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Capitolo 1
                LA PRATICA DEL PASTELLO NEL XVI SECOLO:
                                                                 Materiali, tecnica e funzioni

1.1      Cenni sul disegno nel Rinascimento1.


       Il Cinquecento fu il secolo del disegno. Dopo gli esordi trecenteschi, l'uso di disegnare
ebbe in Italia un progressivo sviluppo nel corso del Quattrocento, grazie anche alla crescente
reperibilità della carta e dei materiali. Ma fu con i grandi mutamenti stilistici e organizzativi
del Cinquecento, legati o meno alla “maniera moderna”, che l'attività grafica ebbe una vera e
propria esplosione in quasi tutte le aree culturali italiane.
       Dalla metà del Cinquecento quasi tutti gli artisti si dedicarono all'arte del disegno e i
motivi per cui lo fecero, risultano essere i più svariati: dal semplice esercizio manuale allo
studio, dalla copia delle opere altrui all'invenzione e preparazione delle proprie, ma anche per
produrre oggetti d'omaggio o esempi della propria attività e bravura. Il disegno, inoltre, era
una pratica raccomandata dai più grandi maestri ai propri allievi. Fin dal Trecento Cennino
Cennini scriveva che «dal disegno t'incominci», successivamente sia Donatello, che Leonardo
che Michelangelo hanno insistito sulla necessità di praticare il disegno.
       D'altra parte questa pratica, come si è anticipato, venne incentivata anche dalla
disponibilità sempre maggiore sia dei supporti che dei materiali per disegnare: la carta
bambagina, infatti, venne a diffondersi a discapito della pergamena, anche grazie al rapido
sviluppo della stampa2, e venne prodotta anche nelle versioni colorate, marrone, verde, e
azzurro, evitando agli artisti l'onere della preparazione del foglio; mentre strumenti e materiali
tradizionali, come inchiostri, carboncini, gessetti, ma anche gli stessi pigmenti divennero
reperibili con maggiore facilità dagli spezieri, nelle farmacie o da venditori specializzati3 e
non dovevano necessariamente essere elaborati nelle botteghe, anche se questa pratica era
diventata una consuetudine e non venne, comunque abbandonata. Comparvero, inoltre, nuovi
materiali come i pastelli o le matite nera e rossa, naturali e fabbricate, che velocemente
avrebbero fatto abbandonare le costose e poco versatili punte metalliche.
       I processi di cambiamento che si manifestano nel Cinquecento non si limitano
all'innovazione tecnica, ma toccano anche l'organizzazione delle botteghe, dove


1 Per una trattazione di carattere generale sul tema si veda A. Forlani Tempesti, Firenze, 2004, pp.13-24.
2 La stampa, infatti, non permette l'utilizzo della pergamena come supporto, in quanto risulta troppo rigida e spessa e,
    quindi, inadatta a passare attraverso i rulli delle macchine. M.T. Tanasi, Roma, 2002, .p.58: «Con l’introduzione della
    carta in Europa nel XII sec., la pergamena cominciò una lunga decadenza che culminò con l’invenzione della stampa nel
    XV sec. in quanto il materiale membranaceo non era idoneo ad essere stampato.»
3   L.C. Matthew; 2002, pp. 680-686.
parallelamente alla manualità dell'artigiano-artista, assume maggior rilievo l'aspetto
ispirativo-progettuale del disegno. Cambia contemporaneamente la committenza, quindi il suo
gusto e, di conseguenza, le tematiche raffigurate nelle opere commissionate. Ai settori
tradizionali della committenza (mecenatismo pubblico e religioso, principesco e nobile) si
affiancano quelli borghesi e intellettuali. Mentre si affacciano sul panorama artistico le
richieste allegorico-mitologiche delle confraternite laiche.
      In questo clima innovativo ed eclettico, il disegno si inserisce prepotentemente sia come
strumento di lavoro predominate che determina tutte le fasi della produzione artistica: dallo
schizzo, allo studio di figura e di composizione, dai progetti compiuti ai modelli, ai cartoni e,
infine, all'opera compiuta; sia come produzione artistica fine a se stessa, che come “modello”
da presentare a potenziali committenti, o, infine, come opera destinata al mercato.
      Le tematiche toccate sono le più varie e dipendono, come già accennato, sia dai gusti dei
committenti che dall'estro e dai bisogni degli stessi artisti. Si sviluppano, allora, i disegni di
paesaggio, soprattutto in area veneta; i disegni naturalistici di piante e animali, che si devono
in parte all'influsso leonardesco; i temi di ornato, studiati per arricchire opere maggiori o
eseguiti per artigiani dell'epoca; i disegni architettonici e ingegneristici; si sviluppa anche il
genere del ritratto, già presente nel Quattrocento, e soprattutto si diffonde un forte interesse
per la rappresentazione della testa umana, che si arricchisce di espressività, ma anche di
realismo e di naturalezza, come ben si può notare nei ritratti “coloriti a secco” di area
leonardesca lombarda.
      E' d'obbligo, infine, menzionare, il fenomeno del collezionismo che nel Cinquecento
viene ad assumere dimensioni eccezionali e che di certo si ripercuote anche sulla produzione
grafica dell'epoca, tramite l'influenza indiretta esercitata dal mercato sulle scelte tematiche,
tecniche ed espressive degli artisti. Per di più, assieme al fenomeno della trasmissione di
modelli nelle botteghe, il collezionismo ha un grande merito riconosciuto, quello della
conservazione e preservazione sia dell'interesse per le opere che delle opere stesse, fino a noi.
I disegni, una volta intrapresa la via del mercato, venivano acquistati da principi, alti prelati e
papi, da privati gentiluomini, ed anche dagli stessi artisti. Si formarono, così, delle vere e
proprie collezioni che, tramite scambi e smembramenti, a volte con perdite irreparabili, nel
corso dei secoli andarono a formare il patrimonio delle più ricche raccolte moderne di disegni
conservate presso i più grandi musei e biblioteche, quali, per citarne solo alcune, il Gabinetto
di Disegni e Stampe degli Uffizi, dell'Ermitage, del Prado, del Louvre, del British Museum,
dell'Ashmolean di Oxford, e del Metropolitan di New York.
      In Francia, così come nel resto d'Europa, la realtà disegnativa non è molto diversa. La
caratteristica principale che la contraddistingue da quella italiana riguarda, in particolare, i
soggetti che compongono la committenza. In Francia e Inghilterra, diversamente che in Italia,
nel XV e XVI secolo era presente una monarchia totalitaria composta da una sola corte, a cui
faceva capo un unico re che gestiva e controllava un enorme territorio; ciò influenzò la
produzione artistica. In particolare, le personalità più vicine al monarca e che componevano,
di fatto, la corte erano i maggiori committenti di ritratti celebrativi ad olio, i cui disegni
preparatori venivano realizzati proprio a matita colorata. Come specificheremo in seguito, i
primi riferimenti dell'uso di un medium per colorire a secco provengono da Leonardo, il quale
ci informa in un passo del Codice Atlantico di voler apprendere da «Gian de Paris» una
tecnica da lui evidentemente non conosciuta: «il modo di colorir a secco». Gian de Paris,
viene identificato con Jean Perréal, ritrattista di corte di Carlo VIII e di Luigi XII 4. E' spesso
considerato come il primo utilizzatore di questa tecnica disegnativa, anche se ci sono
pervenuti pochi suoi disegni. Altre due personalità di ambito francese che praticarono la
tecnica furono Jean e François Clouet. Si tratta, come vedremo, di due ritrattisti di origine
fiamminga, trapiantati alla corte parigina, che eseguirono eleganti e severi disegni a matite in
più colori, i crayons, raffiguranti i personaggi più importanti del tempo5. Allo stesso modo dei
colleghi francesi, Hans Holbein il Giovane, di cui discuteremo più approfonditamente in
seguito, nel XVI secolo realizzò una serie di disegni a matita colorata finalizzati allo studio di
ritratti ad olio di personaggi emergenti strettamente legati alla corte inglese di Enrico VIII6.
        E' chiaro quindi che la committenza e lo sviluppo della tecnica, sia in Francia che in
Inghilterra, ma anche nel resto del nord Europa, sono fortemente legate all'ambito di corte e
alla tipologia del ritratto celebrativo. Per questo le prime opere a matita colorata artificiale
sono dei ritratti, o meglio, degli studi per ritratti che poi verranno eseguiti principalmente ad
olio.


                                                       


        Di seguito si riporterà una breve spiegazione terminologica, che si è resa necessaria nel
corso della stesura del testo per poter distinguere tra la tecnica a pastello cinquecentesca e
quella, di carattere più specificamente pittorico, settecentesca. Inoltre verranno descritti
l'origine del medium, i suoi ipotetici precedenti e le sue caratteristiche. Successivamente si
tratterà l'argomento delle funzioni relative alla tecnica disegnativa e pittorica a pastello e,
infine, si affronterà l'impegnativo capitolo riguardante i ricettari che riportano i modi di
fabbricazione dei pastelli. Da queste fonti si trarranno le formule necessarie alla riproduzione
di questi strumenti per il lavoro scientifico di laboratorio.




4   N. Reynaud, Paris, 1996, pp.36-46
5   A. Petrioli Tofani et Al., Torino, 1991, p. 171.
6   A. Petrioli Tofani et Al., Torino, 1991, p. 171.
1.2       Il pastello: origine, ipotesi di sviluppo e problematiche terminologiche.


       L'immagine che si visualizza pensando ad un pastello è quella di una matita colorata,
ovvero di un colore a forma di cilindro incassato in un involucro ligneo, utilizzato per
disegnare, o meglio, per colorare. Al termine, inoltre, si associa spesso l'idea di un'opera
pittorica vera e propria, rifinita in ogni sua parte e spesso realizzata con una grande varietà di
morbide sfumature di colore. Si tratta in sostanza, dell'immagine che ci deriva dall'evoluzione
settecentesca della tecnica del colorire a secco, che ha origini molto più antiche, e che
presentava caratteristiche diverse da come siamo soliti immaginarla.
       Il termine pastello deriva, etimologicamente parlando, dalla parola latina pasta che
appunto significa pasta o impasto. Come ci informa T. Burns in un suo saggio7, gli scrittori del
XX secolo hanno estratto dalla parola italiana il termine inglese e francese con cui la tecnica
pittorica è conosciuta, al giorno d'oggi, in tutto il mondo: pastel. Questo termine si diffuse
rapidamente e fu facile da assumere in molti paesi europei, soprattutto in Francia e Inghilterra,
perché era già in uso per indicare altri materiali che durante la lavorazione venivano
trasformati in una pasta, essiccati e induriti. L'analogia è tutta nella modalità di preparazione.
I farmacisti, ad esempio, lo utilizzavano per indicare «petit pâte» o «a morceau de pâte»,
ovvero delle semplici pastiglie, che tipicamente erano realizzate con polveri medicinali
amalgamate con un legante in una pasta che veniva fatta seccare. Un altro esempio, è quello
relativo all'impasto realizzato con isatis tinctoria, un'erba detta anche guède8 con cui si
tingevano i tessuti. In questo caso il termine deriverebbe da pastillum-pastellum9, poiché dopo
aver tritato questa pianta e formato l'impasto, lo si riduce in tavolette che vengono fatte
seccare e usate a bisogno. A questo punto non è difficile credere che il termine pastello, o
pastel, si sia diffuso velocemente in tutta Europa per identificare dei cilindri o bastoncini
colorati fabbricati artificialmente e formati con degli impasti, ottenuti mescolando un
pigmento finemente macinato, se necessario una carica (per dare corpo e struttura laddove il
pigmento non li possieda) e un legante nelle giuste proporzioni.
        Nonostante il termine pastello sia presente fin dal tardo XVI secolo - Lomazzo infatti lo
cita nel suo Trattato dell'arte (1584) come mezzo usato da Leonardo per gli studi per l'Ultima
cena - la problematica principale relativa al suo uso tra gli storici dell'arte, sta nel fatto che
non permette di distinguere la tecnica cinquecentesca, prettamente disegnativa, da quella
settecentesca, che ha caratteristiche sicuramente pittoriche. Chiamare indifferentemente,
pastello, un disegno cinquecentesco o un dipinto settecentesco, non renderebbe merito alle
caratteristiche di ciascuna forma arte. Si è delineata, quindi, la necessità di distinguere le due
tecniche esecutive con una terminologia specifica. Il medium cinquecentesco è stato chiamato
7   T. Burns, 2007
8   Dictionnaire [...], 1851, (tomi I,II,III), p. 198
9   P.C. Berthelin, 1721, p. 183
indifferentemente «gesso» o «gessetto colorato», «matita colorata», o ancora «colore a
secco», altre volte è semplicemente inserito il nome generico di un pigmento (es. ocra gialla)
stimato solo in base al colore presente e alla consuetudine, piuttosto che in relazione a qualche
studio più approfondito. Raramente viene usato il termine «pastello», che è preferito per
indicare la forma d'arte settecentesca.
       È doveroso, a questo punto della trattazione, menzionare anche i termini usati nelle
diverse lingue per indicare il medium cinquecentesco usato dagli artisti. Il problema di
distinguere la tecnica più antica da quella più recente è presente, dopotutto, anche nella
letteratura anglosassone e francese. Oltre al termine «pastel», che anche in questi casi
individua soprattutto le opere settecentesche, vengono usati altri termini per indicare il
medium grafico cinquecentesco, tra cui: «crayon» e «dessin au crayon» in Francia, o
«chalk10» e «chalk drawing» nei paesi anglofoni. In relazione a quest'ultimo termine si apre
anche un'ulteriore problematica, quella relativa alla distinzione tra matite naturali e matite
fabbricate artificiali nella pratica del disegno cinquecentesco. Il termine «chalk» è usato, non
solo per identificare la matita fabbricata artificialmente dall'artista e che più facilmente è
relazionabile con il termine pastello, ma anche la matita naturale, direttamente cavata dal
deposito, formata in bastoncini e usata pura nel disegno. Purtroppo risolvere questo problema
non è semplice, perché come fa notare Burns, «le imprecisioni nascono dal fatto che è
impossibile distinguere il materiale depositato dai due mezzi grafici ad occhio nudo. A causa
di questa limitazione, l'identificazione della presenza della matita naturale o di quella
artificiale è stata per molto tempo soggettiva e si è basata principalmente sul numero di colori
presenti (le matite naturali venivano distinte da quelle artificiali per la gamma ristretta di
colori) e sul riconoscimento visivo della durezza o morbidezza apparente del medium usato
attraverso l'analisi del tratto (la matita naturale depositerebbe un tratto più sottile perché più
dura, mentre quella fabbricata dovrebbe lasciare un tratto più morbido e largo). In passato
queste differenze fisiche sono state interpretate come caratteristiche di manualità e di stile»11.
Nonostante questo modo soggettivo di operare non sia più usato per la discriminazione della
tecnica grafica, in letteratura rimangono molti esempi di utilizzo indiscriminato dei termini
chalk e pastel. Un esempio, fra tutti, è il cartone di Leonardo da Vinci per il ritratto di Isabella
d'Este, dove Popham12 identifica il materiale usato come «black chalk, charcoal and pastel»,
mentre Brown13 menziona il termine «coloured chalks», pur trattandosi della stessa opera.




10 E' necessario tener conto che la parola inglese chalk è usata per indicare «a piece of calcite or similar substance, usually
   in the shape of crayon, that is used to write or draw on blackboard or other flat surface» (The Free Dictionary), e che
   quindi la trasposizione nell'italiano gessetto, dal punto di vista dei materiali utilizzati, non è sempre appropriata.
11 T. Burns, 2007
12 A.E. Popham, 1947
13 D.A. Brown, 1999 e D.A. Brown, 1983
In mancanza di analisi specifiche sui materiali e dovendo fare affidamento sulle informazioni
tratte dalla letteratura storico-artistica, si cercherà di utilizzare in questo elaborato il termine
“disegno a matita” in riferimento alla pratica disegnativa cinquecentesca e il termine “matita
colorata” per indicare lo strumento utilizzato. Mentre si continuerà ad utilizzare il termine
pastello per indicare la forma d'arte settecentesca, anche se non sempre sarà possibile
effettuare questa suddivisione terminologica.


1.3      Le matite cinquecentesche: scontro e rivalità, o punto di partenza per la creazione
         del pastello?


       Prima di affrontare la descrizione del pastello è doveroso menzionare, brevemente, degli
altri strumenti disegnativi che si svilupparono nel XV - XVI secolo, e che forse contribuirono
allo sviluppo stesso del pastello: le matite naturali e artificiali, rossa e nera.
Si tratta di due strumenti che, in alcuni casi, rispondono perfettamente alle caratteristiche della
matita colorata fabbricata perché, oltre alle versioni naturali, esistono anche quelle prodotte
attraverso macinazione del pigmento (nero fumo o carbone, nel caso della matita nera ed
ematite o cinabro per la matita rossa) e creazione di un impasto per mezzo di un legante.
Questo procedimento è, infatti, analogo a quello usato per la realizzazione della matita
artificiale, o pastello, come fa notare Shirley Millige14. Inoltre, anche i motivi che hanno
portato allo sviluppo di questi media, e che si vedranno più avanti, sono molto simili a quelli
ipotizzati per l'origine del pastello.
       Per quanto concerne la pratica del disegno di alcuni artisti, queste matite soppiantarono
l'uso dello stilo metallico e della penna poiché permettevano una maggiore libertà ed
immediatezza espressiva, una più facile e veritiera resa dei volumi (attraverso il chiaroscuro),
una più grande varietà di rilievi ed effetti plastici, nonché maggior controllo e modulazione
del tratto, che diviene più sottile o più largo, più duro o più morbido a seconda dei bisogni,
facilitando il successivo sviluppo di tecniche a due o tre matite. Questa prevaricazione della
matita su altri strumenti disegnativi comportò anche l'utilizzo degli stessi supporti previsti per
la penna o la punta metallica; se dapprima la matita veniva stesa su carta bianca di un certa
granulometria, successivamente, e soprattutto dal XVI secolo, si adottano supporti colorati,
opportunamente preparati o tinti. Le colorazioni maggiormente in voga saranno quelle che
meglio fanno risaltare il disegno e le variazioni tonali, le ombreggiature e il chiaroscuro, come
le carte blu, grigie, brune e rosse15.




