Harvard Businss Review Viceconte Quel nostro contemporaneo di nome Taylor
la politica industriale ai tempi del Tablet
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Industria
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Il libro di Dario di Vico e Gianfranco Viesti ci fornisce un
quadro molto preciso di quanto siano state molto im-
precise, generiche e incerte, in Italia, certe scelte deter-
minanti per la crescita del Paese. Il libro è una ricogni-
zione di taglio giornalistico in grado di farci accorgere di
una svantaggiosa tendenza molto italiana a non portare
a termine progetti, a enunciare
ed esortare più che a concre-
tizzare. Emerge anche che, qui
da noi, non possiamo attribuire
la mancanza di una pianifica-
zione strategica alla scelta le-
gittima di lasciar fare al merca-
to, quanto a un’inammissibile
incapacità italiana di definire
ed eseguire una qualsiasi stra-
tegia.
L’idea di “politica industriale”
ha un’oscillante fortuna critica.
Abbiamo trascorso, fino alla
crisi, una lunga stagione d’im-
popolarità del termine e dei
principi che esso contiene. La
tifoseria del “Mercato” che ritiene inutile o dannosa la
politica industriale, ha per oltre un ventennio messo in
soggezione quella dello “Stato” che auspicava invece
un’attiva e vivace politica industriale. Oggi la politica in-
dustriale torna ad alimentare il dibattito sulla crescita e
s’infoltisce il numero di fautori di un intervento pubblico
mirato e strategico in economia: nel mondo, in Europa e
finalmente, di nuovo, in Italia. Con il perdurare della cri-
si, con l’avvento accelerato delle tecnologie “disruptive”
che cancellano posti di lavoro molto più velocemente di
quanti ne possano ricreare, ritornano anche gli indu-
strialisti convinti e si può parlare di azione pubblica e
politica industriale senza sentirsi statalisti e demodé.
Anzi l’economia industriale mostra soluzioni di politica
industriale avanzate e “sistemiche” adatte alle sfide nuo-
vissime di riconfigurazione delle catene del valore glo-
bali e di creazione di ecosistemi dell’innovazione in cui
si metta in moto il “turbo” della tripla elica costituita dal-
le imprese, dallo Stato e dall’Accademia.
Scrivo “finalmente in Italia” non perché voglio subito
unirmi ai “tifosi” dell’“industrialismo” contro quelli del
“post-industrialismo” o contro gli oltranzisti ultraliberisti
affetti spesso da “anti-industrialismo”, ma perchè ho
l’impressione che il nostro tempo di risposta sia rallen-
tato, oltre che da una carenza di visione sistemica, di
capacità strategica e di “project management”, da una
certa inerzia e da una certa opacità delle posizioni. Il li-
bro di Viesti e di Vico sembra confermarlo.
I segnali di risveglio della politica industriale nel mondo
sono molti. Cominciamo dagli Stati Uniti in cui l’ammini-
strazione Obama ha lanciato due grandi progetti per lo
sviluppo del Paese: “Transatlantic Trade and Investmens
Partnership” (TTIP), per favorire gli scambi commerciali,
e “Manufacturing” anche denominato “Industrial renais-
sance” o, dal MIT, “Making in America”, per favorire il ri-
torno delle fabbriche sul suolo USA.
Del primo progetto si è parlato molto perché i critici cre-
dono che, prevedendo l’abbattimento di molte barriere
normative tra USA ed Europa (anche quelle improntate
a una certa prudenza degli standard di produzione), sia
molto favorevole a un’America che non si cura né di wel-
fare né di garanzia di qualità dei prodotti, poco favore-
vole all’Europa e al suo modello accorto di welfare e di
qualificazione dei prodotti e del tutto sfavorevole all’Ita-
lia e ai prodotti tradizionali di alta qualità delle sue pic-
cole aziende, soprattutto nel-
l’alimentazione. Il secondo pro-
getto riguarda gli investimenti
pubblici per la riscossa del “ma-
nufactured in USA”. I due pro-
grammi, intervenendo indiretta-
mente in modo integrato e innova-
tivo sul Product Lifecycle Mana-
gement (R&D, progettazione ed
engineering, approvvigionamen-
to, produzione, Original Equip-
ment Manufacturing, distribuzio-
ne, servizio) e sulla configurazio-
ne della catena del valore globale,
mettono le premesse per una ridi-
stribuzione internazionale del lavoro
molto favorevole alle capability e agli
obiettivi statunitensi.
