarsi a dormire in casa di un vicino. Dopo di ciò vissero ognuno per conto suo. Lei andò dal prete e ottenne la separazione dal marito e la tutela dei figli. Non volle passargli né soldi, né cibo, né alloggio e per campare egli fu costretto ad arruolarsi nelle guardie municipali. Era un povero ubriacone, curvo e striminzito, con faccia e capelli bianchi e un paio di sopracciglia pure bianche, messe lì a virgola sugli occhietti smorti e venosi. Le sue giornate le passava seduto nell’ufficio di polizia in attesa che gli dessero qualcosa da fare. La signora Mooney invece, la quale col denaro avanzatole liquidata la macelleria, aveva messo su una pensione nella Hardwicke Street, non mancava di una certa imponenza. La sua era una clientela composta da un lato di gente di passaggio - turisti che venivano da Liverpool o dall’Isola di Man, e, occasionalmente, artisti e artiste di caffè-concerto; dall’altro di pensionanti fissi, per la maggior parte impiegati. Abile e ferma essa dirigeva la casa: sapeva quando far credito, quando essere severa e quando chiudere un occhio e i suoi giovani ospiti la chiamavano di comune accordo la «madama». Pagavano tutti per vitto e alloggio quindici scellini la settimana (birra o “stout” durante il pasto, esclusi), e avendo gli stessi gusti e le stesse occupazioni, si divertivano a discutere fra di loro le possibilità di questo o quel favorito, di questo o quel fuoriclasse, e nel complesso erano piuttosto affiatati. Jack Mooney, figlio di «madama» e impiegato in un’agenzia della Fleet Street, aveva, da parte sua, fama d’essere un brutto tipo. Si compiaceva di usare il gergo 45