14 S. Millige, 1996, p.56
15 Sophie Larochelle, 2005, p. 121-127
1.3.1 La matita nera.


        Nelle fonti storiche questo medium grafico viene trattato in maniera piuttosto uniforme,
in tutti i casi si parla, infatti, di una pietra nera che viene tagliata nelle dimensioni opportune e
ridotta in punte tramite l'ausilio di un coltello. I termini usati per identificarla sono piuttosto
simili nelle diverse lingue: pierre noire o pierre d'Italie in Francia, pietra nera o matita nera in
Italia, black chalk (natural o fabbricated) in Inghilterra ed America, mentre nei testi più
antichi è ricorrente la locuzione «Prìa nera» o «nigra»; con riferimento per lo più alla matita
naturale. Tuttavia lo stesso termine sarà utilizzato per la versione artificiale.
        Le prime menzioni del medium sono fornite da Cennino Cennini, il quale descrive la
matita nera come uno strumento con cui si possono ottenere effetti simili a quelli del
carboncino, anche se da come ne parla sembra che non avesse molta familiarità16 con la
tecnica. Se ne deduce, quindi, che non doveva essere così frequentemente usata al suo tempo.
Dice, infatti, elencando gli strumenti adatti alla realizzazione di un disegno: Anchora per
disegniare o trovato cierta pria nera, che vien del Piemonte, [la quale e tenera pria;] e puo'la
aghuzare con choltellino, ch'ella e tenera. E ben negra. E puoi ridurla a quella perfezione
che'l charbone. E disegnia secondo che vuoi17. Vasari, invece, molto più abituato allo
strumento, lo descrive insieme alla matita rossa, in questo modo: ... [disegni] si fanno con
varie cose; cioè o con lapis rosso, che è una pietra, la qual viene da' monti di Alemagna, che,
per esser tenera, agevolmente si sega e riduce in punte sottili da segnare con esse su i fogli
come tu vuoi; o con la pietra nera, che viene da' monti di Francia la qual'è similmente come
la rossa18. Altra fonte importante che riporta una descrizione di questo medium e che per la
prima volta usa il termine «matita nera» è Baldinucci, che nel suo Dizionario Toscano delle
Arti (1681), la individua come [..]una sorta di pietra nera, che viene a noi in pezzi assai
grandicelli, e si riduce in punte, tagliandola con la punta di un coltello; serve per disegnare
sopra la carta bianca, e colorata. Cavasi queste né monti di Francia, e in diverse altre parti;
ma la migliore viene di Spagna.19.
È importante far notare che tutte queste fonti si riferiscono, nella descrizione, a quella che
oggigiorno viene definita matita naturale, ovvero ad un semplice pezzo di roccia,
probabilmente un'argillite/scisto (shale) composto di carbone e argilla20, cavato direttamente
dal deposito e modellato a piacere. È probabile che questo strumento venisse usato nei primi
disegni, ma che, come fa notare Petrioli Tofani, «l'esigenza artistica di poter disporre di
strumenti sempre più perfezionati, dalla grana omogenea e priva di impurità, della
compattezza e durezza desiderate, condusse», in un secondo momento, «alla creazione di
16   Meder, 1978, p. 100
17   F. Frezzato, 2003, p. 87
18   G. Vasari, 1550, p. 1912-1928
19   S. Parodi, 1975, p.92
20   C.Van Cleave, 1994, pp.231-243
matite artificiali». Questa affermazione sembra ancora più plausibile se si pensa alle difficoltà
di reperimento, nel XV e XVI secolo, di materiale grezzo adatto alla fabbricazione delle
matite naturali (nelle fonti si parla, infatti di pietra del Piemonte, di Francia o di Spagna). È
più facile pensare che un artista si producesse da sé il mezzo grafico, piuttosto che andare a
cercare i luoghi più adatti di estrazione, da cui cavare la pietra direttamente utilizzabile.
Inoltre, secondo le fonti, il materiale migliore proveniva da Spagna, Francia e dal Piemonte,
ma è impensabile che tutti gli artisti si rifornissero esclusivamente da questi luoghi, magari
lontani, perché sarebbe stato economicamente poco vantaggioso a causa degli enormi costi
che si sarebbero dovuti sostenere. È più probabile, invece, che il materiale provenisse da
diversi luoghi, magari vicini all'artista, quali cave locali o botteghe di spezieri21 o di altri
commercianti e che contenesse, pertanto, molte impurezze al suo interno come ad esempio
«diverse percentuali di quarzo, feldspato o argilla, che modificano le proprietà del mezzo»22 e
che, per questo motivo, dovesse essere purificato (magari tramite setacciatura o dispersione in
acqua), macinato e legato con aggiunta di altri materiali in diverse concentrazioni. Se, in tutto
questo procedimento, si sostituisce la pietra naturale, con un qualsiasi altro pigmento nero,
magari meno costoso e più disponibile, quale il nero fumo, il nero avorio o altri più
disponibili nelle botteghe, si comprende come potrebbe essere avvenuto il passaggio dalla
matita naturale a quella artificiale.
        Esistono alcune fonti che individuano e riconoscono sotto il temine di matita nera, uno
strumento artificiale, realizzato macinando opportuni pigmenti neri, quali il nerofumo, il
carbone, il nero d'avorio o d'osso ed altri. Meder, ad esempio, ci informa che «tra le matite a
pastello, largamente usate in Italia prima del 1520, c'era anche un matita nera che, a causa
della sua morbidezza – così differente dall'enorme durezza della matita naturale – si sviluppò
e prese piede velocemente»23. Merrifield, nel suo testo Medieval and Renaissance Treatises
on the arts of painting, riporta alcuni riferimenti, tra l'altro sempre in associazione a citazioni
sul pastello, per la fabbricazione della matita artificiale: [..] ma il nero fumo s'impasta con
terra da bo[c]cali, e si sec[c]a al fuoco e serve anco per carbone da disegnare24 (MS Volpato)
o ancora Shirley Millige25 afferma che «la matita nera naturale», che individua come chalk,
«fu rimpiazzata dalle matite nere fabbricate che erano più friabili rispetto alla varietà
naturale» poiché queste erano «realizzate con carbone e legante». Inoltre aggiunge che «erano
disponibili anche prima del XVII secolo».
         Analizzando il tratto, non è così semplice riconoscere la matita naturale da quella
artificiale. Esistono delle caratteristiche peculiari della matita naturale che potrebbero
permettere la distinzione visiva dei due mezzi: il segno è generalmente sottile, con deposito di
21   L.C. Mathew, 2002, p. 46
22   J. Watrous, 2003, p. 105
23   Meder, 1978, p.89
24   M.P. Merrifield, 1967 p.753
25   S. Millige, J. Turner, Grove 1996, p. 58
poco materiale sulla superficie del foglio, ciò è dovuto alla durezza elevata e alla compattezza
che contraddistingue il minerale nativo, inoltre al passaggio dello strumento sulla carta si
possono formare dei buchi o strappi causati dalle impurità sabbiose presenti nel materiale
grezzo usato26. Ciononostante, queste peculiarità non sono sufficienti a permettere un
riconoscimento sicuro del mezzo disegnativo usato. Da un lato perché il tratto della stessa
matita naturale può essere modificato tramite l'umidificazione della punta con saliva o la
sepoltura dello strumento a contatto con sostanze saline27, che rendono il materiale più soffice;
d'altra parte perché il tratto della matita artificiale, che è generalmente di un colore nero più
intenso e di consistenza vellutata, può essere modificato a piacere indurendo l'impasto con
opportuni leganti e assottigliando la punta per ottenere un segno più sottile e molto simile a
quello della matita naturale. Sulla carta, pertanto, sia la matita nera naturale che quella
artificiale, possono mostrare diverse qualità. Il tratto può essere grosso, nero e ceroso-grasso
come quello del pastello; largo, soffice e asciutto come quello del carboncino; oppure fino,
chiaro e duro come la grafite. Questa versatilità del medium, gli permette di essere adatto a
soddisfare diverse esigenze disegnative. Ad esempio la sua linea larga (il tratto ampio e largo)
è adatta per i disegni a grande scala, ma siccome può essere modellata con un coltello per
produrre una punta fine, la matita può essere adatta anche per studi minuziosi su piccola scala.
Inoltre, attraverso lo smudging, l'azione di sfregamento condotta con il dito per spargere e
sfumare il colore sulla carta, la matita nera potrebbe essere miscelata e sfumata per produrre
diversi gradi di ombreggiatura.
        Queste caratteristiche hanno permesso la rapida diffusione della matita nera nella pratica
del disegno a discapito della punta metallica o della penna. Si iniziò ad utilizzare la matita
nera, prima, per la realizzazione dei cartoni, come si vede ad esempio nel disegno,
bucherellato per il trasferimento, con uno Studio di testa di donna di Domenico Ghirlandaio
(Chatsworth, Devonshire Collection, Inv. n.885 recto), nel cartone di analogo soggetto di
Andrea del Verrocchio (British Museum, Christ Church, Inv. n.1895,0915.785); accostato al
pastello, nel cartone leonardesco per il Ritratto di Isabella d'Este (Parigi, Museé du Louvre,
Inv. n. MI 753), di cui si parlerà in seguito, o infine, nel cartone che raffigura la Testa di
uomo con turbante (Firenze, Gabinetto Disegnie Stampe degli Uffizi, Inv. n. 152F) attribuito a
Giovanni Bellini, in cui sono esplorate tutte le potenzialità della matita nera28.
        Oltre alla pratica del cartone, la matita nera si rinviene anche nell'esecuzione del
cosiddetto underdrawing. Un precoce esempio, potrebbe essere gli Studi di uomini appesi del
Pisanello (1430 ca, Londra, British Museum, Inv. n. 1899.345), in cui il disegno sottostante in
matita nera è ripassato in penna e inchiostro; pratica che si rinviene anche nei disegni di
26 Meder, 1976, p. 88
27 Meder, 1976, p.85 «... There were other methods, as well: “Some lay it in a damp celler, others bury it with salt in the
   earth, so that it may stay soft. In burying it you will know that is good, if it has yellow spots like sulphur on the outside,
   and is salty and sour to taste, and is easy to cut” [In nota: Goeree 1759, p.214]
28 C.Van Cleave; 1994, p.235
Filippo Lippi o nell'Adamo ed Eva del Pollaiolo (Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli
Uffizi, 155 F).
       Soltanto verso la fine del XV secolo la matita nera sarà impiegata per altre tipologie di
disegno, meno funzionali alla realizzazione di un'opera successiva e più individuali e a sé
stanti, quali: studi di figura, di animali, di volti e ritratti, fin anche negli studi caricaturali di
Leonardo29. Dalla metà del XVI secolo, forse per motivi legati al mercato collezionistico30,
viene sempre più spesso associata alla matita rossa, con la quale pian piano perde la
caratteristica di «strumento disegnativo della linea di contorno» per assumere un ruolo
maggiormente coloristico; infine, la si ritrova accoppiata alla matita colorata, ovvero al
pastello, almeno fintanto che questa tecnica non assume le caratteristiche pittoriche
settecentesche, dove le figure non avranno più bisogno di essere delineate da una linea di
contorno marcata.


         1.3.2 La matita rossa.


       Altro medium grafico sviluppatosi parallelamente alla matita nera e che anticipa di poco
la nascita del pastello colorato, è la matita rossa. Nelle fonti antiche e nella letteratura
moderna si individuano diversi termini per indicare la matita rossa. Di seguito verranno
riportati i più frequenti: red chalk (Inghilterra e America), craie o crayon rouge (Francia),
sanguigna, prìeta rossa, amatisto o amatito (da hoematites, hoema, ovverosia sangue, del
colore del sangue), «grafio rosso» da Imperato31, e lapis rosso.
       Secondo la suddivisione fatta da Mayer e Vendiver, nel saggio Red Chalk: Historical
and Technical Perspectives. Part II: A Technical Study32 si individuano tre tipologie di matita
rossa. La prima è definita «Natural Red Chalk», o matita rossa naturale, ed «è composta di
una mistura di ematite terrosa (ossido di ferro rosso, fino e spesso impuro), che conferisce la
forza cromatica e diverse argille, che permettono la coesione del pigmento». La materia prima
«viene cavata direttamente dalla terra, tagliata in lunghi e stretti bastoncini, segata e limata
per formare una punta e usata con la sua consistenza originale per disegnare». Proprio perché
naturale, «la composizione può essere molto varia e la dimensione delle particelle molto
piccole». La presenza di contaminanti o impurezze, come quarzo o feldspati, possono
modificare la durezza, il colore ed altre proprietà del mezzo, causando variazioni


29 Claire Van Cleave, 1994, p.231-243
30 McGrath T., 2001, p. 235-241
31 Imperato, “Historia Naturale”, 1599: Imperato dà un alto valore alla matita rossa, che appunto chiama graffio rosso, per
   l'esattezza della linea, per l'armonia e lo charm delle sfumature, ne parla come se fosse lo strumento da disegno più
   stimato/apprezzato. Non menziona comunque l'uso della matita rossa assieme alla matita nera per ottenere effetti
   coloristici, una tecnica ben conosciuta al suo tempo. Però dice che la matita era frequentemente immersa in acqua
   (umidificata) durante l'esecuzione del disegno, per dare morbidezza al tratto, un'osservazione certamente espressa nel
   caso di bastoncini duri o vecchi. [Traduzione da Meder, p. 92]
32 D.D. Mayer, P. B. Vandiver, 1987, p.171-180
caratteristiche del tratto: se la matita è più dura, durante la stesura tenderà a saltare sul
supporto e a lasciare delle aree bianche, compromettendo la continuità e fluidità del tratto.
Un'altra proprietà, insolita, della matita naturale che secondo molti ne permette il
riconoscimento visivo, riguarda il legame tra il colore e la modalità di applicazione sulla
carta. Se sfregata o sfumata, la matita rossa appare di un rosso più chiaro e caldo, rispetto a
quello dello strumento trascinato allo scopo di lasciare un segno più sottile. Si verifica
pertanto una modificazione del suo colore sotto pressione. Scientificamente questo fenomeno
viene spiegato, nell'articolo di Cohn, Mayer e Vandiver, con una riduzione di densità del
colore, le cui particelle di forma piatta e allungata (non sferica, come sono invece quelle
dell'ematite “fabbricata”) vengono allineate sul supporto e interagiscono con la luce in modo
particolare: si verificano fenomeni sia di riflessione che di assorbimento e il colore che ne
deriva, è un rosso-arancione brillante33. Spesso l'osservazione di queste caratteristiche, ha
portato gli studiosi a riconoscere nei disegni a matita rossa lo stesso cholore [..] naturale che
è prieta fortissima e soda di cui parla Cennini34, o la pietra rossa che vien da monti di
Alemagna citata sia da Vasari35 che da Baldinucci36. Nonostante questi autori indichino come
luogo d'origine del materiale, la Germania, è risaputo che anche l'Italia, la Francia, la Spagna
e le Fiandre possedevano, e possiedono tutt'oggi, i loro giacimenti37, pertanto è plausibile
credere che gli artisti si rifornissero da questi luoghi piuttosto che da un'unica fonte tedesca,
per gli stessi motivi visti sopra per la matita nera.
         La seconda tipologia, definita «Fabbricated Red Chalk», è una matita rossa
«fabbricata», o meglio artificiale, e si differenzia dalla precedente, non tanto per la materia
prima impiegata, ma piuttosto per le modalità di lavorazione: in questo caso, l'ematite «viene
ridotta tramite pestaggio o macinazione ad una polvere e poi viene mescolata con un legante
e/o una carica, o filler. La pasta ottenuta è poi pressata o rollata a formare dei bastoncini per il
disegno». È importante notare, per gli scopi di questo elaborato, l'analogia tra il procedimento
appena descritto e quello che in seguito verrà riportato in merito alla realizzazione del
pastello. Non sarebbe totalmente improprio ipotizzare che questa pratica possa essersi
sviluppata come conseguenza dell'esperienza produttiva collaudata con la matita rossa
artificiale (o di quella nera sopra descritta), d'altra parte per ottenere la matita colorata sarebbe
stato sufficiente sostituire l'ematite con un qualunque altro pigmento presente nella bottega

33 M.B. Cohn, 1987 e D.D. Mayer e P.B. Vandiver, 1987, p. 165-180. [NDR] Queste osservazioni sono molto importanti
     perché porterebbero a smentire le affermazioni di McGrath e Gere sul fatto che le due tipologie di colore rosso usate da
     Raffaello fossero sicuramente due colori diversi realizzati ad hoc, e quindi due pastelli.
34   F. Frezzato, 2003, p. 92
35   G. Vasari,1550, p. 1912-1928
36   S. Parodi, 1975. p.92 in cui si dice:Una sorta di pietra tenera, che ci viene a noi in pezzetti, la quale segata con una sega
     di fil di ferro, e ridotta in punte, serve per disegnare sopra carte bianche e colorate. La migliore viene d’Alemagna. e
     definisce Il Lapis amatita: Matita, altrimenti detto Cinabro minerale; una pietra naturale molto dura, della si vagliano i
     Pittori per fare i disegni sui fogli, lasciandovi il suo colore, che è rosso. Questa macinata, benché con grande stento per
     la sua durezza, fa un rosso bellissimo, simile alla lacca, che serve per colorire a fresco, e molto tempo dura. L'adoperano
     ancora gli spadai per mettere l'oro a brunito.
37   S. Larochelle, 2005, p.122 e in J. Watrous, 2003, p.91-129
dell'artista, come ad esempio l'ocra gialla (l'idrossido di ferro), per ottenere un pastello
colorato.
       L'ultima tipologia di matita rossa è quella definita come Matita rossa sintetica
(Synthesized Red Chalk) o Sanguigna. «L'ematite, questa volta, è prodotta [sinteticamente] in
un laboratorio o in una fabbrica, [..] per arrostimento del solfato di ferro. Durante il processo
viene fatto fuoriuscire il solfuro come ossido di zolfo (SOx, volatile) e rimane un residuo di
ossido di ferro fine e puro. L'ematite è poi macinata per ottenere una polvere, alla quale
vengono aggiunte le cariche, come l'argilla o il diossido di titanio, e i leganti organici. La
miscela è poi manipolata (dandogli una forma) o pressata per ottenere i bastoncini per il
disegno». Quest'ultima tipologia è assente nel Rinascimento, perché cronologicamente
posteriore; viene fatta risalire all'Ottocento38. Secondo Petrioli Tofani il termine Sanguigna
«era in quasi sconosciuto prima dell'Ottocento». In realtà, è vero che venne largamente
utilizzato a quel tempo e nel secolo precedente, soprattutto in Francia, per indicare qualsiasi
matita rossa, ma era certamente presente, anche se meno usato, nel XVI secolo, sia in Italia
che in Francia, come si ricava dal testo Cinquecentesco di Pietro Andrea Mattioli39 e dagli
scritti di Bernard Palissy40. Mattioli, infatti, rammenta che, «la pietra chiamata ematite, cioè
sanguigna, la quale si chiama comunemente lapis è notissima a tutti, ed hassene in Italia assai
copia»; mentre Palissy parla di una «pierre sanguine composée d'un grain fort subtiel et
duquel on fait des crayons rouges...fort propres à contrefaire les visages d'après le naturel».
Altri riferimenti al termine sanguigna sono presenti anche nel XVII secolo, ad esempio
Baldinucci parla così della matita rossa dicendo che il termine «vien dalla voce greca
Hoematites, dall’aver color del sangue che dicono Hoema». Il termine quindi ha una
derivazione molto intuitiva, essendo la matita costituita dal minerale chiamato ematite, parola
derivante dal greco hoema, ovvero sangue (evidentemente per il colore), è chiaro che la
trasposizione italiana sia stata quella di [pietra] sanguigna. Ma siccome lo strumento era
ricavato, almeno inizialmente, direttamente dalla roccia, si è preferito attribuirgli il nome di
Lapis, o Lavis, che divenne d'uso comune. Per non fare confusione, comunque, si assumerà in
questo testo il termine sanguigna così come lo ha utilizzato Tordella, mentre le locuzioni
matita rossa o pastello rosso accompagnati dagli aggettivi naturale o artificiale, indicheranno
gli altri strumenti disegnativi. Sulla sanguigna non si dirà di più, perché un discorso più
esaustivo andrebbe oltre le finalità di questo elaborato.
       Secondo quanto riportato da Meder, la matita rossa si dev'essere sviluppata attorno al