Con i due progetti del governo Oba-
ma, uno che rimuove ostacoli e
l’altro che investe nei varchi di
opportunità creati, gli Stati
Uniti vogliono modificare
l’“ecosistema” (soprat-
tutto nell’area atlantica
e con possibili vantag-
gi reciproci, secondo
alcuni, per USA ed
Europa, considerati
“partner”) con l’obiet-
tivo di arrestare il pro-
cesso di deindustrializ-
zazione che, negli USA,
ha visto la quota del pro-
dotto manifatturiero ridursi
dal 15% all’11,6% del
quindicennio 1998-2012,
con la perdita di 5,7 milioni di
posti di lavoro e una crescita
del disavanzo commerciale.
Il risultato atteso per il 2024
è di riportare al 16% il peso
della manifattura nel PIL e la
creazione di 3,7 milioni di po-
sti di lavoro aggiuntivi. C’è da
credere che le riconosciute
capacità di project manage-
ment degli americani diano
una ragionevole confidenza
che gli obiettivi saranno per-
seguiti e raggiunti, anche par-
zialmente, pur alla presenza
dei futuri cambi dell’ammini-
strazione.
Vediamo l’Europa. Nel 2012,
una comunicazione della
Commissione ha sollecitato il
Parlamento Europeo ad ag-
di Enrico Viceconte
Industria
La politica industriale
ai tempi del tablet
Recensione del libro
“CACCIAVITE, ROBOT E TABLET. COME FAR RIPARTIRE LE IMPRESE”
di Dario di Vico e Gianfranco Viesti *
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giornare gli obiettivi della politica industriale comunita-
ria. Nel 2014, alla comunicazione si aggiungeva un me-
morandum intitolato, senza grande fantasia, “For an Eu-
ropean Renaissance” ovvero, nel gergo più antipatico in
uso in Europa, “Industrial Compact”.
Il “Compact” è una proposta di patto volta a mantenere
l’impegno assunto dell’Europa di riportare il peso della
manifattura europea dal 15% al 20% del PIL nei prossi-
mi sei anni. Se si tiene conto che la Germania viaggia
stabilmente con un 22% sin dal 1999, il patto lancia a
tutti gli altri paesi, scesi molto al di sotto del 20%, una
sfida estrema sul piano dell’innovazione, dell’efficienza e
della crescita della produttività.
Passiamo infine all’Italia che, in tema di “rinascimento”,
dovrebbe insegnare e in cui invece, come scrive Confin-
dustria in una nota del 31 gennaio 2014, “la politica in-
dustriale è tuttora assente.” Confindustria scrive proprio
“assente” e non “incerta” o “sfocata”, in un gioco delle
parti in cui tutti bocciano tutti agli esami di maturità. La
sfida del “Compact”, con queste premesse, non è quella
di un rinascimento ma quella di una rivoluzione culturale
che, tra l’altro, dovrebbe provare a rimuovere
una serie di alibi.
Della difficoltà della sfida ci parla il libro di
Viesti (economista industriale) e De Vico
(giornalista) uscito nella collana "Bian-
conero". La battaglia delle idee" de “Il
Mulino”. I due autori sono largamente
d’accordo sul problema italiano e sulle
sue radici storiche, ma divergono sulla ri-
sposta alla domanda che è nel titolo “Come far
ripartire le imprese?” Il libro si divide così in due saggi,
ciascuno dei quali mette argomentazioni ed esempi sul
proprio piatto della bilancia. Insomma più che di una
battaglia tra “bianco e nero”, il libro presenta lodevol-
mente molteplici sfumature e il senso di un equilibrio.
