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Autentico, tipico, etnico, ludico
Appunti di viaggio sull’esperienza del cibo
Di Enrico Viceconte, Stoà

24 Giugno 2003
Riprendo gli appunti presi un anno, fa per il seminario di Morcone, scrivendo su
un volo Air France. Sono diretto a Los Angeles con un gruppo di imprenditori
agroalimentari campani. Una missione progettata con la Fiera di Milano:
vogliamo studiare le opportunità del mercato americano, incontrare degli
importatori e visitare il Fancy Food Show. Il volo dura circa dodici ore e la
compagnia aerea ce la mette tutta a rendere il viaggio piacevole, ovvero, come si
dice oggi, a lasciare nei viaggiatori un’”esperienza” piacevole, se possibile
“indimenticabile”, in modo da assicurarsi la preferenza del cliente alla prossima
occasione. Il compito del design dei servizi, in questo caso, consiste
nell’affrontare due problemi: 1) distinguere la propria offerta da quella di
qualunque altro concorrente che, più o meno, usa gli stessi velivoli, le stesse
tecnologie e gli stessi modi “internazionali” di trattare il cliente; 2) controllare la
curva del piacere/umore del viaggiatore sottoposto, in un aereo in volo
sull’oceano, ad una sorta di prolungata deprivazione sensoriale che lo induce, tra
l’altro, ad una straordinaria attenzione ai particolari e quindi anche ai minimi
difetti del servizio.
Riguardo al problema della differenziazione, ogni compagnia ha correttamente
studiato il proprio posizionamento strategico (ad esempio essere compagnia di
bandiera, economica, business ecc.), ha sintetizzato le scelte di fondo in un
mission statement, ha stabilito come servire i diversi segmenti di mercato
(frequent flyer, turisti, viaggiatori occasionali, business men) e ha progettato il
modello di servizio, le tariffe, l’immagine coordinata e la comunicazione. A bordo
la differenziazione, per una certa tipologia di servizio, sembra ridursi alle divise
del personale, alla scelta delle tappezzerie delle poltrone, all’offerta di prodotti sul
catalogo, al menù dei pasti serviti e ad alcuni servizi accessori. Ma in fondo un
volo sull’Atlantico è sempre un volo sull’Atlantico e pregi e difetti di un vettore
sono compensati da altrettanti pregi e difetti dell’altro vettore. All’esperienza, da
parte del cliente, di Air France o di Alitalia contribuiscono tanto il servizio quanto
l’immagine che il brand della compagnia riesce a suscitare che, per una
compagnia “di bandiera”, si tinge dei colori del paese d’origine: un filtro attraverso
il quale l’esperienza viene letta, vissuta e ricordata. Le sfumature “etniche”, che
servono per la caratterizzazione più che per la differenziazione del servizio, sono
il frutto di una distillazione della parte positiva dell’immagine internazionale del
paese: giusto una spruzzatina di “tipicità” su un servizio che non può che essere
standardizzato. Mangiando il gâteau servito nel vassoietto mi domando: cosa è
tipico della Francia? Cosa è tipico dell’Italia: il risotto o la pasta con le sarde?
Nell’incertezza, quello che viene fuori è qualcosa che corrisponde vagamente ad
una rappresentazione sbrigativa e “intermedia”. L’aereo, come tutti i luoghi di
transito con elevato contenuto funzionale o i mezzi di trasporto (“nonluoghi” per
antonomasia), non può che in minima parte fornire esperienze sapide, tipiche,
etniche: l’ingegneria che prevale sull’ingenium locale; l’internazionalizzazione che
annacqua il carattere e il sapore dell’esperienza; l’analisi dei costi che prende il
controllo delle scelte.