38 P. M. Tordella, 1996, p.187-207
39 Come si ricava anche dal Dizionario del Tommaseo (1919) che, commentando l'aggettivo “sanguigno”cita il testo «Dei
   discorsi di Pietro Andrea Mattioli nei sei libri di Dioscoride, della materia medicinale », pubblicato a Venezia 1568 in A.
   PetriolI Tofani, “I materiali e le tecniche”, A. Petrioli Tofani et Al, 1998
40 B. Palissy utilizzava il termine pierre sanguine già nel 1580 nel suo Discoure admirable de la nature, citato da P.
   Lavallee, 1943, p.61 e in M. Roland Michel, 1978, p. i-vi.
149641e comunque non prima del 1480. Quest'affermazione, da un lato, viene motivata dal
fatto che «fino al 1480 non esistevano fissativi adatti a preservare il disegno a matita
rossa»42e, in secondo luogo, trae fondamento dalla vita di Michelangelo Buonarroti scritta da
Ascanio Condivi, il quale racconta che Raffaello Riario, cardinale di San Giorgio in Velabro,
«[...] sdegnato d'esser gabbato, mandò là un suo gentiluomo [il banchiere Jacopo Galli], il
quale fingendo di cercar uno scultore per far certe opere in Roma, dopo alcuni altri fu inviato
a casa di Michelangelo; e vedendo il giovane, per aver cautamente luce di quel che voleva, lo
ricercò che gli mostrasse qualche cosa. Ma egli non avendo che mostrare, prese una penna,
perciocchè in quel tempo il lapis non era in uso, e con tal leggiadria gli dipinse una mano, che
ne restò stupefatto43». Il termine lapis è da interpretare come matita rossa, secondo la
definizione cinquecentesca del dizionario del Tommaseo precedentemente citata, ed è chiaro
che all'epoca dell'accaduto, la matita rossa non era molto usata. A prescindere da questi
riferimenti sulla datazione, che sono molto importanti, ma non sono confutabili con certezza,
è importante riconoscere che «la matita rossa apportò nella pratica disegnativa del XVI secolo
un nuovo e rivoluzionario elemento: la linea colorata. Ed è da questo momento [che si
sviluppa] il precursore del pastello»44. Le capacità espressive di questo mezzo: la forza del suo
tratto rosso, che arricchisce le semplici linee con il colore, la robustezza del materiale e
l'emersione della figura dal fondo, non vennero apprezzate subito da tutti gli artisti. Prima del
Cinquecento sono poche le fonti che parlano di questo mezzo e pochi i disegni pervenutici
realizzati con la matita rossa, è necessario attendere un maestro eccezionale come Leonardo,
per poter apprezzare, anche se in via sperimentale, le potenzialità di questo strumento. Sempre
secondo Meder, «Leonardo dovette essere il primo ad usare la matita rossa non solo per la
realizzazione di schizzi, ma anche per studi finiti e dettagliati»45. Martin Clayton ritiene che,
Leonardo «...abbia usato la sanguigna [da intendere matita rossa] per la prima volta intorno
agli anni 1492-3; [poiché] il tratto molto sottile caratteristico di questa prima fase si trova nei
manoscritti H e Foster III, databili tra 1493-4»46. I primi disegni compiuti in matita rossa,
risalenti al primo periodo milanese (1482-1499), che si ricordano sono: lo studio per il
monumento equestre sforzesco e gli studi per la realizzazione del famoso Cenacolo in Santa
Maria delle Grazie (i cui disegni, secondo Lomazzo e alcuni studiosi moderni, hanno visto
l'utilizzo del pastello da parte del maestro). Chastel addirittura si sbilancia affermando che
«Leonardo potrebbe essere l'inventore della matita rossa47». Questo non è accertabile, ma
sicuramente fu uno dei suoi primi adepti e promotori. Si riscontra, infatti, che dopo la dipartita
da Milano del maestro e il suo arrivo a Firenze, la matita rossa fa la sua apparizione in questa
41   Meder; 1978, p.91
42   Meder, 1978, p.91
43   A. Condivi; 1928, p.61
44   Meder, 1978, p.92
45   Meder, 1978, p.92
46   M. Clayton, intervento sullo Studio per un'Ultima Cena di Venezia (Gallerie dell'accademia, Inv. n. 254)
47   S. Larochelle; 2005, p.124
città come mezzo disegnativo indipendente e da qui si espande in tutte le province
influenzando i maestri locali: Albertinelli, Signorelli, Fra Bartolomeo, Andrea del Sarto e tanti
altri tra cui Raffaello che in quel periodo si trovava a Firenze e venne molto influenzato dai
modi di Leonardo. Inoltre a Milano amici e seguaci di Leonardo fecero largo uso di questo
strumento, diffondendolo nel territorio, ad esempio Francesco Melzi lasciò uno studio a
matita rossa datato 14 agosto 1510; la matita rossa venne usata anche da Boltraffio, Luini e
Giampietrino. Inoltre Cesare da Sesto fu il primo ad usarla per tinteggiare il fondo su cui
avrebbe disegnato con la stessa matita, creando un eccezionale tono su tono. Non è da
escludere tra l'altro che durante il suo breve soggiorno a Venezia, Leonardo abbia contribuito
ad introdurre la matita rossa nella pratica disegnativa locale, visto che è proprio all'inizio del
Cinquecento che si rinvengono le prime tracce di questo medium nella città lagunare. Ad
esempio Carpaccio iniziò il suo San Giorgio e il drago (Firenze,Uffizi, Gabinetto disegni e
stampe, Inv. n. 1287 E) in matita rossa, per poi terminarlo a penna (pratica tra l'altro non
sconosciuta allo stesso Leonardo come fa notare P.G. Tordella nel suo saggio48) oppure si
possono ricordare gli studi di figura della scuola di Giorgione, ed anche uno Studio di figure
femminili a mezzo busto di Cesare da Sesto (Venezia, Gallerie dell'Accademia, Inv. n. 141)49.
L'incontro con Leonardo fu certamente determinante per Giorgione e per l'avvio della maniera
moderna a Venezia, come hanno messo in luce gli studi moderni e come era d'altronde
indicato dalle antiche fonti50. Ai fini del nostro discorso si dovrà pertanto ricordare il celebre
disegno di Rotterdam51 (Studio di un paesaggio con pastore e sullo sfondo la veduta di
Castelfranco o Montagnana, Boymans-van Beuningen Museum, Cat.no.64), dalla critica
concordemente assegnato a Giorgione, che permette di mettere in stretta relazione l'arrivo di
Leonardo a Venezia nei primi mesi del 1500 con l'adozione da parte dell'artista veneto della
nuova tecnica a matita rossa, quasi sconosciuta nella città lagunare prima d'allora.
        Nel Codice Atlantico (Biblioteca Ambrosiana, Milano) esistono diversi riferimenti alla
«amatita» o «mattita», riportati anche da Richter e Pedretti, ma alcuni di questi fanno pensare
proprio alla matita rossa «fabbricata» di cui si parlava sopra. In particolare il riferimento al
«lapis amatita macinata52», tra i materiali utilizzati nella pratica della pittura e del disegno, è
molto importante perché riconduce alla necessità percepita dagli artisti di stemperare o di
polverizzare un materiale di particolare durezza sia a scopi pittorici che disegnativi, al fine di

48 P.G. Tordella, 1996, p. 192. «soprattutto nella fase in cui la matita rossa naturale andava acquisendo un valore espressivo
     autonomo e se ne stavano sperimentando le peculiarità strutturali, la ripresa a penna parziale o totale, dei tracciati grafici
     con essa eseguiti appare interpretabile, non tanto come esigenza estetica o risultato di una scelta tecnica predeterminata,
     quanto come intervento necessitante atto a risolvere problemi spesso legati alla natura stessa del medium naturale: la
     grana e la cromia non omogenea, la tendenza ad espandersi e dunque a perdere la nettezza del segno che dunque, come si
     vedrà in seguito, richiedeva un fissaggio».
49   Meder, 1978, p.93
50   M. L. Dolce, Firenze, 1735, p.274 «Leonardo […] fu appresso pittor di grande stima, ma di maggiore aspettatione
     Giorgio da Castelfranco, di cui si veggono alcune cose ad olio vivacissime e sfumato tanto, che non si scorgono ombre.
     Morì questo di peste, con non poco danno della pittura.». Si veda, inoltre, A. Ballarin, 1994 e A. Ballarin, 2005.
51   H.E. Wethey, 1987, pp.71-72
52   Leonardo, Manoscritto A al foglio 104r
ottenere, in quest'ultimo caso uno strumento (appunto la pietra o matita rossa ricostruita) dalla
grana più omogenea e di maggior morbidezza e dunque duttilità. Inoltre questa sensazione è
rafforzata anche da un altro riferimento, questa volta del manoscritto F (Parigi, Institute de
France), in cui si dice che «il lapis se disfa in vino e in aceto o in acquavite, e poi si può
ricōgiugnere cō colla dolce53». Il dato eccezionale è che questo termine, «lapis amatita
macinata», non si ritrova nella letteratura coeva sopravvissuta, pertanto, come fa notare P.G.
Tordella, «viene ad assumere una connotazione sperimentale e dunque un possibile
riconoscimento quale testimonianza di una prassi altrimenti non documentata per la
realizzazione di quelle che abbiamo definito pietre rosse ricostruite54». Questa della Tordella è
solo un'ipotesi, ma certamente il carattere e la curiosità di Leonardo, che lo portano a
sperimentare e conoscere sempre cose nuove, non la smentiscono. Non è improbabile,
pertanto, che per esigenze disegnative, il maestro abbia cercato di piegare un mezzo naturale
di cui aveva già riscontrato le problematiche (v. nota 26), alla sua volontà.
Continuando su questa linea, pur rimanendo nel campo delle ipotesi, non è poi così peregrino
vedere un collegamento tra il «lapis amatita macinata» e gli strumenti del «colorir a secco»,
citati dallo stesso Leonardo nel Codice Atlantico.


          1.3.3 La matita colorata o pastello.


        L'uso della matita colorata artificiale (o pastello), così come delle matite nera e rossa
naturali o artificiali, si sviluppa nel fervido ed eclettico clima culturale di inizio XVI secolo.
In ambito italiano, viene generalmente attribuita la paternità della tecnica a Leonardo da
Vinci, il quale nel Codex Atlanticus (Biblioteca Ambrosiana, Milano) afferma di dover
apprendere «il modo di colorir a secco» di Gian de Paris, riconosciuto dagli studiosi come
Jean Pérreal55, artista lionese alla corte di Francia, prima con Carlo VIII (1470-1498) e poi
con Luigi XII (1462-1515), che fu nella penisola e in particolare a Milano durante la seconda
campagna d'Italia (1498-1515), che portò alla conquista della città sforzesca da parte della
Francia e alla reclusione del Duca Ludovico Sforza il Moro. L'unico altro riferimento alle
«punte da colorir a secco» da parte di Leonardo lo troviamo nel Codice Foster II (Victoria &
Albert Museum, Londra). In questo caso Leonardo dà una ricetta che però coincide con la
realizzazione dei cosiddetti pastelli a cera56 e non delle matite a pastello, che potrebbero
derivare sia dalla tecnica appresa da Jean Pérreal sia dalla pratica di bottega e, in particolare
come ipotizzato nei paragrafi precedenti, dalla pratica di realizzazione delle matite rossa e

53 J.P. Richter,1939, Manoscritto F dell'Institut de France, Parigi, 1508-9, fol. 96A
54 P.G. Tordella,1996, p.187-207.
55 N. Reynaud, 1996, p.36-46
56 Leonardo Da Vinci; Codice Forster II,(1495-1497), in W. Richter, 1939. «Per fare punte da colorire a secco; la tempera
   con un po' di ciera e non cascherà, la qual ciera disoluerai con acqua, che, tempera la biacca, essa acqua stillata se ne vada
   in fumo e rimanga la ciera sola, e farai bone punte; ma sappi che bisogna macinare i colori colla pietra calda.»
nera artificiali. Non c'è ombra di dubbio, comunque, che Leonardo abbia usato questo
strumento disegnativo, vista anche l'eredità lasciata ai suoi seguaci. La tecnica a secco, ovvero
a matita colorata, è utilizzata, infatti, anche da Boltraffio e Luini, come vedremo in seguito.
Ma non solo, si presenta anche in alcuni artisti che vennero a contatto con Leonardo negli
anni successivi alla sua partenza da Milano, come in Fra Bartolomeo nello Studio per il volto
di un angelo (Rotterdam, Museum Boymans-von Beuningen, Inv. n. 175)57.
        Sono poche le fonti storiche che trattano questo medium prima della seconda metà del
XVI secolo. I primissimi autori che citano il termine pastello risalgono agli anni Quaranta del
Cinquecento e si riferiscono ad artisti di ambito veneto. Si tratta delle annotazioni sul diario-
spese di Lorenzo Lotto e della lettera scritta da Paolo Giovio. Dopo la seconda metà del
secolo anche altri autori citano nei loro trattati il termine pastello e sono Lomazzo, Armenini,
Allori e Cellini. Le informazioni che ci pervengono da questi scritti sono interessanti, ma non
ci permettono di capire molto sul modo pratico di realizzare i pastelli. Inoltre fanno intendere
che l'uso della matita colorata doveva essere una pratica poco frequente e probabilmente
sviluppatasi di recente. L'annotazione di Lotto: «per conzar pastelli58», ad esempio, ci informa
solo che questo artista probabilmente usava questi strumenti e che di conseguenza dovette
annotare sul suo libro spese i materiali per ottenerli; mentre la lettera di Giovio, indirizzata a
Pietro Aretino e datata 11 marzo 1545, esprime solo il desiderio di avere «uno schizo de
colori, se ben de pastelli» del letterato e che sia «piccolo de mezzo foglio, se non in tela, [fatto
dal] signor Tiziano acciò che al sacro museo si vegga la propria effige59».
        Come fanno notare diversi studiosi60, Lomazzo ci informa, invece, nel suo testo del
158461, dell'esistenza «[...] d'un altro certo modo di colorare che si dice a pastello, il quale si
fa con punte composte particolarmente in polvere di colori che di tutti si possono comporre. Il
che si fa in carta e fu molto usato da Leonardo Vinci, il quale fece le teste di Cristo e
degl'Apostoli, a questo modo eccellenti e miracolose in carta». Le informazioni che si
possono estrapolare da questo testo non permettono di comprendere pienamente le modalità di
realizzazione di questi «pastelli», viene indicato solamente che si possono fare di qualsivoglia
colore in polvere; mentre l'uso del termine pastello ci permette solo di dedurre che venisse
realizzato un impasto e ciò richiederebbe l'ausilio di un mezzo liquido, probabilmente un
legante - ma questa è solo una speculazione che non si può evincere direttamente dal testo.
L'informazione importantissima che Lomazzo elargisce in questo testo riguarda, invece,


57 T. Burns; 1994, p.49 «It is generally agreed that Fra Bertolommeo was influenced in style and technique by Leonardo
     […], Fra Bartolommeo's 'beautiful and poetic' study of the angel's face reflects his response to the art of Leonardo...» e
     continua dicendo «Because the work of these artists developed in a related artistic context, it is logical to assume that
     Leonardo's achievement influenced the younger Fra Bartolommeo in his material and technical choices».
58   P. Zampetti, 1969, pp.241-249 e in V. Romani, 2000, p.69-81
59   P. Giovio, 1956-1958, II, p.11, n.206 e in V. Romani, 2000, p.69-81
60   Meder, 1978, p. 100; A. Petrioli Tofani, 1991, p.171; V. Romani, 2000, p.69-81, P. Barocchi, 1971, p. 2227-2272; ripreso
     anche da A. Ballarin, 2010, nel testo in corso di pubblicazione.
61   G.P. Lomazzo, Milano 1584, La virtù del colorire, P. Barocchi, 1971, p. 2227-2272, V. Romani, 2000, p.69-81
Leonardo da Vinci. Infatti l'autore crea un vero e proprio legame tra l'artista e la tecnica
affermando che Leonardo utilizzò moltissimo il pastello e cita, addirittura, un'opera da lui
realizzata: le teste di Cristo e degli apostoli, intese da diversi studiosi come i disegni
preparatori preposti alla realizzazione dei personaggi dell'Ultima Cena della chiesa milanese
di Santa Maria delle Grazie, studi per i quali si fece largo uso anche della matita rossa 62 (v.
sopra). Nonostante non ci siano pervenuti disegni incontestabilmente autografi di Leonardo
realizzati a pastelli colorati relativi al Cenacolo, il riferimento è molto importante perché dà
un appiglio temporale per poter definire il momento di utilizzo da parte dell'artista delle
matite colorate. L'affresco venne, infatti, realizzato tra il 1495 e il 149763. Come fa notare
Marani64, «la critica moderna ha comunque ipotizzato l'esistenza di un “cartone” originale
[oppure di disegni preparatori] di Leonardo per il Cenacolo, soprattutto considerando
l'esistenza di due serie di disegni di allievi o seguaci che sembrano derivare, non dal dipinto
murale, ma da un supposto “cartone” di Leonardo (o da suoi disegni perduti) data la loro
perfetta corrispondenza con quello». Le serie di disegni a cui si riferisce Marani sono
evidentemente quelle di Strasburgo e dell'ormai dispersa collezione del castello di Weimar,
riproducenti le teste degli apostoli trattate anche da Ballarin65. Questi disegni richiamano
perfettamente la tecnica descritta da Lomazzo. Si tratta, infatti, di pastelli colorati su carta
preparata che ricordano un ulteriore foglio, la cui autografia leonardesca è molto discussa66 a
causa dell'abbondante presenza di ritocchi e ripassature: la Testa di Cristo della Pinacoteca di
Brera (Inv. Gen.150; Cat. 280, Tav I). Per quanto riguarda la funzione di quest'opera sono
state formulate diverse ipotesi e si è giunti alla conclusione che «non può assolutamente
trattarsi […] di una derivazione dal dipinto67» poiché mancano alcuni particolari ( la barba e la
stola) e sono presenti delle licenze artistiche non ravvisabili in parete (incurvatura del naso
più accentuata e forma meno “classica”). Pertanto si è pensato che possa trattarsi o di un
disegno-copia realizzato in piena libertà espressiva ed interpretativa da parte dell'esecutore
(come succede nei disegni della serie di Strasburgo) o che si tratti di uno studio precedente
modificato in alcuni particolari al momento della stesura in parete. Le fonti non fanno mai
riferimento a un cartone per l'Ultima Cena, ma ciò non permette di escludere che il maestro
abbia potuto realizzare un disegno preparatorio, magari traendo spunto da un modello al
naturale, sopratutto per la Testa di Cristo visto il famoso passo del Vasari68 in cui viene
esposta la difficoltà di Leonardo di realizzare proprio questo particolare, che decide di lasciare