Nel primo piatto della bilancia, Gianfranco Viesti sostie-
ne con convinzione le ragioni e l’importanza dell’azione
pubblica (top-down) per fronteggiare la globalizzazione,
per scetticismo sulla possibilità che il mercato sia capa-
ce “di spingere gli imprenditori a fare investimenti e a
governare l’innovazione”. Nel secondo piatto della bilan-
cia, Dario Di Vico, per scetticismo sulla “capacità dei
soggetti pubblici di operare in una materia così com-
plessa”, mostra invece maggiore fiducia nell’iniziativa e
negli “animal spirit” degli imprenditori italiani (bottom-
up), nell’effetto dell’abbassamento delle tasse e nei
comportamenti di banche e multinazionali.
Il pregio del libro è che le due tesi, invece di contrap-
porsi ideologicamente, escludendosi a vicenda, sembra-
no integrarsi tra loro, superando le faziosità dei “tifosi”
di Coppi o Bartali. Un’ integrazione basata su una pos-
sible composizione degli interessi e dei punti di vista
delle parti, in logica combinata top-down-bottom-up. Va-
le a dire il superamento sistemico della confusione tutta
italiana del cerchio e della botte, oppure della tendenza,
nel dubbio, a non fare alcunchè. Una rinata politica in-
dustriale potrebbe indicare soluzioni nuove e creative, in
logica ambidestra di “Stato e Mercato” più che di “Sta-
to o Mercato” e con la presa d’atto che, in un’ economia
competitiva, convivono il “cacciavite, il robot e il tablet”.
La possibile nuova politica industriale auspicata nel libro
prevede la presenza, in un paese, di molteplici settori in-
dustriali e il presidio, la prossimità e l’integrazione “qua-
si gerarchica” (ovvero di “quasi mercato”), del maggior
numero possibile di segmenti verticali delle Global Va-
lue Chain.
Per restare alla metafora vetero-ciclistica, il libro non
sembra mai abbandonarsi al principio di Bartali che “è
tutto sbagliato, tutto da rifare”, ma indica diversi fenome-
ni incoraggianti sui cui è possibile lavorare. Un
esempio tra tutti è quello della performance
dell’industria biotech e farmaceutica italia-
na che emerge benissimo nell’ipercom-
petizione, nonostante lo smantellamento
del piano “Industria 2015” che si propo-
neva di intervenire top-down nel compar-
to delle scienze della vita (pag. 78-79). In-
somma si intravede, dai due saggi del volu-
me, un’area di lavoro (tra stato e mercato; tra
top-down e bottom-up) in cui si potrà avere successo
se saranno chiari i principi strategici adottati. Come so-
no chiarissimi, ad esempio, negli USA.
Dal libro emerge che è giunto il tempo delle scelte, do-
po che per decenni, nel dubbio se soddisfare alcune
istanze o altre, non si sono fatte scelte precise e azioni
concrete, ad esempio la scelta di quei settori (e non al-
tri) in cui l’“Azienda Italia” poteva difendere o generare
vantaggi competitivi sullo scenario globale.
Ricordiamo una delle definizioni di strategia (tratto da
Hax, Majluf, 1991):
1 la strategia è un insieme di decisioni coerente, unita-
rio e ben integrato;
2 che definisce ed esplicita gli obiettivi di lungo perio-
do, le linee d'azione per perseguirli e i criteri per l'al-
locazione delle risorse;
3 che seleziona le aree strategiche in cui si dovrà esse-
re presenti;
4 che mira a raggiungere un vantaggio competitivo so-
stenibile in ciascuna delle aree strategiche, rispon-
dendo in modo appropriato alle minacce e alle op-
portunità – espresse dall'ambiente – che devono es-
sere coerentemente combinate con i punti di forza e
di debolezza;
5 che motiva e coinvolge tutti.
Leggendo il libro di Viesti e Di Vico, o se sfogliamo una
rivista di Economia industriale come “L’industria”, ci ac-
corgiamo che le scelte non sono state fatte anche per
mancanza di strategia, così come l’abbiamo schemati-
camente definita. Il rischio di non trovare la strategia ita-
liana è che, in presenza dell’“Industrial Compact” euro-
peo, e del “TTIP” atlantico, a dettarci la strategia saran-
no altri e probabilmente non a favore dei nostri interessi.