                                                                                      1
I teorici dell’ “economia delle esperienze” hanno spiegato che il valore del bene e
del servizio offerto è qualcosa di più di una “stima” da parte del potenziale cliente
ed è il risultato di un’immagine mentale del prodotto e della sua marca che si
costituisce come esperienza (1). I prodotti e i servizi dovrebbero dunque essere
progettati per costruire tale esperienza di valore che, come si può immaginare,
ha una estensione nel tempo, una persistenza, un “retrogusto” che supera il
momento dell’utilizzo ma, attraverso la marca, rimane impressa nel consumatore.
Sorvoliamo il Canada. Eccolo, il vassoietto del pranzo: è il divertimento di una
mensa in miniatura perfettamente completa (una tavola giocattolo) e un puzzle di
contenitori: le scodelline, i bicchieri che si incastrano perfettamente occupando il
minimo spazio. La qualità del cibo importa meno dell’assortimento sensoriale e
della minutezza delle cose. Una scodellina caldissima di carne con le patate è
vicino al contenitore gelido e appannato dell’acqua, il dolcetto e il pezzetto di
burro nella carta dorata. C’è un non so che di francese nel vassoietto Air France:
lo cerco tra le scatoline, sorseggiando, per fortuna, del vino rosso di buona
qualità.
Roland Barthes ha parlato della scrittura di Brillat-Savarin sull’esperienza del
cibo: la descrizione di una progressione per gradi, di perfezionamento
progressivo dell’esperienza: come nella descrizione della degustazione del vino
in cui progressivamente, la vista, l’olfatto, la punta della lingua, il resto della
lingua, il palato e così via, costruiscono l’esperienza nella sua pienezza (2).
Analogamente progressiva è l’esperienza di un banchetto così come è descritta
dal gastronomo francese (3). Un concetto che gli esperti della consumer
research hanno applicato, probabilmente senza conoscere Barthes e Brillat-
Savarin, all’analisi della degustazione delle Pringles, determinando lo stato
d’animo del consumatori di patatine attraverso una curva del piacere/umore (4) e
che, in qualche modo, applicano all’esperienza del punto vendita o di un
ristorante. 1. Pleasure, 2. arousal, 3. dominance, per alcuni studiosi di psicologia
ambientale applicata agli spazi commerciali, questi tre stati rappresentano i
successivi gradi dell’esperienza che porta dal generico piacere di stare in un
negozio, all’eccitazione, al controllo dell’ambiente e delle informazioni presenti
(5). La stessa sequenzialità e gradualità intuita dall’esteta-gastronomo Brillat-
Savarin.
Ogni cultura ha tradizioni millenarie nella progettazione dell’esperienza legata al
cibo. Ciò nonostante gli spazi, i modi, e sopratutto i tempi e le occasioni in cui si
svolge tale esperienza si modificano rapidamente offrendo nuovissime sfide
progettuali. Ad esempio quella del microambiente intorno alla persona che
consuma il pasto: un nomade che si serve da solo, spesso in piedi e con un
tempo ridotto a disposizione o legato al seggiolino di un aereo. Anche in questi
casi molto lontani dai banchetti di Brillat Savarin, l’esperienza, nel suo
svolgimento temporale e nel teatro del luogo di consumo, può essere oggetto di
progettazione.


25 giugno 2003
L’esperienza dell’Italia attraverso il cibo: questo più o meno il concetto che viene
sviluppato sia dai distributori di prodotti alimentari che dai ristoratori.
Un’esperienza che prevede una messa in scena secondo canoni consolidati e
stereotipati. Non importa poi che l’esperienza sia in qualche modo adattata. Dice
l’antropologo La Cecla: “La cucina è la soglia più accessibile di una cultura….