62 Pinin Brambilla Bacinon, P.C. Marani, 1999: Durante le fasi del restauro dell'Ultima Cena sono state ritrovate «tracce di
   terra rossa stese sull'intonaco in prossimità della figura di Matteo», p. 22-36.
63 De Vecchi, P., Cerchiari, E., 2004, p.299
64 Pinin Brambilla Bacinon, P.C. Marani, 1999, p.22-36
65 A. Ballarin, 2010, in corso di Pubblicazione.
66 P.C. Marani et Al., 1986, p.29; A. Marinoni, L. Cogliati Arano, 1982, p.91-93; G. Bora et Al, 1987, p. 74-77 e A. Ballarin,
   2010, in corso di Pubblicazione.
67 Come, invece, affermava Venturi. In P.C. Marani et Al., 1986, p.30
68 G. Vasari, 1550, «Non voleva cercare in terra , e non poteva tanto pensare che nella immaginazione gli paresse poter
   concipire quella bellezza e celeste grazia che dovette essere quella della divinità incarnata».
volutamente incompiuto.
        Lomazzo ci informa anche su una particolarità di questa tecnica disegnativa, ovvero che
così come è «difficile il colorire in questo nuovo modo, tanto è egli facile a guastarsi 69». Ed
infatti, una problematica riscontrata in tutti i tipi di pastello è quella della fragilità delle opere
e della loro suscettibilità all'asportazione meccanica dello strato pittorico, tanto che nel XVIII
secolo diversi personaggi si adopereranno per trovare il più opportuno metodo di fissaggio per
la conservazione delle opere a pastello.
        Giovan Pietro Armenini, nel 1586, ci informa su quella che poteva essere una funzione
del disegno a pastello: lo studio preparatorio su muro. Infatti, discutendo a proposito del
colore, sottolinea la difficoltà di ottenere «le mestiche», ovvero le mescolanze dei colori, e di
prevedere l'effetto che avranno sul muro. Per questo motivo, aggiunge «ci sono di quelli
[pittori] che, per non averle a mendicar sul muro, prima le imitano con i pastelli benissimo 70».
Inoltre, nel sesto capitolo del suo testo71, elargendo consigli pratici ai giovani che
intraprendono la strada dell'arte del disegno e della pittura, Armenini utilizza nuovamente il
termine pastello, attribuendogli una seconda funzione: il pastello come strumento
propedeutico ad una forma di disegno che potremmo definire disegno didattico, ovvero
finalizzato allo studio e al perfezionamento della tecnica da parte di un artista principiante. Il
consiglio di Armenini per imparare il modo corretto di distribuire le «mestiche ed i colori
diversi» sul supporto, è di osservare le opere dipinte «dai più eccellenti nostri moderni, perciò
siccome queste sono sparse in più paesi e città, gli è necessario di andarle con più tempo e con
stenti a minuto considerarle, e se gli è possibile provasi ad imitarle coi colori, o in tavolette, o
in carte, o tutte, o parte delle cose più belle e coi pastelli, o con altra materia averne copia per
poter servirsene poi né loro bisogni». Una simile funzione potrebbe connotare i disegni a
pastello della serie di Strasburgo attribuiti a Boltraffio72, di cui si è parlerà in seguito.
        Molto interessante è, anche, il riferimento al pastello riportato nel «Primo Libro de’
ragionamenti delle regole del disegno d’Alessandro Allori con M. Agnolo Bronzino73».
Questo testo si impronta su un dialogo tra un certo M. Vincenzo e altri due interlocutori, in cui
si dibatte sul tema della distinzione tra il disegno e la pittura. Nel cuore del discorso, M.
Vincenzo ricordò che, al suo tempo, «si fanno certi [strumenti] che gli chiamano pastelli, che
sono di tutti i colori, sì com'io già vidi fare a uno amico pittore, che gli riduceva come una
pasta soda e di poi ne faceva punte come si fa della matita, e con essi contraffaceva la carne et
insomma tutti i colori...». Unendo queste alle informazioni fornite da Lomazzo, veniamo a
sapere da Allori che effettivamente il procedimento di produzione dei pastelli poteva
coinvolgere diversi colori e che prevedeva la formazione di una «pasta soda» a cui poi si dava
69   G.P. Lomazzo, 1584
70   G.B. Armenini, 1587 (a cura di M. Gorreri, 1988), p. 133. e in V. Romani, 2000, p.69-81
71   G.B. Armenini, 1587, p. 58-59
72   A. Ballarin, 2005.
73   A. Allori, in P. Barocchi, 1971, p.1946-1947
la forma di una punta, come si fa con la matita, quindi con l'ausilio di un coltello come visto
sopra per le matite rossa e nera. Ma ancora non sappiamo quale potessero essere gli altri
ingredienti coinvolti nel processo produttivo di questi strumenti.
       Maggior chiarezza su questo punto ci perviene dal riferimento al pastello di Benvenuto
Cellini, il quale ci informa della consuetudine, del suo tempo, di fare «pastelli grossi quanto
una penna da scrivere, i quali si fanno di biacca con un poco di gomma arabica74» che
venivano utilizzati per realizzare le lumeggiature sui disegni. Finalmente con Cellini abbiamo
un primo riferimento sul legante utilizzato per la realizzazione dei pastelli: la gomma arabica.
Solamente con questi scarsi riferimenti e senza, per il momento, prendere in considerazione le
ricette più approfondite riportate nei trattati tecnici del Cinquecento e Settecento, potremmo
essere in grado di definire cosa fosse la matita colorata, ovvero il pastello, fin dalla sua
origine. Si trattava, infatti, di una pasta realizzata attraverso il mescolamento di pigmenti in
polvere colorati con un mezzo legante, come ad esempio la gomma arabica. Questa pasta, una
volta essiccata, veniva modellata come si era soliti fare per le matite: per mezzo di un
coltellino si procedeva alla formazione della punta.
       Nonostante Lomazzo ritenga «difficile il colorire in questo modo», il pastello, come
medium grafico, presenta dei vantaggi considerevoli, rispetto agli altri strumenti del disegno,
che ne ha permesso una rapida diffusione soprattutto dalla metà del Cinquecento, fino allo
sviluppo dei secoli successivi. Innanzitutto consente di lavorare velocemente, senza necessità
di preparazione preliminare del mezzo, e questo dal punto di vista del modus operandi facilita
l'artista nel trascrivere un'emozione o un'idea immediata. In secondo luogo il pastello e la
matita sono facilmente rimovibili, pertanto la tecnica permette sia i ripensamenti che le
sovrapposizioni successive. Infine, il pastello, «è linea e colore allo stesso tempo75». Questa
caratteristica è determinante, perché inserisce un valore coloristico nella pratica tradizionale
del disegno che permetterà di emulare gli effetti sottotonali della pittura e di ottenere una resa
più veritiera e reale dei volumi. Ciò significa che il «nuovo modo di colorire a secco»
permette di dipingere su carta. Questo dato è importantissimo nel primo Cinquecento, perché
modifica il modo di concepire la produzione grafica e favorisce una rapida evoluzione dei
mezzi disegnativi. Infatti, la possibilità di dipingere su carta ha un duplice effetto: da un lato
eleva la pratica disegnativa allo stesso rango di quella pittorica, e questo aspetto è pienamente
espressione della maniera moderna; in secondo luogo fa assumere maggior rilievo al disegno
in ambito collezionistico, in quanto questo non è più solo studio propedeutico all'artista, ma
diviene opera d'arte indipendente, che presenta delle chance in più rispetto alla pittura
tradizionale, perché la tecnica può contare anche su soluzioni estetiche proprie solo del
disegno: il non-finito, l'abbozzo.

74 B. Cellini, in P. Barocchi, 1971, p.1929-1930
75 G. Monnier, 1996, p.241-245
Modulando le proporzioni dei materiali costituenti e miscelando pigmenti diversi è
possibile ottenere uno strumento dalle caratteristiche controllate che permetta di raggiungere
gli effetti desiderati. Per questo motivo nei secoli successivi, sopratutto dalla metà del '600 in
Inghilterra e Francia, ma anche in Italia e Olanda, la nuova tecnica prese piede e iniziarono a
proliferare molte più ricette sui pastelli. La preferenza dell'alta società europea per questo
nuovo tipo di pittura è dovuta probabilmente al modo in cui alcuni esperti la presentarono.
Luttrell76, Gautier77 e Peacham78 la definirono un'appropriata attività per gentiluomini e un
adeguato sostituto alla pittura ad olio. Il dipingere a pastello era considerato più semplice
rispetto alla pittura ad olio, più pulito e facilmente trasportabile79 – ideale, quindi per l'attività
pittorica dei giovani impegnati nel Gran Tour80. Permetteva di produrre «superfici altamente
rifinite emulanti la pittura ad olio81», ma differentemente da quest'ultimo, il pastello è uno
strumento asciutto pertanto il working-in-progress poteva essere interrotto e ripreso più volte
senza rischiare di compromettere il risultato finale a causa dell'asciugatura della superficie
pittorica. Il ritocco è consentito e facilitato dalla scarsa aderenza della stesura, non è
necessario fare attenzione alle mescolanze dei colori, perché le diverse sfumature sono già
create a forma di bastoncino prima dell'esecuzione dell'opera; infine la superficie opaca del
dipinto a pastello non causa lo spiacevole riflesso che invece è presente nelle opere ad olio.
        I pastelli in questo periodo potevano essere acquistati anche in stick pronti all'uso ed
erano poco costosi; due particolarità che ne facilitarono la diffusione anche al ceto meno
abbiente.


1.4       Scelta esecutiva di un medium grafico: le funzioni del pastello.


       Nell'Italia rinascimentale, così come avviene oggi, la scelta del medium grafico da parte
di un artista doveva essere legata al tipo di disegno e alla sua funzione. Di conseguenza se il
dettaglio e la minuzia erano le caratteristiche principalmente ricercate, l'artista avrebbe rivolto
la sua attenzione a strumenti che gli permettevano di ottenere un segno fine, regolare e veloce
come l'inchiostro e la penna dalla punta sottile, o lo stilo d'argento. Quando, invece, l'effetto
ricercato riguardava la rappresentazione del reale attraverso la distribuzione di luci ed ombre
oppure lo studio del cangiantismo dei colori, della loro distribuzione e dell'effetto sulla
visione d'insieme, allora l'acquerello, il pastello e in un certo qual modo anche l'associazione
di matite a due o tre colori, divengono i media grafici prescelti. Le motivazioni che spingono


76 E. Luttrell, 1683, p. 29
77 H. Gautier De Nismes, (1687), Bruxelles, 1708, p. 22
78 H. Peacham (1634), Oxford, 1906, p.46
79 J. M. Muller e J. Murrell 1997, De Piles, 1684, p.10
80 E. De Beers, 1955, p. 208, dove nella trattazione relativa al diario di John Evelyn è confermata questa pratica aristocratica
   di portare i pastelli con sé durante i viaggi per l'Europa.
81 R. de Piles; Parigi, 1684, p.91
l'artista a sceglierne uno piuttosto che l'altro dipendono, oltre che dalle preferenze soggettive
quali la manualità personale o la simpatia verso una determinata tecnica, anche da fattori più
oggettivi, tra i quali spiccano la scelta del soggetto da rappresentare, lo scopo estetico che si
desidera raggiungere, le tendenze e le spinte del mercato dell'arte e, nel caso dei disegni
preparatori, la tecnica esecutiva con cui dovrà essere eseguita l'opera finale.
       Alla fine del XV secolo tutte e tre le tecniche sopracitate erano in uso nelle botteghe
antiche. Ma, mentre l'acquerello è una tecnica liquida e può vantare un'origine più antica,
tanto che lo stesso Cennini fornisce le informazioni necessarie all'uso della stessa82; l'arte di
“colorire a secco” è tipicamente tardo quattrocentesca – Leonardo, infatti, la menziona per la
prima volta nel Codice Atlantico solo verso gli anni Novanta del Quattrocento – si rafforza nel
Cinquecento, dove viene battezzata con il termine pastello iniziando ad essere menzionata dai
trattatisti, per avere, infine, uno sviluppo eclatante verso la fine del XVII – inizio del XVIII
secolo con il passaggio da mezzo grafico-disegnativo a vera e propria tecnica pittorica.
       I campi d'applicazione del pastello sono legati a questo sviluppo storico-artistico della
tecnica. Come fa presente McGrath83, in alcune occasioni il desiderio di aggiungere colori
descrittivi ai disegni, incoraggiò gli artisti a ricorrere alle matite colorate fabbricate, ovvero ai
pastelli, per diversi scopi. Il pastello lo vediamo, infatti, impiegato in svariate situazioni e per
molteplici finalità: per lo studio dei volti o più in generale per lo studio di figura che sfocerà
nel Settecento nel ritratto vero e proprio a pastello; per lo studio di animali; per gli studi di
composizione per opere ad olio, come quelli dell'artista veneto Jacopo Bassano, in diretta
opposizione con gli studi di composizione ad acquerello di affreschi centro italiani;
nell'esecuzione dei cartoni preparatori, come nel caso del cartone per il Ritratto incompiuto di
Isabella d'Este di Leonardo. Nel Seicento, il pastello viene utilizzato anche per la
realizzazione dei modelli per l'incisione in mezzotinto, tecnica che proprio in questo periodo
si sviluppa, come nel caso delle opere di Robert Nateuill. Nel Settecento, infine, si sviluppa
come opera d'arte a sé stante, senza alcuno scopo funzionale: è il caso questo di artisti
internazionali come l'italiana Rosalba Carriera, lo svizzero Liotard o di francesi come: Joseph
Vivien, Antoine Watteau, François Boucher, Jean-Baptiste Perronneau, Maurice-Quentin De
LaTour o di Chardin, per citarne solo alcuni.
       Le motivazioni, che dal XV secolo, spingono gli artisti ad aggiungere il colore alle loro
opere grafiche, possono essere diverse e spesso sono riconducibili alle diverse fasi
dell'operazione progettuale. Si può considerare ad esempio il desiderio dell'artista di
sperimentare la resa cromatica di un particolare, o una posa o uno scorcio impegnativi: si
incontrano allora, i cosiddetti studi di dettaglio, ovvero disegni che presentano solo alcuni
dettagli rifiniti con il colore, come l'accessorio peculiare, un pizzo, un fronzolo, o un

82 F. Frezzato, 2003, p. 83-85
83 T. McGrath, 2002.
particolare anatomico, l'occhio, la bocca o un intero volto. La stesura cromatica poteva essere
dettata, anche, dalla necessità di creare un modello visivo, una sorta di fac-simile, per il
committente dell'opera, in quel caso si sottoponeva il disegno, che presentava gli stessi colori
che avrebbe dovuto avere l'opera finale, al vaglio del mecenate . Altre volte, l'uso del pastello
poteva essere dettato da necessità salutistiche: McGrath84, ipotizza che l'uso esteso delle
matite colorate fabbricate da parte del Barocci, sia da attribuire alla «volontà dell'artista di
studiare gli effetti coloristici della sua pittura e allo stesso tempo eliminare l'esposizione a
materiali che sconquassassero il suo stomaco85», ciò gli era permesso grazie al fatto che con la
tecnica del pastello «poteva raggiungere risultati simili a quelli della pittura ad olio», come
verrà dettagliatamente spiegato in seguito. Infine, un'ultima motivazione poteva derivare
direttamente dalle preferenze o esigenze di mercato. Nel Cinquecento, in particolare si
sviluppa un forte interesse verso il collezionismo delle opere grafiche. Gli artisti non sono
sordi a questi input collezionistici e con il passare del tempo iniziano a creare disegni il cui
scopo finale è quello di finire sul mercato. Con questi presupposti si innesca il fenomeno del
passaggio da disegno funzionale a disegno a sé stante, il quale si arricchisce sempre più
spesso di effetti coloristici: si prendano ad esempio i disegni a due o tre matite di Zuccaro e di
altri artisti della scuola romana.
       Di seguito si cercherà di approfondire il discorso sulle funzioni e le motivazioni nell'uso
del pastello, arricchendo lo studio con esempi e confronti che permettano di motivare le
affermazioni appena riportate. Si proverà ad individuare a quale livello ideativo del
procedimento appartengono i disegni eseguiti a pastello, e vedremo come questa tecnica
coloristica sia riuscita ad entrare in tutte le tipologie del disegno e si sia poi sviluppata in
modo autonomo divenendo una vera e propria tecnica pittorica.


1.4.1 L'uso del pastello nell'esecuzione di un cartone: la nascita del cartonetto colorato.


       Il cartone86 è un progetto elaborato in modo definitivo e in scala reale per una precisa
opera, da trasferire sul supporto tramite mezzi meccanici quali lo spolvero, la quadrettatura o
il ricalco. Questo tipo di disegno, la cui funzione specifica è di trasportare lo studio su carta
del soggetto e aiutare l'artista nella realizzazione dell'opera finale, è spesso facilmente
riconoscibile grazie alla presenza delle tracce propedeutiche al trasferimento, quali i fori dello
spolvero, la griglia per il trasferimento proporzionale, o i segni del ricalco. Per questo motivo
si tende ad individuare il disegno con Ritratto di Isabella d'Este (Inv. n. MI 753, Tav I),
eseguito da Leonardo, come un cartone preparatorio. Il disegno si presenta forato lungo i
84 T. McGrath, 2002, p.73-74.
85 E. Borea, 1976, pp.177-207 [NDR] Bellori è la fonte che ci informa del presunto avvelenamente del Barocci da parte
   degli artisti romani con cui collaborava (es. Zuccaro) e dei conseguenti problemi di stomaco che lo costrinsero a limitare
   l'uso di media liquidi in favore del pastello.
86 Per una maggiore trattazione sull'argomento si veda il testo di M.C. Galassi, 1998.
contorni, quindi predisposto per un eventuale trasferimento tramite lo spolvero che Leonardo,
sicuramente utilizzava a cavallo tra Quattro e Cinquecento87. Questo cartone è probabilmente
l'unica opera di Leonardo pervenutaci che attesti l'utilizzo da parte del maestro della tecnica
del «colorir a secco», ovvero l'uso delle matite colorate. Venne realizzato alla fine del XVI
secolo a matita nera, rossa, e pastello giallo ocra, ed è oggi conservato al Département des
Arts Graphiques del Louvre. È opinione condivisa che il ritratto sia stato commissionato dalla
marchesa in occasione della sosta compiuta da Leonardo a Mantova tra il 1499-1500, dopo la
partenza da Milano in seguito all'occupazione francese. L'interesse di Isabella verso la
ritrattistica del maestro, è precedente ed è attestato dalla lettera del 26 aprile 1498 indirizzata
a Cecilia Gallerani, dove la nobile chiede di ricevere il ritratto che alcuni anni prima le aveva
fatto il maestro toscano, per poterlo confrontare con i ritratti di Giovanni Bellini. L'ipotesi, è
quindi, che Leonardo abbia realizzato due disegni e che, uno sia rimasto a Mantova e sia stato
presto alienato (tanto che Isabella è indotta a scrivere a Fra' Pietro da Novellara di Firenze per
chiedere un nuovo ritratto), mentre l'altro l'abbia portato con sé, prima a Venezia88 e poi a
Firenze, dove ha ricavato il cartone da noi conosciuto. Il cartone non fu mai tradotto in
pittura, nonostante le insistenze della committente, che nel 1504 vi rinunciò in cambio
dell'immagine di un «Christo giovenetto de anni circa duodeci»89.
       Il procedimento tecnico-stilistico adottato per questo disegno, dove Leonardo combina i
pastelli su disegni sottostanti realizzati a matita rossa e lapis nero, mostra in primo luogo una
forte propensione alla regolarizzazione dei volumi, che conduce in seconda battuta alla resa di
effetti monumentali, che sono accentuati anche dalla frontalità con cui è presentato il busto,
rispetto alla posa di profilo del volto.
       Il colore potrebbe essere chiamato ad assolvere anche a un'altra funzione, diversa da
quella della costruzione lineare-volumetrica del corpo o della semplice realizzazione del
cartone. È possibile che il pastello sia stato scelto da Leonardo come strumento disegnativo
per l'impossibilità di eseguire un ritratto ad olio della marchesa a causa della brevità del
soggiorno dell'artista a Mantova90. Il medium adottato, per la facilità e velocità di stesura che
lo caratterizzano, potrebbe essere stato utilizzato per la rapida esecuzione del disegno e con
l'intento di fissare qualche particolare o qualche dato coloristico (come la massa scura dei
capelli o l'orlo dorato del colletto) che si sarebbe potuto dimenticare al momento della
realizzazione del dipinto. Il fatto, però, che Leonardo abbia scelto di utilizzare un mezzo
inconsueto come il pastello e che abbia cercato di riportare sul foglio il maggior numero di