Poi c’è il problema dell’“Execution”, non certo seconda-
rio alla strategia: saremmo dopotutto in grado di esegui-
re una strategia ben formulata? Oppure abbiamo, nel
pubblico e nel privato, delle tare insuperabili ed è me-
glio che ci affidiamo allo “stellone” italiano. Abbiamo, a
tutti i livelli, capacità di project management pari a quel-
le degli altri paesi? Oltre alla necessità di riforme (istitu-
zioni, lavoro, pubblica amministrazione, giustizia, fisco,
legalità) non servirà, per accrescere le nostre capacità
di esecuzione, anche un progetto di lungo termine per
coltivare, allo stesso tempo, “technical capabilities” e
“social capabilities”?
Le social capability sono nel quadro politico e giuridico,
nella disponibilità d’infrastrutture materiali e immateriali,
ma anche nell’istruzione, nella mobilità sociale, nella cultu-
ra e nel sistema di valori, nel “capitale sociale”. Tutti fattori
che si modificano, se c’è la volontà, in tempi molto lunghi.
Nessuna strategia di sviluppo può fare a meno di capa-
bility fondamentali e capability “distintive”, altrimenti si ri-
duce a un insieme di “esortazioni”. Sono stati evidenti i
casi in cui le esortazioni, da qualunque parte provenis-
sero, sono restate esortazioni e dunque lettera morta; i
casi in cui piani strategici ottimamente articolati (come
“Industria 2015”, elaborato nel 2006 e dotato di un
“fondo di competitività” di un miliardo di Euro) sono sta-
ti smantellati nel susseguirisi dei governi senza avere la
possibilità di dispiegarsi nel tempo. Questi insuccessi
sono elementi di riflessione per chiedersi, non ideologi-
camente, “cosa non ha funzionato?”: le “lezioni appre-
se” di alcuni progetti. Questa è una funzione del libro di
Viesti e Di Vico: chiedersi cosa non ha funzionato (e far-
celo sapere con chiarezza) per non commettere più gli
errori del passato. “Ancora una volta però ci si muoverà
solo sotto il segno dell’emergenza e non su progetti di
sviluppo” scrive con molta rassegnazione Dario di Vico
a pag. 134. “Bisogna che l’Italia diventi un paese più
serio. Vale la pena di provarci” conclude con un po’ più
di speranza Gianfranco Viesti. Buona fortuna!
Oggi che l’accelerazione del cambiamento ci mette in
angoscia, come scrive Adriano Solidoro in questo blog,
nell’era che si definiva post-industriale e che invece non
lo è del tutto, quella del cacciavite, dei robot e dei ta-
blet, l’economia industriale è una materia che comincia
finalmente da appassionare e la politica industriale di-
venta un tema all’ordine del giorno. Lo testimonia anche
il successo che incontrano i libri e gli studiosi che parla-
no con chiarezza di politica industriale anche ai non ad-
detti ai lavori. Prendiamo il caso di Marianna Mazzucca-
to e del suo best seller internazionale “Lo stato innova-
tore”. Le persone vogliono saperne di più, non si accon-
tentano di assistere nei talk-show alla contrapposizione
tra le formule semplificate espresse da schieramenti
contrapposti né all’esercizio esibito dell’esortazione e
delle bocciature agli altri. Le persone sanno che è in
gioco il futuro proprio e dei propri figli e vogliono capire
di più, per partecipare alle scelte ormai indifferibili per
un rinascimento italiano.
* pubblicata sul Bolg di Bicocca Training & Development Centre.
Il Bicocca Training & Development Centre (BTDC) è il
centro di ricerca dell'Università di Milano-Bicocca che ope-
ra nel campo dello sviluppo organizzativo, della formazione
e della gestione strategica delle risorse umane. Il BTDC è
composto da studiosi e ricercatori nell’area degli studi or-
ganizzativi e delle risorse umane. Si avvale di un ampio
network di università, centri di ricerca e Business School
italiane e straniere per svolgere studi su temi di frontiera re-
lativi allo sviluppo organizzativo e di crescita delle risorse
umane, nel mondo delle organizzazioni pubbliche, private,
non-profit. Il BTDC, inoltre, svolge ricerche su commessa
su temi rilevanti per gruppi dirigenti, famiglie professionali e
associazioni di imprese.