                                                                                   2
Mangiare la cucina degli altri significa attraversare questa soglia. Ma nei ristoranti
“etnici”, nei locali tipici, non è la profondità ad essere richiesta ai clienti.” (7) Nella
missione a Los Angeles, assieme a Dario Rota della Fiera di Milano, ci
proponevamo, come Stoà, un’operazione sull’immagine, e quindi sull’esperienza,
dei prodotti tipici campani: cercavamo una nuova soglia d’accesso. Il concept era
associare il prodotto tipico con il design italiano. Il teatro dell’evento, al quale
sono stati invitati numerosi importatori, è stato l’elegante showroom Boffi Los
Angeles: uno spazio che richiama il nuovo negozio Boffi di via Solferino, firmato
da Lissoni, ma atterrato magicamente tra le palme di Santa Monica. Ovviamente
le cucine esposte hanno consentito a uno chef napoletano venuto con noi,
Giancarlo Schettini, di cucinare i prodotti senza concessioni all’americanità.
Prodotto tipico e design industriale. Un’idea che aveva animato il seminario di
Morcone dello scorso anno.

26 giugno 2003.
Di mattina vado a un caffè della catena
Starbucks. Lo scopo è provare la “Starbucks
Experience” (così la chiamano) e annotare la
successione        degli     stati    d’animo     che
caratterizzano la mia esperienza di consumo.
All’angolo tra uno smisurato Boulevard con
palme e l’aggraziata “terza strada”, la
“Promenade” (che ha un nome francese forse
perché è l’unica strada “europea” in cui si può passeggiare senza automobili e
sedersi ai tavolini), c’è lo Starbucks. Come in tutti gli Starbucks ti accodi a una fila
                               incanalata dai nastri; ordini; il cameriere sorride e ti
                               chiede il nome che scriverà con un pennarello sul
                               bicchiere di carta; paghi e ti sposti al banco vicino alla
                               macchina per il caffè dove l’addetto ha ricevuto il
                               bicchiere col tuo nome e l’ordinazione; lui te lo riempe
                               di caffè o cappuccino bollente e te lo consegna. Se è
                               di buon umore te lo porge sorridendo e dicendo il tuo
                               nome, che legge
                               sul bicchiere, come
                               se ti conoscesse.
                               Poi ti siedi a un
tavolino rotondo tra altre persone che, quasi
tutte, si sono portate del lavoro da casa o
dall’ufficio e, col bicchierone di “Frappuccino”,
scrivono su un laptop PC, leggono dispense
universitarie, riempono pagine di moleskine (i
quadernetti cari a Bruce Chatwin), insomma
fanno qualcosa di “intelligente”. Lo Starbucks
della Third Street di Santa Monica è
perfettamente integrato a una libreria della
Barnes & Noble: l’integrazione funziona nel
senso che puoi portarti il bicchierone del bar
tra gli scaffali oppure un libro o una rivista
della libreria tra i tavolini. Nelle nuove librerie
Feltrinelli o alla FNAC c’è un bar dentro una




                                                                                         3
libreria/media-store; qui bar e libreria sono sul fronte strada, hanno ingressi
separati ma sono comunicanti. Se il tuo laptop è attrezzato di scheda wireless
puoi collegarti alla rete Starbucks e andare su internet. Nessun cameriere verrà
a disturbarti se stai un giorno intero seduto al tavolino.
Se c’è un’azienda di cui gli studiosi di marketing si sono innamorati quella è
Starbucks Coffee: catena di caffetterie nata negli USA e che ha ormai più di 900
punti vendita nel mondo. Un “ambiente narrativo e rituale”, come notano
Carmagnola e Ferraresi, che avvolge l’ “ambiente fisico”, i suoi aromi, i suoni, le
divise del personale eccetera (6).
Tutto sintonizzato ed accostato, tono su tono, ad una mission aziendale che
privilegia alcuni valori “politically correct” (ambiente, etica e senso della
“comunità, accompagnati da informalità e relax). Valori che gli americani
attribuiscono a un piccola città italiana.
Annotava Umberto Eco a proposito della imminente apertura di Starbucks in
Italia: “ … la gente in Italia andrà a prendere un caffè «italiano» agli Starbucks
facendo finta (im-personando) di essere un americano che va allo Starbucks per
«fare finta» di essere un italiano che va al caffè del Municipio…”.