87 Leonardo da Vinci, Codice A, f 1r; cfr. Panichini, 1977, p.215: «prepara il legname per dipingervi su...e poi spolverizza e
   profila il tuo disegno sottilmente».
88 La presenza di un ritratto di Isabella a Venezia è testimoniata dalla lettera del 13 marzo 1500, di Lorenzo da Pavia in cui
   afferma: «e l'è a Venezia Lionardo da Vinci, el quale m'ha mostrato uno retrato de la S.V. che è molto naturale a quela. Sta
   tanto ben fato, non è possibile melio».
89 Lettera del 24 maggio 1504 scritta direttamente a Leonardo da Isabella.
90 Dopo Mantova, Leonardo venne chiamato a Venezia dalla Repubblica Serenissima per effettuare un sopralluogo
   sull'Isonzo, a causa della minaccia turca. Il suo viaggio, comunque, riprese quasi immediatamente alla volta di Firenze
dettagli realistici possibile, compresi la modulazione dei colori e la cangianza dei lumi che
definiscono le masse corporee, fa assumere al disegno «l'aspetto di vero e proprio ritratto-
disegnato, ovvero di un ritratto condotto con le sole risorse del disegno 91». La grandezza di
quest'opera si risolve tutta in questa caratteristica. Leonardo deve aver scelto di fare un
ritratto-disegnato perché sapeva di poter disporre di strumenti nuovi che gli avrebbero
permesso di realizzare, pur disegnando, un ritratto tale da poter gareggiare con la pittura,
finanche a superarla perché l'artista, con questa nuova tecnica, può contare anche su soluzioni
estetiche proprie del disegno quali l'abbozzo o il non-finito. Queste caratteristiche del Ritratto
di Isabella denotano l'elevato grado di maturità raggiunto dalla concezione costruttiva del
maestro, il quale crea un qualcosa di nuovo che è pienamente espressione della maniera
moderna e che si rinviene anche nei disegni dei suoi allievi.
       Probabilmente affascinati dai risultati ottenuti da Leonardo nella tecnica del «colorire a
secco», Giovanni Antonio Boltraffio e Bernardino Luini seguirono le orme del maestro,
continuando ad usare le matite colorate e ottenendo risultati degni di nota. Il primo realizzò
tre disegni, in questa tecnica, che possono essere considerati come cartonetti colorati: uno
Studio di giovane donna a mezzo busto in vista frontale, da alcuni ritenuto preparatorio per la
Santa Barbara del museo di Berlino o per un perduto Ritratto di Isabella di Aragona e un
Ritratto di giovinetto conservati entrambi all'Ambrosiana di Milano (rispettivamente Inv. n. F
290 Inf.7; Inv. n. F 290 Inf. 8), oltre a uno Studio di testa femminile (Inv. n. 17184 F, Tav. III)
degli Uffizi, «studio dal vero» per la madonna della pala Casio92. L'altissimo grado di messa a
punto raggiunto in questi disegni, che tra l'altro non riesce a reggere nel trapasso alla pittura,
avvalora la tesi dell'invenzione del Ritratto-disegnato. Bambach93, ad esempio, crede che
questi disegni di Boltraffio siano un lavoro indipendente e non legato ad un'opera finita, in
quanto ritiene che un disegno così rifinito dovesse essere poco pratico e ridondante per lo
scopo a cui doveva assolvere un disegno preliminare: essere una traccia di base per il
trasferimento su altro supporto. Mentre Forio fa notare che c'è stato un «passaggio ad una
concezione grafica rivolta ad effetti più propriamente pittorici, non solo nelle più ricche scelte
cromatiche, ma anche nella ricerca di tratti più morbidi che non chiudono la forma nel segno
definitorio della punta d'argento ma la aprono a un più libero contatto con la luce»94. Anche il
secondo, Luini, raggiunge gli stessi risultati nel suo Ritratto di donna in mezzo busto di
trequarti dell'Albertina (Vienna, Graphische Sammlung, Inv. n. 243, Tav. IV), che secondo un
ipotesi raffigurerebbe Ippolita Bentivoglio. Questo è l'unico disegno a matita colorata che ci è
pervenuto dell'artista ed è ritenuto da molti un capolavoro del disegno a pastello del XVI
secolo. Dal punto di vista tecnico-esecutivo, Luini accentua a matita colorata solo alcune zone

91 A. Ballarin, 2010, in corso di pubblicazione.
92 Fiorio, M.T., 2000, p.50
93 Bambach, C.B.et al., 2003, p.658
94 Fiorio, M.T., 2000, p.50.
particolari, quali l'incarnato del volto, in cui utilizza un soffice sfumato per articolare gli
effetti tonali, i capelli e il cappello. Lascia, poi, la maggior parte della figura abbozzata sia
con la matita nera, soffice e argentea ,che a carboncino. Ne risulta un dinamico contrasto di
finito e non finito, di aspetto molto simile a quello del cartone per il ritratto di Isabella d'Este,
e del tutto in sintonia con quanto detto prima riguardo ai vantaggi del ritratto disegnato.


1.4.2 L'uso del pastello nel ritratto celebrativo.


       Mentre Leonardo e i suoi allievi milanesi, realizzano con le matite colorate dei ritratti
disegnati, che solo in un secondo momento vengono recuperati come cartoni o modelli di
opere finite, nella produzione di Hans Holbein il Giovane e di Jean e François Clouet, l'uso
delle matite colorate ha come scopo lo studio per un'opera finale di tipo celebrativo e forse,
anche la necessità di costruire un modello per il committente, generalmente un personaggio di
alto rango sociale molto legato all'ambiente di corte.
       Il ritratto celebrativo è un'opera che nasce per rappresentare ed esaltare la persona
raffigurata. Pertanto, proprio per la funzione a cui deve assolvere, i personaggi ritratti
mostrano una serie di caratteristiche peculiari e comuni, quali: la rappresentazione
monumentale del soggetto a mezzobusto, la posa generalmente di trequarti e la ricchezza
descrittiva dei particolari dell'abbigliamento, sopratutto di quelli lussuosi o caratteristici che
denotano il tenore di vita e la classe sociale d'appartenenza.
       Alcuni esempi di ritratto celebrativo a pastello di Jean Clouet sono il Ritratto di
Guillaume Gouffier, seigneur de Bonnivet (Chantilly, Musée Condé, Inv. n. MN 153, Tav. V),
il Ritratto di Marie de Langeac, Madame de Lestrange (Chantilly, Musée Condé, Inv. n.
MN211 Tav. VI), e il Ritratto di Antoinette de Cerisay detta "La Chanceliere Olivier"
(Vienna, Graphische Sammlung der Albertina, Inv. n. 11184) che esemplificano il metodo
disegnativo del maestro francese, che consiste nel «definire il soggetto non tanto con un'unica
linea di contorno, ma piuttosto con tratti paralleli, sottili e lunghi, piuttosto spaziati di
pastello»95, come ben si vede sul copricapo di Guillaume e sui capelli di Madame de
Lestrange.
       Il metodo di Holbein è, invece, diverso. Holbein definisce maggiormente i contorni con
un disegno lineare e sciolto, condotto interamente a pastello e poi rifinisce in maniera
sorprendente il volto e pochi altri particolari, quali i gioielli o gli accessori delle signore.
Tramite il pastello riesce a conferire una stupefacente vitalità al personaggio, sia
nell'espressione che nell'animazione. Alcuni studiosi96 credono che abbia acquisito la tecnica
direttamente da Clouet durante il suo soggiorno francese (1524), ma Meder 97 fa notare che già
95 S. Foister, London, 1983, p.28
96 N. Jafferes, 2006, p. 758
97 Meder, 1978, p. 101
nel Ritratto di lebbroso (Cambridge, The Fogg Art Museum, Harvard University, Inv.
n.1927.425.Meta and Paul J. Sachs Collection) datato 1523, quindi antecedente al viaggio in
Francia, Holbein utilizzava il pastello. È presumibile pertanto che la tecnica l'avesse imparata
precedentemente, forse in Svizzera, e che in seguito si fosse sviluppata in Francia - anche
grazie al contributo di Clouet - dove sussisteva da tempo una consolidata tradizione di disegni
preparatori a pastello - basti pensare al primo disegno a pastello di Jean Fouquet e al celebre
Jean Perréal, che suscitò l'interesse di Leonardo. Molto interessante, per comprendere la
tecnica a pastello di Holbein sono alcuni disegni del maestro conservati nel castello di
Windsor, per citarne solo alcuni, il Ritratto di Lady Grace Parker (Inv. n. 28, Tav. VII), la
figlia di sir John Newport, il Ritratto del conte Bedford (Inv. n. 69) o quello del conte di
Southampton (Inv. n. 66).


1.4.3 L'uso del pastello nella pratica di bottega: ricordi e modelli per il committente.


       Il modello per il committente è un disegno-progetto, generalmente ben rifinito,
realizzato dall'artista per sottoporre le sue idee al vaglio del mecenate che gli ha
commissionato l'incarico; mentre i ricordi potrebbero essere definiti come delle copie
dettagliate dell'opera finale, realizzate dal maestro a scopo documentario o quale promemoria
della sua attività in modo da costruire per sé un repertorio di immagini-campione. Il ricordo,
nell'ambiente di bottega, poteva assolvere anche ad altre due funzioni: essere la base per
l'insegnamento e il praticantato degli allievi, che spesso consisteva nel ricopiare questi ricordi
per impratichirsi nel disegno, oltre ad essere un ausilio per combattere la falsificazione (il
ricordo, in questo caso, attesterebbe la paternità dell'opera).
       Gli scopi per cui si realizzano queste tipologie disegnative sono quindi diversi, ma non
si può escludere che un modello precedentemente realizzato possa trasformarsi in un ricordo,
o che si verifichi l'ipotesi inversa: se, infatti, l'artista conserva nel tempo il disegno di un'opera
eseguita in passato e lo mostra in seguito ad un nuovo committente, questi potrebbe accettarlo
ed automaticamente il ricordo diverrebbe modello al committente.
I tratti caratteristici che contraddistinguono questi due generi di disegno, sono simili e
dovrebbero consistere nell'elevato grado di definizione raggiunto e nella minuzia descrittiva,
sia lineare che coloristica. Usare il condizionale è, però, d'obbligo in quanto la scelta di come
realizzare il ricordo o il modello spetta solo all'artista e dipenderà quindi dalle sue abitudini.
Un esempio, che secondo alcuni studiosi98, può essere considerato sia un ricordo che un
modello, è il foglio raffigurante la Madonna che legge con Bambino in braccio di Barocci
(Parigi, Musée du Louvre, Inv. n. 2847, recto, Tav. VIII), già citato in precedenza. Questo
disegno di piccole dimensioni, raffigura la Vergine seduta davanti ad un tendaggio mentre
98 M.M. Grasselli, R. Eitel-Porter et Al., 2007, p.52
legge, con in braccio un Cristo bambino che si aggrappa al manto azzurro e dialoga attraverso
lo sguardo con lo spettatore. Il gruppo di figure è praticamente identico alla piccola opera
della Galleria Pallavicini di Roma, realizzata dall'artista tra il 1568 e il 1569.
       Altri disegni che potrebbero essere considerati dei ricordi sono gli studi di animali di
Jacopo Bassano, in particolari quelli raffiguranti i cani. Dall'osservazione delle opere di
Jacopo e dei figli ci deriva la certezza che si possa trattare di ricordi di bottega, in quanto la
raffigurazione dello stesso animale nella medesima posa è ripresa in opere diverse, come ad
esempio il cagnetto accucciato in angolo in basso a sinistra nel battesimo di santa Lucilla per
mano di San Valentino (Museo Civico di Bassano del Grappa, Inv. n.15) che viene ripreso in
vista speculare nell'opera raffigurante il Potestà Sante Moro e san Rocco ai piedi della
Madonna con il Bambino (Museo civico di Bassano del Grappa, Inv. n. 23), e in tanti altri
esempi99.


1.4.4 L'uso del pastello per la “copia” condotta sull'originale dei maestri antichi.


       La pratica della copia, intesa come riproduzione di un modello e finalizzata allo studio e
al perfezionamento della tecnica da parte di un artista principiante, doveva essere molto
diffusa nel passato. «La trattatistica artistica da Cennini a Vasari sino ai teorici del
Neoclassicismo, raccomanda al giovane artista l'applicazione alla copia come esercizio
propedeutico e indispensabile all'attività creativa, tale da affinare l'abilità dell'esecutore e da
stimolare il maturarsi delle sue doti»100. Nell'esecuzione della copia l'artista poteva utilizzare
strumenti disegnativi diversi, dalla penna, allo stilo, al carboncino e per inserire e
sperimentare il colore poteva considerare sia l'acquerello che il pastello. L'attestazione di
questo uso pratico del pastello, la ritroviamo nei consigli elargiti dall'Armenini101 ai giovani
che intraprendono la strada dell'arte del disegno e della pittura. Il consiglio riguarda il modo
corretto per imparare a distribuire le «mestiche ed i colori diversi» sul supporto. Suggerisce di
osservare le opere dipinte «dai più eccellenti nostri moderni, […] e se gli è possibile» di
provare ad «imitarle coi colori, o in tavolette, o in carte, [...] coi pastelli, o con altra materia
averne copia per poter servirsene poi né loro bisogni».
       In questa categoria potrebbero essere inseriti i sei studi di teste a pastello per l'ultima
cena realizzati da Boltraffio, come ipotizzarono Georg Dehio e Wilhelm Von Bode102. Le teste
raffigurano Giacomo il Minore, Andrea, Giuda, Pietro, Giovanni e Cristo e si tratterebbe di
copie condotte dall'originale, dal quale si distaccano leggermente per la rielaborazione
personale dell'interprete di alcune pose dei personaggi, ma che permettono di cogliere i

99 A. Ballarin, G. Ericani, 2010, p. 71
100A. Petrioli Tofani, 1991, p. 171
101G.B. Armenini, 1587, p. 58-59
102 W. v. Bode, 1886, 187-195
pensieri del maestro, per quella porzione sinistra di affresco delle grazie irrimediabilmente
perduta. Esiste anche una seconda serie di disegni a pastello dello stesso soggetto e forse con
una simile funzione: quella dell'ormai dispersa collezione Weimar del museo granducale, dove
sono raffigurate le teste di Giuda, Pietro (North Carolina ,Chapel Hill, Auckland Art Museum,
Inv. n. 77.53.2), Tommaso, Giacomo Maggiore (North Carolina, Chapel Hill, Auckland Art
Museum, Inv. n. 77.53.2), Bartolomeo, Andrea, Filippo (Londra, collezione Gabriele
Pantucci), oltre alle Teste di Cristo (Melbourne, National Gallery of Vicotria, Inv. n. 1972/4) e
di Taddeo (Melbourne, National Gallery of Vicotria, Inv. n. 1973/4), mentre la Testa di
Simone risulta perduta e quella di San Giovanni e Giuda Minore sono invece conservate a
New York (collezione privata del dott. B.H. Breslauer)103. Non è certo che quest'ultima serie
sia un originale, ma se lo fosse probabilmente la sua funzione rientrerebbe nella categoria
sopra descritta.


1.4.5 L'uso del pastello per l'abbozzo o schizzo.


       L'abbozzo, o schizzo, è un particolare tipo di disegno preparatorio in cui l'artista ricerca
la definizione formale delle idee che ha in testa. Potrebbe essere descritto come «l'embrione
dell'opera d'arte»104, ovvero quella fase primordiale ancora poco definita, ma spesso libera e
vitale, che preannuncia la realizzazione di un nuovo soggetto. Inoltre può essere difficile
trovare un riscontro tra l'abbozzo e l'opera finale a cui è destinato, perché il disegno prima
d'esser riportato sul supporto definitivo potrà essere più volte rimaneggiato, riadattato
finanche stravolto completamente o abbandonato per nuove soluzioni.
       Lo Studio di figura seduta di spalle di Darmstadt (Inv. n. AE1432) e lo Studio di figura
seduta di Francoforte (Inv. n. 15216) di Jacopo Bassano possono essere considerati degli
abbozzi realizzati a pastello. In questi disegni, l'artista studia e sperimenta la struttura e
l'articolazione dei corpi con tratti repentini e ricchi di tensione che delineano la forma
essenziale della figura. Come fa notare Ballarin105, «l'esigenza di sperimentazione carica di
vitalità il segno fin dal primo formularsi del pensiero formale». Il pastello è impastato a
formare accese sfumature colorate, che vengono accostate arditamente (la trama dei segni neri
in contrasto con l'arancio della camicia, con il giallo limone delle braghe e con il rosa e bianco
dell'incarnato, e il freddo azzurro del manto), e viene utilizzato per dare forma alle figure e
per indagarne le pose, in una fase di ricerca formale ancora lontana dall'opera finale:
«L'espressione è condizionata e vitalizzata dalle possibilità del mezzo tecnico, il pastello, e
dall'occasione sperimentale di un primo abbozzo verso esiti che non sempre collimano con
quelli dei dipinti che si intendono preparare». La tesi che si tratti di abbozzi, appartenenti ad
103 P.C. Marani, 2001, tavole dalla 60-64
104A. Petrioli Tofani, 1991, p.171
105A. Ballarin, 1995, p.185
una fase precoce del processo ideativo dell'artista, è avvalorata dal fatto che questi disegni
non presentano corrispondenze con soggetti riportati in pittura, è possibile pertanto che
l'artista li abbia abbandonati in corso d'opera.


1.4.6 L'uso del pastello negli studi preparatori di figura.


       Lo studio preparatorio di figura è un disegno, spesso, tradotto dal modello vivente in
posa, nudo o vestito, il quale viene analizzato in tutte le sue possibili gestualità.
Nell'esecuzione dello studio venivano, generalmente, tralasciati i particolari anatomici, quali
teste, mani, piedi, ginocchia e articolazioni varie, che venivano invece studiate singolarmente
negli studi di dettaglio. Gli artisti facevano uso, in questa fase ideativa, anche di espedienti
tecnici particolari, attestati dalle fonti, quali manichini o modellini in cera o creta per
focalizzare i movimenti o l'effetto dell'incidenza della luce. Lo studio preparatorio di figura
può presentarsi sotto forma di disegno più o meno dettagliato a seconda della fase
preparatoria a cui appartiene o dell'effetto ricercato.
      Le caratteristiche di questo genere di disegno si possono osservare nel già citato Studio
per il Buon ladrone sulla Croce (Inv. n. 2897 recto), dove certamente la resa dell'incarnato e
l'analisi della posa sono i caratteri ricercati; o nello Studio di vecchio con turbante della
Fondazione Museo Meniscalchi-Erizzo di Verona (Inv. n. 35), dove con pochi tocchi di colore
viene delineata sia la forma del busto che l'espressione del volto personaggio, così come nello
Studio per vescovo seduto con libro sulle ginocchia (Stoccolma, Collezione Perman). Mentre
in Barocci ritroviamo le caratteristiche di questo genere nel bellissimo disegno a soggetto
volgare, dello Studio per giovane donna nuda piegata in avanti a prendere un vaso (Parigi,
Museo del Louvre, Inv. n.2860), conservato al Département des Arts graphiques del Louvre.


1.4.7 L'uso del pastello negli studi di dettaglio.


       Il disegno di dettaglio corrisponde alla fase di studio analitico di ogni singolo particolare
della figura. Il punto di partenza è sempre il modello vivente atteggiato nella posa esatta in cui
deve comparire, ma diversamente dallo studio di figura, dove si analizza l'intero soggetto, in
questa fase vengono dettagliatamente studiati solo alcuni particolari, quali le mani, i piedi, le
gambe o le teste, sia nell'aspetto dell'articolazione della posa che in quello della modulazione
delle luci e dei colori. La scelta del pastello per lo studio dei particolari, piuttosto che
dell'acquerello, è determinata dall'«elevato grado di controllo del mezzo, [che è] necessario
per raggiungere una convincente resa tridimensionale106», tramite sottili gradazioni di tono.
       Possiamo riscontrare questa fase di studio in opere di Bassano quali il saggio giovanile
106T. McGrath, 2002, p. 73
a pastello per la Fuga in Egitto della Morgan Library di New York (collezione privata), datato
1542; la Testa di Vergine addolorata (Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts
graphiques Inv. n. 5286) del Louvre ed in particolare negli studi di animali, quali lo Studio
per il muso di un asinello (Berlino, Inv. n. 15655, Tav. IX) o lo Studio per due conigli (Inv. n.
811 Orn) degli Uffizi.
       Di Barocci, invece, si ricordano lo Studio per la testa di san Francesco (Parigi, Musée
du Louvre, Département des Arts graphiques Inv. n. 2876, recto , Tav. X), che a causa
dell'angolo inusuale della testa del santo deve aver richiesto uno sforzo preparatorio enorme
da parte dell'artista107; lo Studio per la testa di Cristo (Inv. n. 552) del capolavoro barocciano
la Madonna del Popolo di Santa Maria della Misericordia in Arazzo; lo Studio preparatorio
per la testa dell'apostolo della Pentecoste visto di scorcio (Vienna, Graphische Sammlung der
Albertina, Inv. n. 1553), e ancora lo Studio di testa di donna del 1584 del Louvre di Parigi
(Département des Arts graphiques, Inv. n. 2866), dove l'indagine riguarda sia lo scorcio della
testa che la resa cromatica dell'incarnato. Per quanto riguarda gli studi di dettaglio di altre
parti anatomiche, si ricordano anche gli Studi di mani (Inv. n. 2886, recto) e braccia e lo
Studio di piede (Inv. n. 11009, recto) del Louvre , nonché lo Studio di mani e avambraccio
(Parigi, Inv. n. 2886, recto).
       In questa categoria disegnativa è possibile inserire anche lo Studio per testa di cardinale
(collezione privata, Tav. XI), il secondo ed ultimo disegno di Raffaello conosciuto, realizzato
a pastello, oggi conservato nella collezione della Wiltonhouse, nella raccolta del duca di
Pembrock, a Montgomery. La tecnica utilizzata per il disegno ha disorientato la critica per
molto tempo, tanto che si era pensato di attribuire l'opera al Bassano, ma in seguito ad un
intervento di Konrad Oberuber e degli esperti del British Museum è stata formulata la corretta
attribuzione.


1.4.8 L'uso del pastello negli studi di composizione o «concetti».


       Lo studio di composizione o «concetto»108 è una sorta di disegno che si può porre a
metà strada tra lo schizzo e il modello109. Viene realizzato durante la fase progettuale
dell'opera per analizzare gli effetti della luce, delle pose e dell'ambientazione. Il grado di
schematizzazione che può raggiungere dipende, comunque, dalle necessità di impaginazione e
posizionamento delle figure nella scena, oltre che dalle abitudini del singolo artista.
       Associare i pastelli agli studi di composizione significa affrontare il discorso
dell'importanza e della funzione del colore nella concezione artistica cinquecentesca. La