L’esperienza, sulla quale le imprese costruiscono la propria proposizione di
valore, sembra coincidere col teatro. E la ristorazione diventa eater-tainment,
cioè cibo + intrattenimento, per fuggire la noia e riempire i vuoti. Come se
vivessimo in una carlinga d’aereo, nella deprivazione di un non-luogo. Rainforest
Cafè simula la foresta pluviale (con gli animali meccatronici come a Disneyland),
Planet Hollywood ci trasporta nel mondo delle star mentre addentiamo un
panino. Forse il gioco della simulazione sostituirà l’esperienza, a volte aspra,
della diversità. Affacciati sui food court dei centri commerciali, i fast food etnici e
tipici in francising, come nel centro commerciale Santa Monica Place, tenderanno
ad assomigliare a baracche di un lunapark, scegliendo, tra tutti i tipi di esperienza
confezionabili per il cliente, quella ludica. Se l’economia delle esperienze vorrà
condurci per mano come bambini in un mondo di “parchi a tema”, compito
dell’industrial designer sarà invece di inventare ambienti, oggetti e modi di
consumo capaci di lasciare il segno dell’esperienza attraverso la creatività, la
forza espressiva, l’autenticità.



Bbliografia

   (1) B.J.Pine, J.H.Gilmore, L’economia delle esperienze, Etas, Milano, 2000
   (2) R. Barthes, Il brusio della lingua, Einaudi, Torino, 1988
   (3) Brillat-Savarin, La phisiologie du goût, ou Méditations de gastronomie
       trascendante. Paris, 1825
   (4) E.Viceconte, Progettare l’esperienza, Sviluppo e Organizzazione, luglio 2003
   (5) A.Mehrabian, J.A. Russell, An approach to environmental psycology, MIT Press.
       1974, citato da D.Vianelli, Industria e Distribuzione N.1/2001
   (6) F. Carmagnola, M. Ferraresi, Merci di culto, Castelvecchi, Roma, 1999
   (7) F. La Cecla, Il malinteso, Laterza, Bari, 1997




                                                                                     4

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Autentico Tipico Etnico Ludico

  • 1. Autentico, tipico, etnico, ludico Appunti di viaggio sull’esperienza del cibo Di Enrico Viceconte, Stoà 24 Giugno 2003 Riprendo gli appunti presi un anno, fa per il seminario di Morcone, scrivendo su un volo Air France. Sono diretto a Los Angeles con un gruppo di imprenditori agroalimentari campani. Una missione progettata con la Fiera di Milano: vogliamo studiare le opportunità del mercato americano, incontrare degli importatori e visitare il Fancy Food Show. Il volo dura circa dodici ore e la compagnia aerea ce la mette tutta a rendere il viaggio piacevole, ovvero, come si dice oggi, a lasciare nei viaggiatori un’”esperienza” piacevole, se possibile “indimenticabile”, in modo da assicurarsi la preferenza del cliente alla prossima occasione. Il compito del design dei servizi, in questo caso, consiste nell’affrontare due problemi: 1) distinguere la propria offerta da quella di qualunque altro concorrente che, più o meno, usa gli stessi velivoli, le stesse tecnologie e gli stessi modi “internazionali” di trattare il cliente; 2) controllare la curva del piacere/umore del viaggiatore sottoposto, in un aereo in volo sull’oceano, ad una sorta di prolungata deprivazione sensoriale che lo induce, tra l’altro, ad una straordinaria attenzione ai particolari e quindi anche ai minimi difetti del servizio. Riguardo al problema della differenziazione, ogni compagnia ha correttamente studiato il proprio posizionamento strategico (ad esempio essere compagnia di bandiera, economica, business ecc.), ha sintetizzato le scelte di fondo in un mission statement, ha stabilito come servire i diversi segmenti di mercato (frequent flyer, turisti, viaggiatori occasionali, business