107L'ipotesi dell'insistenza sullo studio di questo dettaglio è avvalorata dalla presenza di un secondo disegno di analogo
   soggetto alla National Gallery di Edimburgo (Inv. n. D2250).
108W.R. Rearick, 2000, p. 21
109A. Petrioli Tofani et Al., 1991, p. 171
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  • 1. Capitolo 1 LA PRATICA DEL PASTELLO NEL XVI SECOLO: Materiali, tecnica e funzioni 1.1 Cenni sul disegno nel Rinascimento1. Il Cinquecento fu il secolo del disegno. Dopo gli esordi trecenteschi, l'uso di disegnare ebbe in Italia un progressivo sviluppo nel corso del Quattrocento, grazie anche alla crescente reperibilità della carta e dei materiali. Ma fu con i grandi mutamenti stilistici e organizzativi del Cinquecento, legati o meno alla “maniera moderna”, che l'attività grafica ebbe una vera e propria esplosione in quasi tutte le aree culturali italiane. Dalla metà del Cinquecento quasi tutti gli artisti si dedicarono all'arte del disegno e i motivi per cui lo fecero, risultano essere i più svariati: dal semplice esercizio manuale allo studio, dalla copia delle opere altrui all'invenzione e preparazione delle proprie, ma anche per produrre oggetti d'omaggio o esempi della propria attività e bravura. Il disegno, inoltre, era una pratica raccomandata dai più grandi maestri ai propri allievi. Fin dal Trecento Cennino Cennini scriveva che «dal disegno t'incominci», successivamente sia Donatello, che Leonardo che Michelangelo hanno insistito sulla necessità di praticare il disegno. D'altra parte questa pratica, come si è anticipato, venne incentivata anche dalla disponibilità sempre maggiore sia dei supporti che dei materiali per disegnare: la carta bambagina, infatti, venne a diffondersi a discapito della pergamena, anche grazie al rapido sviluppo della stampa2, e venne prodotta anche nelle versioni colorate, marrone, verde, e azzurro, evitando agli artisti l'onere della preparazione del foglio; mentre strumenti e materiali tradizionali, come inchiostri, carboncini, gessetti, ma anche gli stessi pigmenti divennero reperibili con maggiore facilità dagli spezieri, nelle farmacie o da venditori specializzati3 e non dovevano necessariamente essere elaborati nelle botteghe, anche se questa pratica era diventata una consuetudine e non venne, comunque abbandonata. Comparvero, inoltre, nuovi materiali come i pastelli o le matite nera e rossa, naturali e fabbricate, che velocemente avrebbero fatto abbandonare le costose e poco versatili punte metalliche. I processi di cambiamento che si manifestano nel Cinquecento non si limitano all'innovazione tecnica, ma toccano anche l'organizzazione delle botteghe, dove 1 Per una trattazione di carattere generale sul tema si veda A. Forlani Tempesti, Firenze, 2004, pp.13-24. 2 La stampa, infatti, non permette l'utilizzo della pergamena come supporto, in quanto risulta troppo rigida e spessa e, quindi, inadatta a passare attraverso i rulli delle macchine. M.T. Tanasi, Roma, 2002, .p.58: «Con l’introduzione della carta in Europa nel XII sec., la pergamena cominciò una lunga decadenza che culminò con l’invenzione della stampa nel XV sec. in quanto il materiale membranaceo non era idoneo ad essere stampato.» 3 L.C. Matthew; 2002, pp. 680-686.
  • 2. parallelamente alla manualità dell'artigiano-artista, assume maggior rilievo l'aspetto ispirativo-progettuale del disegno. Cambia contemporaneamente la committenza, quindi il suo gusto e, di conseguenza, le tematiche raffigurate nelle opere commissionate. Ai settori tradizionali della committenza (mecenatismo pubblico e religioso, principesco e nobile) si affiancano quelli borghesi e intellettuali. Mentre si affacciano sul panorama artistico le richieste allegorico-mitologiche delle confraternite laiche. In questo clima innovativo ed eclettico, il disegno si inserisce prepotentemente sia come strumento di lavoro predominate che determina tutte le fasi della produzione artistica: dallo schizzo, allo studio di figura e di composizione, dai progetti compiuti ai modelli, ai cartoni e, infine, all'opera compiuta; sia come produzione artistica fine a se stessa, che come “modello” da presentare a potenziali committenti, o, infine, come opera destinata al mercato. Le tematiche toccate sono le più varie e dipendono, come già accennato, sia dai gusti dei committenti che dall'estro e dai bisogni degli stessi artisti. Si sviluppano, allora, i disegni di paesaggio, soprattutto in area veneta; i disegni naturalistici di piante e animali, che si devono in parte all'influsso leonardesco; i temi di ornato, studiati per arricchire opere maggiori o eseguiti per artigiani dell'epoca; i disegni architettonici e ingegneristici; si sviluppa anche il genere del ritratto, già presente nel Quattrocento, e soprattutto si diffonde un forte interesse per la rappresentazione della testa umana, che si arricchisce di espressività, ma anche di realismo e di naturalezza, come ben si può notare nei ritratti “coloriti a secco” di area leonardesca lombarda. E' d'obbligo, infine, menzionare, il fenomeno del collezionismo che nel Cinquecento viene ad assumere dimensioni eccezionali e che di certo si ripercuote anche sulla produzione grafica dell'epoca, tramite l'influenza indiretta esercitata dal mercato sulle scelte tematiche, tecniche ed espressive degli artisti. Per di più, assieme al fenomeno della trasmissione di modelli nelle botteghe, il collezionismo ha un grande merito riconosciuto, quello della conservazione e preservazione sia dell'interesse per le opere che delle opere stesse, fino a noi. I disegni, una volta intrapresa la via del mercato, venivano acquistati da principi, alti prelati e papi, da privati gentiluomini, ed anche dagli stessi artisti. Si formarono, così, delle vere e proprie collezioni che, tramite scambi e smembramenti, a volte con perdite irreparabili, nel corso dei secoli andarono a formare il patrimonio delle più ricche raccolte moderne di disegni conservate presso i più grandi musei e biblioteche, quali, per citarne solo alcune, il Gabinetto di Disegni e Stampe degli Uffizi, dell'Ermitage, del Prado, del Louvre, del British Museum, dell'Ashmolean di Oxford, e del Metropolitan di New York. In Francia, così come nel resto d'Europa, la realtà disegnativa non è molto diversa. La caratteristica principale che la contraddistingue da quella italiana riguarda, in particolare, i soggetti che compongono la committenza. In Francia e Inghilterra, diversamente che in Italia,
  • 3. nel XV e XVI secolo era presente una monarchia totalitaria composta da una sola corte, a cui faceva capo un unico re che gestiva e controllava un enorme territorio; ciò influenzò la produzione artistica. In particolare, le personalità più vicine al monarca e che componevano, di fatto, la corte erano i maggiori committenti di ritratti celebrativi ad olio, i cui disegni preparatori venivano realizzati proprio a matita colorata. Come specificheremo in seguito, i primi riferimenti dell'uso di un medium per colorire a secco provengono da Leonardo, il quale ci informa in un passo del Codice Atlantico di voler apprendere da «Gian de Paris» una tecnica da lui evidentemente non conosciuta: «il modo di colorir a secco». Gian de Paris, viene identificato con Jean Perréal, ritrattista di corte di Carlo VIII e di Luigi XII 4. E' spesso considerato come il primo utilizzatore di questa tecnica disegnativa, anche se ci sono pervenuti pochi suoi disegni. Altre due personalità di ambito francese che praticarono la tecnica furono Jean e François Clouet. Si tratta, come vedremo, di due ritrattisti di origine fiamminga, trapiantati alla corte parigina, che eseguirono eleganti e severi disegni a matite in più colori, i crayons, raffiguranti i personaggi più importanti del tempo5. Allo stesso modo dei colleghi francesi, Hans Holbein il Giovane, di cui discuteremo più approfonditamente in seguito, nel XVI secolo realizzò una serie di disegni a matita colorata finalizzati allo studio di ritratti ad olio di personaggi emergenti strettamente legati alla corte inglese di Enrico VIII6. E' chiaro quindi che la committenza e lo sviluppo della tecnica, sia in Francia che in Inghilterra, ma anche nel resto del nord Europa, sono fortemente legate all'ambito di corte e alla tipologia del ritratto celebrativo. Per questo le prime opere a matita colorata artificiale sono dei ritratti, o meglio, degli studi per ritratti che poi verranno eseguiti principalmente ad olio.  Di seguito si riporterà una breve spiegazione terminologica, che si è resa necessaria nel corso della stesura del testo per poter distinguere tra la tecnica a pastello cinquecentesca e quella, di carattere più specificamente pittorico, settecentesca. Inoltre verranno descritti l'origine del medium, i suoi ipotetici precedenti e le sue caratteristiche. Successivamente si tratterà l'argomento delle funzioni relative alla tecnica disegnativa e pittorica a pastello e, infine, si affronterà l'impegnativo capitolo riguardante i ricettari che riportano i modi di fabbricazione dei pastelli. Da queste fonti si trarranno le formule necessarie alla riproduzione di questi strumenti per il lavoro scientifico di laboratorio. 4 N. Reynaud, Paris, 1996, pp.36-46 5 A. Petrioli Tofani et Al., Torino, 1991, p. 171. 6 A. Petrioli Tofani et Al., Torino, 1991, p. 171.
  • 4. 1.2 Il pastello: origine, ipotesi di sviluppo e problematiche terminologiche. L'immagine che si visualizza pensando ad un pastello è quella di una matita colorata, ovvero di un colore a forma di cilindro incassato in un involucro ligneo, utilizzato per disegnare, o meglio, per colorare. Al termine, inoltre, si associa spesso l'idea di un'opera pittorica vera e propria, rifinita in ogni sua parte e spesso realizzata con una grande varietà di morbide sfumature di colore. Si tratta in sostanza, dell'immagine che ci deriva dall'evoluzione settecentesca della tecnica del colorire a secco, che ha origini molto più antiche, e che presentava caratteristiche diverse da come siamo soliti immaginarla. Il termine pastello deriva, etimologicamente parlando, dalla parola latina pasta che appunto significa pasta o impasto. Come ci informa T. Burns in un suo saggio7, gli scrittori del XX secolo hanno estratto dalla parola italiana il termine inglese e francese con cui la tecnica pittorica è conosciuta, al giorno d'oggi, in tutto il mondo: pastel. Questo termine si diffuse rapidamente e fu facile da assumere in molti paesi europei, soprattutto in Francia e Inghilterra, perché era già in uso per indicare altri materiali che durante la lavorazione venivano trasformati in una pasta, essiccati e induriti. L'analogia è tutta nella modalità di preparazione. I farmacisti, ad esempio, lo utilizzavano per indicare «petit pâte» o «a morceau de pâte», ovvero delle semplici pastiglie, che tipicamente erano realizzate con polveri medicinali amalgamate con un legante in una pasta che veniva fatta seccare. Un altro esempio, è quello relativo all'impasto realizzato con isatis tinctoria, un'erba detta anche guède8 con cui si tingevano i tessuti. In questo caso il termine deriverebbe da pastillum-pastellum9, poiché dopo aver tritato questa pianta e formato l'impasto, lo si riduce in tavolette che vengono fatte seccare e usate a bisogno. A questo punto non è difficile credere che il termine pastello, o pastel, si sia diffuso velocemente in tutta Europa per identificare dei cilindri o bastoncini colorati fabbricati artificialmente e formati con degli impasti, ottenuti mescolando un pigmento finemente macinato, se necessario una carica (per dare corpo e struttura laddove il pigmento non li possieda) e un legante nelle giuste proporzioni. Nonostante il termine pastello sia presente fin dal tardo XVI secolo - Lomazzo infatti lo cita nel suo Trattato dell'arte (1584) come mezzo usato da Leonardo per gli studi per l'Ultima cena - la problematica principale relativa al suo uso tra gli storici dell'arte, sta nel fatto che non permette di distinguere la tecnica cinquecentesca, prettamente disegnativa, da quella settecentesca, che ha caratteristiche sicuramente pittoriche. Chiamare indifferentemente, pastello, un disegno cinquecentesco o un dipinto settecentesco, non renderebbe merito alle caratteristiche di ciascuna forma arte. Si è delineata, quindi, la necessità di distinguere le due tecniche esecutive con una terminologia specifica. Il medium cinquecentesco è stato chiamato 7 T. Burns, 2007 8 Dictionnaire [...], 1851, (tomi I,II,III), p. 198 9 P.C. Berthelin, 1721, p. 183
  • 5. indifferentemente «gesso» o «gessetto colorato», «matita colorata», o ancora «colore a secco», altre volte è semplicemente inserito il nome generico di un pigmento (es. ocra gialla) stimato solo in base al colore presente e alla consuetudine, piuttosto che in relazione a qualche studio più approfondito. Raramente viene usato il termine «pastello», che è preferito per indicare la forma d'arte settecentesca. È doveroso, a questo punto della trattazione, menzionare anche i termini usati nelle diverse lingue per indicare il medium cinquecentesco usato dagli artisti. Il problema di distinguere la tecnica più antica da quella più recente è presente, dopotutto, anche nella letteratura anglosassone e francese. Oltre al termine «pastel», che anche in questi casi individua soprattutto le opere settecentesche, vengono usati altri termini per indicare il medium grafico cinquecentesco, tra cui: «crayon» e «dessin au crayon» in Francia, o «chalk10» e «chalk drawing» nei paesi anglofoni. In relazione a quest'ultimo termine si apre anche un'ulteriore problematica, quella relativa alla distinzione tra matite naturali e matite fabbricate artificiali nella pratica del disegno cinquecentesco. Il termine «chalk» è usato, non solo per identificare la matita fabbricata artificialmente dall'artista e che più facilmente è relazionabile con il termine pastello, ma anche la matita naturale, direttamente cavata dal deposito, formata in bastoncini e usata pura nel disegno. Purtroppo risolvere questo problema non è semplice, perché come fa notare Burns, «le imprecisioni nascono dal fatto che è impossibile distinguere il materiale depositato dai due mezzi grafici ad occhio nudo. A causa di questa limitazione, l'identificazione della presenza della matita naturale o di quella artificiale è stata per molto tempo soggettiva e si è basata principalmente sul numero di colori presenti (le matite naturali venivano distinte da quelle artificiali per la gamma ristretta di colori) e sul riconoscimento visivo della durezza o morbidezza apparente del medium usato attraverso l'analisi del tratto (la matita naturale depositerebbe un tratto più sottile perché più dura, mentre quella fabbricata dovrebbe lasciare un tratto più morbido e largo). In passato queste differenze fisiche sono state interpretate come caratteristiche di manualità e di stile»11. Nonostante questo modo soggettivo di operare non sia più usato per la discriminazione della tecnica grafica, in letteratura rimangono molti esempi di utilizzo indiscriminato dei termini chalk e pastel. Un esempio, fra tutti, è il cartone di Leonardo da Vinci per il ritratto di Isabella d'Este, dove Popham12 identifica il materiale usato come «black chalk, charcoal and pastel», mentre Brown13 menziona il termine «coloured chalks», pur trattandosi della stessa opera. 10 E' necessario tener conto che la parola inglese chalk è usata per indicare «a piece of calcite or similar substance, usually in the shape of crayon, that is used to write or draw on blackboard or other flat surface» (The Free Dictionary), e che quindi la trasposizione nell'italiano gessetto, dal punto di vista dei materiali utilizzati, non è sempre appropriata. 11 T. Burns, 2007 12 A.E. Popham, 1947 13 D.A. Brown, 1999 e D.A. Brown, 1983
  • 6. In mancanza di analisi specifiche sui materiali e dovendo fare affidamento sulle informazioni tratte dalla letteratura storico-artistica, si cercherà di utilizzare in questo elaborato il termine “disegno a matita” in riferimento alla pratica disegnativa cinquecentesca e il termine “matita colorata” per indicare lo strumento utilizzato. Mentre si continuerà ad utilizzare il termine pastello per indicare la forma d'arte settecentesca, anche se non sempre sarà possibile effettuare questa suddivisione terminologica. 1.3 Le matite cinquecentesche: scontro e rivalità, o punto di partenza per la creazione del pastello? Prima di affrontare la descrizione del pastello è doveroso menzionare, brevemente, degli altri strumenti disegnativi che si svilupparono nel XV - XVI secolo, e che forse contribuirono allo sviluppo stesso del pastello: le matite naturali e artificiali, rossa e nera. Si tratta di due strumenti che, in alcuni casi, rispondono perfettamente alle caratteristiche della matita colorata fabbricata perché, oltre alle versioni naturali, esistono anche quelle prodotte attraverso macinazione del pigmento (nero fumo o carbone, nel caso della matita nera ed ematite o cinabro per la matita rossa) e creazione di un impasto per mezzo di un legante. Questo procedimento è, infatti, analogo a quello usato per la realizzazione della matita artificiale, o pastello, come fa notare Shirley Millige14. Inoltre, anche i motivi che hanno portato allo sviluppo di questi media, e che si vedranno più avanti, sono molto simili a quelli ipotizzati per l'origine del pastello. Per quanto concerne la pratica del disegno di alcuni artisti, queste matite soppiantarono l'uso dello stilo metallico e della penna poiché permettevano una maggiore libertà ed immediatezza espressiva, una più facile e veritiera resa dei volumi (attraverso il chiaroscuro), una più grande varietà di rilievi ed effetti plastici, nonché maggior controllo e modulazione del tratto, che diviene più sottile o più largo, più duro o più morbido a seconda dei bisogni, facilitando il successivo sviluppo di tecniche a due o tre matite. Questa prevaricazione della matita su altri strumenti disegnativi comportò anche l'utilizzo degli stessi supporti previsti per la penna o la punta metallica; se dapprima la matita veniva stesa su carta bianca di un certa granulometria, successivamente, e soprattutto dal XVI secolo, si adottano supporti colorati, opportunamente preparati o tinti. Le colorazioni maggiormente in voga saranno quelle che meglio fanno risaltare il disegno e le variazioni tonali, le ombreggiature e il chiaroscuro, come le carte blu, grigie, brune e rosse15. 14 S. Millige, 1996, p.56 15 Sophie Larochelle, 2005, p. 121-127
  • 7. 1.3.1 La matita nera. Nelle fonti storiche questo medium grafico viene trattato in maniera piuttosto uniforme, in tutti i casi si parla, infatti, di una pietra nera che viene tagliata nelle dimensioni opportune e ridotta in punte tramite l'ausilio di un coltello. I termini usati per identificarla sono piuttosto simili nelle diverse lingue: pierre noire o pierre d'Italie in Francia, pietra nera o matita nera in Italia, black chalk (natural o fabbricated) in Inghilterra ed America, mentre nei testi più antichi è ricorrente la locuzione «Prìa nera» o «nigra»; con riferimento per lo più alla matita naturale. Tuttavia lo stesso termine sarà utilizzato per la versione artificiale. Le prime menzioni del medium sono fornite da Cennino Cennini, il quale descrive la matita nera come uno strumento con cui si possono ottenere effetti simili a quelli del carboncino, anche se da come ne parla sembra che non avesse molta familiarità16 con la tecnica. Se ne deduce, quindi, che non doveva essere così frequentemente usata al suo tempo. Dice, infatti, elencando gli strumenti adatti alla realizzazione di un disegno: Anchora per disegniare o trovato cierta pria nera, che vien del Piemonte, [la quale e tenera pria;] e puo'la aghuzare con choltellino, ch'ella e tenera. E ben negra. E puoi ridurla a quella perfezione che'l charbone. E disegnia secondo che vuoi17. Vasari, invece, molto più abituato allo strumento, lo descrive insieme alla matita rossa, in questo modo: ... [disegni] si fanno con varie cose; cioè o con lapis rosso, che è una pietra, la qual viene da' monti di Alemagna, che, per esser tenera, agevolmente si sega e riduce in punte sottili da segnare con esse su i fogli come tu vuoi; o con la pietra nera, che viene da' monti di Francia la qual'è similmente come la rossa18. Altra fonte importante che riporta una descrizione di questo medium e che per la prima volta usa il termine «matita nera» è Baldinucci, che nel suo Dizionario Toscano delle Arti (1681), la individua come [..]una sorta di pietra nera, che viene a noi in pezzi assai grandicelli, e si riduce in punte, tagliandola con la punta di un coltello; serve per disegnare sopra la carta bianca, e colorata. Cavasi queste né monti di Francia, e in diverse altre parti; ma la migliore viene di Spagna.19. È importante far notare che tutte queste fonti si riferiscono, nella descrizione, a quella che oggigiorno viene definita matita naturale, ovvero ad un semplice pezzo di roccia, probabilmente un'argillite/scisto (shale) composto di carbone e argilla20, cavato direttamente dal deposito e modellato a piacere. È probabile che questo strumento venisse usato nei primi disegni, ma che, come fa notare Petrioli Tofani, «l'esigenza artistica di poter disporre di strumenti sempre più perfezionati, dalla grana omogenea e priva di impurità, della compattezza e durezza desiderate, condusse», in un secondo momento, «alla creazione di 16 Meder, 1978, p. 100 17 F. Frezzato, 2003, p. 87 18 G. Vasari, 1550, p. 1912-1928 19 S. Parodi, 1975, p.92 20 C.Van Cleave, 1994, pp.231-243
  • 8. matite artificiali». Questa affermazione sembra ancora più plausibile se si pensa alle difficoltà di reperimento, nel XV e XVI secolo, di materiale grezzo adatto alla fabbricazione delle matite naturali (nelle fonti si parla, infatti di pietra del Piemonte, di Francia o di Spagna). È più facile pensare che un artista si producesse da sé il mezzo grafico, piuttosto che andare a cercare i luoghi più adatti di estrazione, da cui cavare la pietra direttamente utilizzabile. Inoltre, secondo le fonti, il materiale migliore proveniva da Spagna, Francia e dal Piemonte, ma è impensabile che tutti gli artisti si rifornissero esclusivamente da questi luoghi, magari lontani, perché sarebbe stato economicamente poco vantaggioso a causa degli enormi costi che si sarebbero dovuti sostenere. È più probabile, invece, che il materiale provenisse da diversi luoghi, magari vicini all'artista, quali cave locali o botteghe di spezieri21 o di altri commercianti e che contenesse, pertanto, molte impurezze al suo interno come ad esempio «diverse percentuali di quarzo, feldspato o argilla, che modificano le proprietà del mezzo»22 e che, per questo motivo, dovesse essere purificato (magari tramite setacciatura o dispersione in acqua), macinato e legato con aggiunta di altri materiali in diverse concentrazioni. Se, in tutto questo procedimento, si sostituisce la pietra naturale, con un qualsiasi altro pigmento nero, magari meno costoso e più disponibile, quale il nero fumo, il nero avorio o altri più disponibili nelle botteghe, si comprende come potrebbe essere avvenuto il passaggio dalla matita naturale a quella artificiale. Esistono alcune fonti che individuano e riconoscono sotto il temine di matita nera, uno strumento artificiale, realizzato macinando opportuni pigmenti neri, quali il nerofumo, il carbone, il nero d'avorio o d'osso ed altri. Meder, ad esempio, ci informa che «tra le matite a pastello, largamente usate in Italia prima del 1520, c'era anche un matita nera che, a causa della sua morbidezza – così differente dall'enorme durezza della matita naturale – si sviluppò e prese piede velocemente»23. Merrifield, nel suo testo Medieval and Renaissance Treatises on the arts of painting, riporta alcuni riferimenti, tra l'altro sempre in associazione a citazioni sul pastello, per la fabbricazione della matita artificiale: [..] ma il nero fumo s'impasta con terra da bo[c]cali, e si sec[c]a al fuoco e serve anco per carbone da disegnare24 (MS Volpato) o ancora Shirley Millige25 afferma che «la matita nera naturale», che individua come chalk, «fu rimpiazzata dalle matite nere fabbricate che erano più friabili rispetto alla varietà naturale» poiché queste erano «realizzate con carbone e legante». Inoltre aggiunge che «erano disponibili anche prima del XVII secolo». Analizzando il tratto, non è così semplice riconoscere la matita naturale da quella artificiale. Esistono delle caratteristiche peculiari della matita naturale che potrebbero permettere la distinzione visiva dei due mezzi: il segno è generalmente sottile, con deposito di 21 L.C. Mathew, 2002, p. 46 22 J. Watrous, 2003, p. 105 23 Meder, 1978, p.89 24 M.P. Merrifield, 1967 p.753 25 S. Millige, J. Turner, Grove 1996, p. 58
  • 9. poco materiale sulla superficie del foglio, ciò è dovuto alla durezza elevata e alla compattezza che contraddistingue il minerale nativo, inoltre al passaggio dello strumento sulla carta si possono formare dei buchi o strappi causati dalle impurità sabbiose presenti nel materiale grezzo usato26. Ciononostante, queste peculiarità non sono sufficienti a permettere un riconoscimento sicuro del mezzo disegnativo usato. Da un lato perché il tratto della stessa matita naturale può essere modificato tramite l'umidificazione della punta con saliva o la sepoltura dello strumento a contatto con sostanze saline27, che rendono il materiale più soffice; d'altra parte perché il tratto della matita artificiale, che è generalmente di un colore nero più intenso e di consistenza vellutata, può essere modificato a piacere indurendo l'impasto con opportuni leganti e assottigliando la punta per ottenere un segno più sottile e molto simile a quello della matita naturale. Sulla carta, pertanto, sia la matita nera naturale che quella artificiale, possono mostrare diverse qualità. Il tratto può essere grosso, nero e ceroso-grasso come quello del pastello; largo, soffice e asciutto come quello del carboncino; oppure fino, chiaro e duro come la grafite. Questa versatilità del medium, gli permette di essere adatto a soddisfare diverse esigenze disegnative. Ad esempio la sua linea larga (il tratto ampio e largo) è adatta per i disegni a grande scala, ma siccome può essere modellata con un coltello per produrre una punta fine, la matita può essere adatta anche per studi minuziosi su piccola scala. Inoltre, attraverso lo smudging, l'azione di sfregamento condotta con il dito per spargere e sfumare il colore sulla carta, la matita nera potrebbe essere miscelata e sfumata per produrre diversi gradi di ombreggiatura. Queste caratteristiche hanno permesso la rapida diffusione della matita nera nella pratica del disegno a discapito della punta metallica o della penna. Si iniziò ad utilizzare la matita nera, prima, per la realizzazione dei cartoni, come si vede ad esempio nel disegno, bucherellato per il trasferimento, con uno Studio di testa di donna di Domenico Ghirlandaio (Chatsworth, Devonshire Collection, Inv. n.885 recto), nel cartone di analogo soggetto di Andrea del Verrocchio (British Museum, Christ Church, Inv. n.1895,0915.785); accostato al pastello, nel cartone leonardesco per il Ritratto di Isabella d'Este (Parigi, Museé du Louvre, Inv. n. MI 753), di cui si parlerà in seguito, o infine, nel cartone che raffigura la Testa di uomo con turbante (Firenze, Gabinetto Disegnie Stampe degli Uffizi, Inv. n. 152F) attribuito a Giovanni Bellini, in cui sono esplorate tutte le potenzialità della matita nera28. Oltre alla pratica del cartone, la matita nera si rinviene anche nell'esecuzione del cosiddetto underdrawing. Un precoce esempio, potrebbe essere gli Studi di uomini appesi del Pisanello (1430 ca, Londra, British Museum, Inv. n. 1899.345), in cui il disegno sottostante in matita nera è ripassato in penna e inchiostro; pratica che si rinviene anche nei disegni di 26 Meder, 1976, p. 88 27 Meder, 1976, p.85 «... There were other methods, as well: “Some lay it in a damp celler, others bury it with salt in the earth, so that it may stay soft. In burying it you will know that is good, if it has yellow spots like sulphur on the outside, and is salty and sour to taste, and is easy to cut” [In nota: Goeree 1759, p.214] 28 C.Van Cleave; 1994, p.235