men) e ha progettato il modello di servizio, le tariffe, l’immagine coordinata e la comunicazione. A bordo la differenziazione, per una certa tipologia di servizio, sembra ridursi alle divise del personale, alla scelta delle tappezzerie delle poltrone, all’offerta di prodotti sul catalogo, al menù dei pasti serviti e ad alcuni servizi accessori. Ma in fondo un volo sull’Atlantico è sempre un volo sull’Atlantico e pregi e difetti di un vettore sono compensati da altrettanti pregi e difetti dell’altro vettore. All’esperienza, da parte del cliente, di Air France o di Alitalia contribuiscono tanto il servizio quanto l’immagine che il brand della compagnia riesce a suscitare che, per una compagnia “di bandiera”, si tinge dei colori del paese d’origine: un filtro attraverso il quale l’esperienza viene letta, vissuta e ricordata. Le sfumature “etniche”, che servono per la caratterizzazione più che per la differenziazione del servizio, sono il frutto di una distillazione della parte positiva dell’immagine internazionale del paese: giusto una spruzzatina di “tipicità” su un servizio che non può che essere standardizzato. Mangiando il gâteau servito nel vassoietto mi domando: cosa è tipico della Francia? Cosa è tipico dell’Italia: il risotto o la pasta con le sarde? Nell’incertezza, quello che viene fuori è qualcosa che corrisponde vagamente ad una rappresentazione sbrigativa e “intermedia”. L’aereo, come tutti i luoghi di transito con elevato contenuto funzionale o i mezzi di trasporto (“nonluoghi” per antonomasia), non può che in minima parte fornire esperienze sapide, tipiche, etniche: l’ingegneria che prevale sull’ingenium locale; l’internazionalizzazione che annacqua il carattere e il sapore dell’esperienza; l’analisi dei costi che prende il controllo delle scelte. 1
  • 2. I teorici dell’ “economia delle esperienze” hanno spiegato che il valore del bene e del servizio offerto è qualcosa di più di una “stima” da parte del potenziale cliente ed è il risultato di un’immagine mentale del prodotto e della sua marca che si costituisce come esperienza (1). I prodotti e i servizi dovrebbero dunque essere progettati per costruire tale esperienza di valore che, come si può immaginare, ha una estensione nel tempo, una persistenza, un “retrogusto” che supera il momento dell’utilizzo ma, attraverso la marca, rimane impressa nel consumatore. Sorvoliamo il Canada. Eccolo, il vassoietto del pranzo: è il divertimento di una mensa in miniatura perfettamente completa (una tavola giocattolo) e un puzzle di contenitori: le scodelline, i bicchieri che si incastrano perfettamente occupando il minimo spazio. La qualità del cibo importa meno dell’assortimento sensoriale e della minutezza delle cose. Una scodellina caldissima di carne con le patate è vicino al contenitore gelido e appannato dell’acqua, il dolcetto e il pezzetto di burro nella carta dorata. C’è un non so che di francese nel vassoietto Air France: lo cerco tra le scatoline, sorseggiando, per fortuna, del vino rosso di buona qualità. Roland Barthes ha parlato della scrittura di Brillat-Savarin sull’esperienza del cibo: la descrizione di una progressione per gradi, di perfezionamento progressivo dell’esperienza: come nella descrizione della degustazione del vino in cui progressivamente, la vista, l’olfatto, la punta della lingua, il resto della lingua, il palato e così via, costruiscono l’esperienza nella sua pienezza (2). Analogamente progressiva è l’esperienza di un banchetto così come è descritta dal gastronomo francese (3). Un concetto che gli esperti della consumer research hanno applicato, probabilmente senza conoscere Barthes e Brillat- Savarin, all’analisi della degustazione delle Pringles, determinando lo stato d’animo del consumatori di patatine attraverso una curva del piacere/umore (4) e che, in qualche modo, applicano all’esperienza del punto vendita o di un ristorante. 1. Pleasure, 2. arousal, 3. dominance, per alcuni studiosi di psicologia ambientale applicata agli spazi commerciali, questi tre stati rappresentano i successivi gradi dell’esperienza che porta dal generico piacere di stare in un negozio, all’eccitazione, al controllo dell’ambiente e delle informazioni presenti (5). La stessa sequenzialità e gradualità intuita dall’esteta-gastronomo Brillat- Savarin. Ogni cultura ha tradizioni millenarie nella progettazione dell’esperienza legata al cibo. Ciò nonostante gli spazi, i modi, e sopratutto i tempi e le occasioni in cui si svolge tale esperienza si modificano rapidamente offrendo nuovissime sfide progettuali. Ad esempio quella del microambiente intorno alla persona che consuma il pasto: un nomade che si serve da solo, spesso in piedi e con un tempo ridotto a disposizione o legato al seggiolino di un aereo. Anche in questi casi molto lontani dai banchetti di Brillat Savarin, l’esperienza, nel suo svolgimento temporale e nel teatro del luogo di consumo, può essere oggetto di progettazione. 25 giugno 2003 L’esperienza dell’Italia attraverso il cibo: questo più o meno il concetto che viene sviluppato sia dai distributori di prodotti alimentari che dai ristoratori. Un’esperienza che prevede una messa in scena secondo canoni consolidati e stereotipati. Non importa poi che l’esperienza sia in qualche modo adattata. Dice l’antropologo La Cecla: “La cucina è la soglia più accessibile di una cultura…. 2
  • 3. Mangiare la cucina degli altri significa attraversare questa soglia. Ma nei ristoranti “etnici”, nei locali tipici, non è la profondità ad essere richiesta ai clienti.” (7) Nella missione a Los Angeles, assieme a Dario Rota della Fiera di Milano, ci proponevamo, come Stoà, un’operazione sull’immagine, e quindi sull’esperienza, dei prodotti tipici campani: cercavamo una nuova soglia d’accesso. Il concept era associare il prodotto tipico con il design italiano. Il teatro dell’evento, al quale sono stati invitati numerosi importatori, è stato l’elegante showroom Boffi Los Angeles: uno spazio che richiama il nuovo negozio Boffi di via Solferino, firmato da Lissoni, ma atterrato magicamente tra le palme di Santa Monica. Ovviamente le cucine esposte hanno consentito a uno chef napoletano venuto con noi, Giancarlo Schettini, di cucinare i prodotti senza concessioni all’americanità. Prodotto tipico e design industriale. Un’idea che aveva animato il seminario di Morcone dello scorso anno. 26 giugno 2003. Di mattina vado a un caffè della catena Starbucks. Lo scopo è provare la “Starbucks Experience” (così la chiamano) e annotare la successione degli stati d’animo che caratterizzano la mia esperienza di consumo. All’angolo tra uno smisurato Boulevard con palme e l’aggraziata “terza strada”, la “Promenade” (che ha un nome francese forse perché è l’unica strada “europea” in cui si può passeggiare senza automobili e sedersi ai tavolini), c’è lo Starbucks. Come in tutti gli Starbucks ti accodi a una fila incanalata dai nastri; ordini; il cameriere sorride e ti chiede il nome che scriverà con un pennarello sul bicchiere di carta; paghi e ti sposti al banco vicino alla macchina per il caffè dove l’addetto ha ricevuto il bicchiere col tuo nome e l’ordinazione; lui te lo riempe di caffè o cappuccino bollente e te lo consegna. Se è di buon umore te lo porge sorridendo e dicendo il tuo nome, che legge sul bicchiere, come se ti conoscesse. Poi ti siedi a un tavolino rotondo tra altre persone che, quasi tutte, si sono portate del lavoro da casa o dall’ufficio e, col bicchierone di “Frappuccino”, scrivono su un laptop PC, leggono dispense universitarie, riempono pagine di moleskine (i quadernetti cari a Bruce Chatwin), insomma fanno qualcosa di “intelligente”. Lo Starbucks della Third Street di Santa Monica è perfettamente integrato a una libreria della Barnes & Noble: l’integrazione funziona nel senso che puoi portarti il bicchierone del bar tra gli scaffali oppure un libro o una rivista della libreria tra i tavolini. Nelle nuove librerie Feltrinelli o alla FNAC c’è un bar dentro una 3
  • 4. libreria/media-store; qui bar e libreria sono sul fronte strada, hanno ingressi separati ma sono comunicanti. Se il tuo laptop è attrezzato di scheda wireless puoi collegarti alla rete Starbucks e andare su internet. Nessun cameriere verrà a disturbarti se stai un giorno intero seduto al tavolino. Se c’è un’azienda di cui gli studiosi di marketing si sono innamorati quella è Starbucks Coffee: catena di caffetterie nata negli USA e che ha ormai più di 900 punti vendita nel mondo. Un “ambiente narrativo e rituale”, come notano Carmagnola e Ferraresi, che avvolge l’ “ambiente fisico”, i suoi aromi, i suoni, le divise del personale eccetera (6). Tutto sintonizzato ed accostato, tono su tono, ad una mission aziendale che privilegia alcuni valori “politically correct” (ambiente, etica e senso della “comunità, accompagnati da informalità e relax). Valori che gli americani attribuiscono a un piccola città italiana. Annotava Umberto Eco a proposito della imminente apertura di Starbucks in Italia: “ … la gente in Italia andrà a prendere un caffè «italiano» agli Starbucks facendo finta (im-personando) di essere un americano che va allo Starbucks per «fare finta» di essere un italiano che va al caffè del Municipio…”. L’esperienza, sulla quale le imprese costruiscono la propria proposizione di valore, sembra coincidere col teatro. E la ristorazione diventa eater-tainment, cioè cibo + intrattenimento, per fuggire la noia e riempire i vuoti. Come se vivessimo in una carlinga d’aereo, nella deprivazione di un non-luogo. Rainforest Cafè simula la foresta pluviale (con gli animali meccatronici come a Disneyland), Planet Hollywood ci trasporta nel mondo delle star mentre addentiamo un panino. Forse il gioco della simulazione sostituirà l’esperienza, a volte aspra, della diversità. Affacciati sui food court dei centri commerciali, i fast food etnici e tipici in francising, come nel centro commerciale Santa Monica Place, tenderanno ad assomigliare a baracche di un lunapark, scegliendo, tra tutti i tipi di esperienza confezionabili per il cliente, quella ludica. Se l’economia delle esperienze vorrà condurci per mano come bambini in un mondo di “parchi a tema”, compito dell’industrial designer sarà invece di inventare ambienti, oggetti e modi di consumo capaci di lasciare il segno dell’esperienza attraverso la creatività, la forza espressiva, l’autenticità. Bbliografia (1) B.J.Pine, J.H.Gilmore, L’economia delle esperienze, Etas, Milano, 2000 (2) R. Barthes, Il brusio della lingua, Einaudi, Torino, 1988 (3) Brillat-Savarin, La phisiologie du goût, ou Méditations de gastronomie trascendante. Paris, 1825 (4) E.Viceconte, Progettare l’esperienza, Sviluppo e Organizzazione, luglio 2003 (5) A.Mehrabian, J.A. Russell, An approach to environmental psycology, MIT Press. 1974, citato da D.Vianelli, Industria e Distribuzione N.1/2001 (6) F. Carmagnola, M. Ferraresi, Merci di culto, Castelvecchi, Roma, 1999 (7) F. La Cecla, Il malinteso, Laterza, Bari, 1997 4