  • 10. Filippo Lippi o nell'Adamo ed Eva del Pollaiolo (Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, 155 F). Soltanto verso la fine del XV secolo la matita nera sarà impiegata per altre tipologie di disegno, meno funzionali alla realizzazione di un'opera successiva e più individuali e a sé stanti, quali: studi di figura, di animali, di volti e ritratti, fin anche negli studi caricaturali di Leonardo29. Dalla metà del XVI secolo, forse per motivi legati al mercato collezionistico30, viene sempre più spesso associata alla matita rossa, con la quale pian piano perde la caratteristica di «strumento disegnativo della linea di contorno» per assumere un ruolo maggiormente coloristico; infine, la si ritrova accoppiata alla matita colorata, ovvero al pastello, almeno fintanto che questa tecnica non assume le caratteristiche pittoriche settecentesche, dove le figure non avranno più bisogno di essere delineate da una linea di contorno marcata. 1.3.2 La matita rossa. Altro medium grafico sviluppatosi parallelamente alla matita nera e che anticipa di poco la nascita del pastello colorato, è la matita rossa. Nelle fonti antiche e nella letteratura moderna si individuano diversi termini per indicare la matita rossa. Di seguito verranno riportati i più frequenti: red chalk (Inghilterra e America), craie o crayon rouge (Francia), sanguigna, prìeta rossa, amatisto o amatito (da hoematites, hoema, ovverosia sangue, del colore del sangue), «grafio rosso» da Imperato31, e lapis rosso. Secondo la suddivisione fatta da Mayer e Vendiver, nel saggio Red Chalk: Historical and Technical Perspectives. Part II: A Technical Study32 si individuano tre tipologie di matita rossa. La prima è definita «Natural Red Chalk», o matita rossa naturale, ed «è composta di una mistura di ematite terrosa (ossido di ferro rosso, fino e spesso impuro), che conferisce la forza cromatica e diverse argille, che permettono la coesione del pigmento». La materia prima «viene cavata direttamente dalla terra, tagliata in lunghi e stretti bastoncini, segata e limata per formare una punta e usata con la sua consistenza originale per disegnare». Proprio perché naturale, «la composizione può essere molto varia e la dimensione delle particelle molto piccole». La presenza di contaminanti o impurezze, come quarzo o feldspati, possono modificare la durezza, il colore ed altre proprietà del mezzo, causando variazioni 29 Claire Van Cleave, 1994, p.231-243 30 McGrath T., 2001, p. 235-241 31 Imperato, “Historia Naturale”, 1599: Imperato dà un alto valore alla matita rossa, che appunto chiama graffio rosso, per l'esattezza della linea, per l'armonia e lo charm delle sfumature, ne parla come se fosse lo strumento da disegno più stimato/apprezzato. Non menziona comunque l'uso della matita rossa assieme alla matita nera per ottenere effetti coloristici, una tecnica ben conosciuta al suo tempo. Però dice che la matita era frequentemente immersa in acqua (umidificata) durante l'esecuzione del disegno, per dare morbidezza al tratto, un'osservazione certamente espressa nel caso di bastoncini duri o vecchi. [Traduzione da Meder, p. 92] 32 D.D. Mayer, P. B. Vandiver, 1987, p.171-180
  • 11. caratteristiche del tratto: se la matita è più dura, durante la stesura tenderà a saltare sul supporto e a lasciare delle aree bianche, compromettendo la continuità e fluidità del tratto. Un'altra proprietà, insolita, della matita naturale che secondo molti ne permette il riconoscimento visivo, riguarda il legame tra il colore e la modalità di applicazione sulla carta. Se sfregata o sfumata, la matita rossa appare di un rosso più chiaro e caldo, rispetto a quello dello strumento trascinato allo scopo di lasciare un segno più sottile. Si verifica pertanto una modificazione del suo colore sotto pressione. Scientificamente questo fenomeno viene spiegato, nell'articolo di Cohn, Mayer e Vandiver, con una riduzione di densità del colore, le cui particelle di forma piatta e allungata (non sferica, come sono invece quelle dell'ematite “fabbricata”) vengono allineate sul supporto e interagiscono con la luce in modo particolare: si verificano fenomeni sia di riflessione che di assorbimento e il colore che ne deriva, è un rosso-arancione brillante33. Spesso l'osservazione di queste caratteristiche, ha portato gli studiosi a riconoscere nei disegni a matita rossa lo stesso cholore [..] naturale che è prieta fortissima e soda di cui parla Cennini34, o la pietra rossa che vien da monti di Alemagna citata sia da Vasari35 che da Baldinucci36. Nonostante questi autori indichino come luogo d'origine del materiale, la Germania, è risaputo che anche l'Italia, la Francia, la Spagna e le Fiandre possedevano, e possiedono tutt'oggi, i loro giacimenti37, pertanto è plausibile credere che gli artisti si rifornissero da questi luoghi piuttosto che da un'unica fonte tedesca, per gli stessi motivi visti sopra per la matita nera. La seconda tipologia, definita «Fabbricated Red Chalk», è una matita rossa «fabbricata», o meglio artificiale, e si differenzia dalla precedente, non tanto per la materia prima impiegata, ma piuttosto per le modalità di lavorazione: in questo caso, l'ematite «viene ridotta tramite pestaggio o macinazione ad una polvere e poi viene mescolata con un legante e/o una carica, o filler. La pasta ottenuta è poi pressata o rollata a formare dei bastoncini per il disegno». È importante notare, per gli scopi di questo elaborato, l'analogia tra il procedimento appena descritto e quello che in seguito verrà riportato in merito alla realizzazione del pastello. Non sarebbe totalmente improprio ipotizzare che questa pratica possa essersi sviluppata come conseguenza dell'esperienza produttiva collaudata con la matita rossa artificiale (o di quella nera sopra descritta), d'altra parte per ottenere la matita colorata sarebbe stato sufficiente sostituire l'ematite con un qualunque altro pigmento presente nella bottega 33 M.B. Cohn, 1987 e D.D. Mayer e P.B. Vandiver, 1987, p. 165-180. [NDR] Queste osservazioni sono molto importanti perché porterebbero a smentire le affermazioni di McGrath e Gere sul fatto che le due tipologie di colore rosso usate da Raffaello fossero sicuramente due colori diversi realizzati ad hoc, e quindi due pastelli. 34 F. Frezzato, 2003, p. 92 35 G. Vasari,1550, p. 1912-1928 36 S. Parodi, 1975. p.92 in cui si dice:Una sorta di pietra tenera, che ci viene a noi in pezzetti, la quale segata con una sega di fil di ferro, e ridotta in punte, serve per disegnare sopra carte bianche e colorate. La migliore viene d’Alemagna. e definisce Il Lapis amatita: Matita, altrimenti detto Cinabro minerale; una pietra naturale molto dura, della si vagliano i Pittori per fare i disegni sui fogli, lasciandovi il suo colore, che è rosso. Questa macinata, benché con grande stento per la sua durezza, fa un rosso bellissimo, simile alla lacca, che serve per colorire a fresco, e molto tempo dura. L'adoperano ancora gli spadai per mettere l'oro a brunito. 37 S. Larochelle, 2005, p.122 e in J. Watrous, 2003, p.91-129
  • 12. dell'artista, come ad esempio l'ocra gialla (l'idrossido di ferro), per ottenere un pastello colorato. L'ultima tipologia di matita rossa è quella definita come Matita rossa sintetica (Synthesized Red Chalk) o Sanguigna. «L'ematite, questa volta, è prodotta [sinteticamente] in un laboratorio o in una fabbrica, [..] per arrostimento del solfato di ferro. Durante il processo viene fatto fuoriuscire il solfuro come ossido di zolfo (SOx, volatile) e rimane un residuo di ossido di ferro fine e puro. L'ematite è poi macinata per ottenere una polvere, alla quale vengono aggiunte le cariche, come l'argilla o il diossido di titanio, e i leganti organici. La miscela è poi manipolata (dandogli una forma) o pressata per ottenere i bastoncini per il disegno». Quest'ultima tipologia è assente nel Rinascimento, perché cronologicamente posteriore; viene fatta risalire all'Ottocento38. Secondo Petrioli Tofani il termine Sanguigna «era in quasi sconosciuto prima dell'Ottocento». In realtà, è vero che venne largamente utilizzato a quel tempo e nel secolo precedente, soprattutto in Francia, per indicare qualsiasi matita rossa, ma era certamente presente, anche se meno usato, nel XVI secolo, sia in Italia che in Francia, come si ricava dal testo Cinquecentesco di Pietro Andrea Mattioli39 e dagli scritti di Bernard Palissy40. Mattioli, infatti, rammenta che, «la pietra chiamata ematite, cioè sanguigna, la quale si chiama comunemente lapis è notissima a tutti, ed hassene in Italia assai copia»; mentre Palissy parla di una «pierre sanguine composée d'un grain fort subtiel et duquel on fait des crayons rouges...fort propres à contrefaire les visages d'après le naturel». Altri riferimenti al termine sanguigna sono presenti anche nel XVII secolo, ad esempio Baldinucci parla così della matita rossa dicendo che il termine «vien dalla voce greca Hoematites, dall’aver color del sangue che dicono Hoema». Il termine quindi ha una derivazione molto intuitiva, essendo la matita costituita dal minerale chiamato ematite, parola derivante dal greco hoema, ovvero sangue (evidentemente per il colore), è chiaro che la trasposizione italiana sia stata quella di [pietra] sanguigna. Ma siccome lo strumento era ricavato, almeno inizialmente, direttamente dalla roccia, si è preferito attribuirgli il nome di Lapis, o Lavis, che divenne d'uso comune. Per non fare confusione, comunque, si assumerà in questo testo il termine sanguigna così come lo ha utilizzato Tordella, mentre le locuzioni matita rossa o pastello rosso accompagnati dagli aggettivi naturale o artificiale, indicheranno gli altri strumenti disegnativi. Sulla sanguigna non si dirà di più, perché un discorso più esaustivo andrebbe oltre le finalità di questo elaborato. Secondo quanto riportato da Meder, la matita rossa si dev'essere sviluppata attorno al 38 P. M. Tordella, 1996, p.187-207 39 Come si ricava anche dal Dizionario del Tommaseo (1919) che, commentando l'aggettivo “sanguigno”cita il testo «Dei discorsi di Pietro Andrea Mattioli nei sei libri di Dioscoride, della materia medicinale », pubblicato a Venezia 1568 in A. PetriolI Tofani, “I materiali e le tecniche”, A. Petrioli Tofani et Al, 1998 40 B. Palissy utilizzava il termine pierre sanguine già nel 1580 nel suo Discoure admirable de la nature, citato da P. Lavallee, 1943, p.61 e in M. Roland Michel, 1978, p. i-vi.
  • 13. 149641e comunque non prima del 1480. Quest'affermazione, da un lato, viene motivata dal fatto che «fino al 1480 non esistevano fissativi adatti a preservare il disegno a matita rossa»42e, in secondo luogo, trae fondamento dalla vita di Michelangelo Buonarroti scritta da Ascanio Condivi, il quale racconta che Raffaello Riario, cardinale di San Giorgio in Velabro, «[...] sdegnato d'esser gabbato, mandò là un suo gentiluomo [il banchiere Jacopo Galli], il quale fingendo di cercar uno scultore per far certe opere in Roma, dopo alcuni altri fu inviato a casa di Michelangelo; e vedendo il giovane, per aver cautamente luce di quel che voleva, lo ricercò che gli mostrasse qualche cosa. Ma egli non avendo che mostrare, prese una penna, perciocchè in quel tempo il lapis non era in uso, e con tal leggiadria gli dipinse una mano, che ne restò stupefatto43». Il termine lapis è da interpretare come matita rossa, secondo la definizione cinquecentesca del dizionario del Tommaseo precedentemente citata, ed è chiaro che all'epoca dell'accaduto, la matita rossa non era molto usata. A prescindere da questi riferimenti sulla datazione, che sono molto importanti, ma non sono confutabili con certezza, è importante riconoscere che «la matita rossa apportò nella pratica disegnativa del XVI secolo un nuovo e rivoluzionario elemento: la linea colorata. Ed è da questo momento [che si sviluppa] il precursore del pastello»44. Le capacità espressive di questo mezzo: la forza del suo tratto rosso, che arricchisce le semplici linee con il colore, la robustezza del materiale e l'emersione della figura dal fondo, non vennero apprezzate subito da tutti gli artisti. Prima del Cinquecento sono poche le fonti che parlano di questo mezzo e pochi i disegni pervenutici realizzati con la matita rossa, è necessario attendere un maestro eccezionale come Leonardo, per poter apprezzare, anche se in via sperimentale, le potenzialità di questo strumento. Sempre secondo Meder, «Leonardo dovette essere il primo ad usare la matita rossa non solo per la realizzazione di schizzi, ma anche per studi finiti e dettagliati»45. Martin Clayton ritiene che, Leonardo «...abbia usato la sanguigna [da intendere matita rossa] per la prima volta intorno agli anni 1492-3; [poiché] il tratto molto sottile caratteristico di questa prima fase si trova nei manoscritti H e Foster III, databili tra 1493-4»46. I primi disegni compiuti in matita rossa, risalenti al primo periodo milanese (1482-1499), che si ricordano sono: lo studio per il monumento equestre sforzesco e gli studi per la realizzazione del famoso Cenacolo in Santa Maria delle Grazie (i cui disegni, secondo Lomazzo e alcuni studiosi moderni, hanno visto l'utilizzo del pastello da parte del maestro). Chastel addirittura si sbilancia affermando che «Leonardo potrebbe essere l'inventore della matita rossa47». Questo non è accertabile, ma sicuramente fu uno dei suoi primi adepti e promotori. Si riscontra, infatti, che dopo la dipartita da Milano del maestro e il suo arrivo a Firenze, la matita rossa fa la sua apparizione in questa 41 Meder; 1978, p.91 42 Meder, 1978, p.91 43 A. Condivi; 1928, p.61 44 Meder, 1978, p.92 45 Meder, 1978, p.92 46 M. Clayton, intervento sullo Studio per un'Ultima Cena di Venezia (Gallerie dell'accademia, Inv. n. 254) 47 S. Larochelle; 2005, p.124
  • 14. città come mezzo disegnativo indipendente e da qui si espande in tutte le province influenzando i maestri locali: Albertinelli, Signorelli, Fra Bartolomeo, Andrea del Sarto e tanti altri tra cui Raffaello che in quel periodo si trovava a Firenze e venne molto influenzato dai modi di Leonardo. Inoltre a Milano amici e seguaci di Leonardo fecero largo uso di questo strumento, diffondendolo nel territorio, ad esempio Francesco Melzi lasciò uno studio a matita rossa datato 14 agosto 1510; la matita rossa venne usata anche da Boltraffio, Luini e Giampietrino. Inoltre Cesare da Sesto fu il primo ad usarla per tinteggiare il fondo su cui avrebbe disegnato con la stessa matita, creando un eccezionale tono su tono. Non è da escludere tra l'altro che durante il suo breve soggiorno a Venezia, Leonardo abbia contribuito ad introdurre la matita rossa nella pratica disegnativa locale, visto che è proprio all'inizio del Cinquecento che si rinvengono le prime tracce di questo medium nella città lagunare. Ad esempio Carpaccio iniziò il suo San Giorgio e il drago (Firenze,Uffizi, Gabinetto disegni e stampe, Inv. n. 1287 E) in matita rossa, per poi terminarlo a penna (pratica tra l'altro non sconosciuta allo stesso Leonardo come fa notare P.G. Tordella nel suo saggio48) oppure si possono ricordare gli studi di figura della scuola di Giorgione, ed anche uno Studio di figure femminili a mezzo busto di Cesare da Sesto (Venezia, Gallerie dell'Accademia, Inv. n. 141)49. L'incontro con Leonardo fu certamente determinante per Giorgione e per l'avvio della maniera moderna a Venezia, come hanno messo in luce gli studi moderni e come era d'altronde indicato dalle antiche fonti50. Ai fini del nostro discorso si dovrà pertanto ricordare il celebre disegno di Rotterdam51 (Studio di un paesaggio con pastore e sullo sfondo la veduta di Castelfranco o Montagnana, Boymans-van Beuningen Museum, Cat.no.64), dalla critica concordemente assegnato a Giorgione, che permette di mettere in stretta relazione l'arrivo di Leonardo a Venezia nei primi mesi del 1500 con l'adozione da parte dell'artista veneto della nuova tecnica a matita rossa, quasi sconosciuta nella città lagunare prima d'allora. Nel Codice Atlantico (Biblioteca Ambrosiana, Milano) esistono diversi riferimenti alla «amatita» o «mattita», riportati anche da Richter e Pedretti, ma alcuni di questi fanno pensare proprio alla matita rossa «fabbricata» di cui si parlava sopra. In particolare il riferimento al «lapis amatita macinata52», tra i materiali utilizzati nella pratica della pittura e del disegno, è molto importante perché riconduce alla necessità percepita dagli artisti di stemperare o di polverizzare un materiale di particolare durezza sia a scopi pittorici che disegnativi, al fine di 48 P.G. Tordella, 1996, p. 192. «soprattutto nella fase in cui la matita rossa naturale andava acquisendo un valore espressivo autonomo e se ne stavano sperimentando le peculiarità strutturali, la ripresa a penna parziale o totale, dei tracciati grafici con essa eseguiti appare interpretabile, non tanto come esigenza estetica o risultato di una scelta tecnica predeterminata, quanto come intervento necessitante atto a risolvere problemi spesso legati alla natura stessa del medium naturale: la grana e la cromia non omogenea, la tendenza ad espandersi e dunque a perdere la nettezza del segno che dunque, come si vedrà in seguito, richiedeva un fissaggio». 49 Meder, 1978, p.93 50 M. L. Dolce, Firenze, 1735, p.274 «Leonardo […] fu appresso pittor di grande stima, ma di maggiore aspettatione Giorgio da Castelfranco, di cui si veggono alcune cose ad olio vivacissime e sfumato tanto, che non si scorgono ombre. Morì questo di peste, con non poco danno della pittura.». Si veda, inoltre, A. Ballarin, 1994 e A. Ballarin, 2005. 51 H.E. Wethey, 1987, pp.71-72 52 Leonardo, Manoscritto A al foglio 104r
  • 15. ottenere, in quest'ultimo caso uno strumento (appunto la pietra o matita rossa ricostruita) dalla grana più omogenea e di maggior morbidezza e dunque duttilità. Inoltre questa sensazione è rafforzata anche da un altro riferimento, questa volta del manoscritto F (Parigi, Institute de France), in cui si dice che «il lapis se disfa in vino e in aceto o in acquavite, e poi si può ricōgiugnere cō colla dolce53». Il dato eccezionale è che questo termine, «lapis amatita macinata», non si ritrova nella letteratura coeva sopravvissuta, pertanto, come fa notare P.G. Tordella, «viene ad assumere una connotazione sperimentale e dunque un possibile riconoscimento quale testimonianza di una prassi altrimenti non documentata per la realizzazione di quelle che abbiamo definito pietre rosse ricostruite54». Questa della Tordella è solo un'ipotesi, ma certamente il carattere e la curiosità di Leonardo, che lo portano a sperimentare e conoscere sempre cose nuove, non la smentiscono. Non è improbabile, pertanto, che per esigenze disegnative, il maestro abbia cercato di piegare un mezzo naturale di cui aveva già riscontrato le problematiche (v. nota 26), alla sua volontà. Continuando su questa linea, pur rimanendo nel campo delle ipotesi, non è poi così peregrino vedere un collegamento tra il «lapis amatita macinata» e gli strumenti del «colorir a secco», citati dallo stesso Leonardo nel Codice Atlantico. 1.3.3 La matita colorata o pastello. L'uso della matita colorata artificiale (o pastello), così come delle matite nera e rossa naturali o artificiali, si sviluppa nel fervido ed eclettico clima culturale di inizio XVI secolo. In ambito italiano, viene generalmente attribuita la paternità della tecnica a Leonardo da Vinci, il quale nel Codex Atlanticus (Biblioteca Ambrosiana, Milano) afferma di dover apprendere «il modo di colorir a secco» di Gian de Paris, riconosciuto dagli studiosi come Jean Pérreal55, artista lionese alla corte di Francia, prima con Carlo VIII (1470-1498) e poi con Luigi XII (1462-1515), che fu nella penisola e in particolare a Milano durante la seconda campagna d'Italia (1498-1515), che portò alla conquista della città sforzesca da parte della Francia e alla reclusione del Duca Ludovico Sforza il Moro. L'unico altro riferimento alle «punte da colorir a secco» da parte di Leonardo lo troviamo nel Codice Foster II (Victoria & Albert Museum, Londra). In questo caso Leonardo dà una ricetta che però coincide con la realizzazione dei cosiddetti pastelli a cera56 e non delle matite a pastello, che potrebbero derivare sia dalla tecnica appresa da Jean Pérreal sia dalla pratica di bottega e, in particolare come ipotizzato nei paragrafi precedenti, dalla pratica di realizzazione delle matite rossa e 53 J.P. Richter,1939, Manoscritto F dell'Institut de France, Parigi, 1508-9, fol. 96A 54 P.G. Tordella,1996, p.187-207. 55 N. Reynaud, 1996, p.36-46 56 Leonardo Da Vinci; Codice Forster II,(1495-1497), in W. Richter, 1939. «Per fare punte da colorire a secco; la tempera con un po' di ciera e non cascherà, la qual ciera disoluerai con acqua, che, tempera la biacca, essa acqua stillata se ne vada in fumo e rimanga la ciera sola, e farai bone punte; ma sappi che bisogna macinare i colori colla pietra calda.»
  • 16. nera artificiali. Non c'è ombra di dubbio, comunque, che Leonardo abbia usato questo strumento disegnativo, vista anche l'eredità lasciata ai suoi seguaci. La tecnica a secco, ovvero a matita colorata, è utilizzata, infatti, anche da Boltraffio e Luini, come vedremo in seguito. Ma non solo, si presenta anche in alcuni artisti che vennero a contatto con Leonardo negli anni successivi alla sua partenza da Milano, come in Fra Bartolomeo nello Studio per il volto di un angelo (Rotterdam, Museum Boymans-von Beuningen, Inv. n. 175)57. Sono poche le fonti storiche che trattano questo medium prima della seconda metà del XVI secolo. I primissimi autori che citano il termine pastello risalgono agli anni Quaranta del Cinquecento e si riferiscono ad artisti di ambito veneto. Si tratta delle annotazioni sul diario- spese di Lorenzo Lotto e della lettera scritta da Paolo Giovio. Dopo la seconda metà del secolo anche altri autori citano nei loro trattati il termine pastello e sono Lomazzo, Armenini, Allori e Cellini. Le informazioni che ci pervengono da questi scritti sono interessanti, ma non ci permettono di capire molto sul modo pratico di realizzare i pastelli. Inoltre fanno intendere che l'uso della matita colorata doveva essere una pratica poco frequente e probabilmente sviluppatasi di recente. L'annotazione di Lotto: «per conzar pastelli58», ad esempio, ci informa solo che questo artista probabilmente usava questi strumenti e che di conseguenza dovette annotare sul suo libro spese i materiali per ottenerli; mentre la lettera di Giovio, indirizzata a Pietro Aretino e datata 11 marzo 1545, esprime solo il desiderio di avere «uno schizo de colori, se ben de pastelli» del letterato e che sia «piccolo de mezzo foglio, se non in tela, [fatto dal] signor Tiziano acciò che al sacro museo si vegga la propria effige59». Come fanno notare diversi studiosi60, Lomazzo ci informa, invece, nel suo testo del 158461, dell'esistenza «[...] d'un altro certo modo di colorare che si dice a pastello, il quale si fa con punte composte particolarmente in polvere di colori che di tutti si possono comporre. Il che si fa in carta e fu molto usato da Leonardo Vinci, il quale fece le teste di Cristo e degl'Apostoli, a questo modo eccellenti e miracolose in carta». Le informazioni che si possono estrapolare da questo testo non permettono di comprendere pienamente le modalità di realizzazione di questi «pastelli», viene indicato solamente che si possono fare di qualsivoglia colore in polvere; mentre l'uso del termine pastello ci permette solo di dedurre che venisse realizzato un impasto e ciò richiederebbe l'ausilio di un mezzo liquido, probabilmente un legante - ma questa è solo una speculazione che non si può evincere direttamente dal testo. L'informazione importantissima che Lomazzo elargisce in questo testo riguarda, invece, 57 T. Burns; 1994, p.49 «It is generally agreed that Fra Bertolommeo was influenced in style and technique by Leonardo […], Fra Bartolommeo's 'beautiful and poetic' study of the angel's face reflects his response to the art of Leonardo...» e continua dicendo «Because the work of these artists developed in a related artistic context, it is logical to assume that Leonardo's achievement influenced the younger Fra Bartolommeo in his material and technical choices». 58 P. Zampetti, 1969, pp.241-249 e in V. Romani, 2000, p.69-81 59 P. Giovio, 1956-1958, II, p.11, n.206 e in V. Romani, 2000, p.69-81 60 Meder, 1978, p. 100; A. Petrioli Tofani, 1991, p.171; V. Romani, 2000, p.69-81, P. Barocchi, 1971, p. 2227-2272; ripreso anche da A. Ballarin, 2010, nel testo in corso di pubblicazione. 61 G.P. Lomazzo, Milano 1584, La virtù del colorire, P. Barocchi, 1971, p. 2227-2272, V. Romani, 2000, p.69-81
  • 17. Leonardo da Vinci. Infatti l'autore crea un vero e proprio legame tra l'artista e la tecnica affermando che Leonardo utilizzò moltissimo il pastello e cita, addirittura, un'opera da lui realizzata: le teste di Cristo e degli apostoli, intese da diversi studiosi come i disegni preparatori preposti alla realizzazione dei personaggi dell'Ultima Cena della chiesa milanese di Santa Maria delle Grazie, studi per i quali si fece largo uso anche della matita rossa 62 (v. sopra). Nonostante non ci siano pervenuti disegni incontestabilmente autografi di Leonardo realizzati a pastelli colorati relativi al Cenacolo, il riferimento è molto importante perché dà un appiglio temporale per poter definire il momento di utilizzo da parte dell'artista delle matite colorate. L'affresco venne, infatti, realizzato tra il 1495 e il 149763. Come fa notare Marani64, «la critica moderna ha comunque ipotizzato l'esistenza di un “cartone” originale [oppure di disegni preparatori] di Leonardo per il Cenacolo, soprattutto considerando l'esistenza di due serie di disegni di allievi o seguaci che sembrano derivare, non dal dipinto murale, ma da un supposto “cartone” di Leonardo (o da suoi disegni perduti) data la loro perfetta corrispondenza con quello». Le serie di disegni a cui si riferisce Marani sono evidentemente quelle di Strasburgo e dell'ormai dispersa collezione del castello di Weimar, riproducenti le teste degli apostoli trattate anche da Ballarin65. Questi disegni richiamano perfettamente la tecnica descritta da Lomazzo. Si tratta, infatti, di pastelli colorati su carta preparata che ricordano un ulteriore foglio, la cui autografia leonardesca è molto discussa66 a causa dell'abbondante presenza di ritocchi e ripassature: la Testa di Cristo della Pinacoteca di Brera (Inv. Gen.150; Cat. 280, Tav I). Per quanto riguarda la funzione di quest'opera sono state formulate diverse ipotesi e si è giunti alla conclusione che «non può assolutamente trattarsi […] di una derivazione dal dipinto67» poiché mancano alcuni particolari ( la barba e la stola) e sono presenti delle licenze artistiche non ravvisabili in parete (incurvatura del naso più accentuata e forma meno “classica”). Pertanto si è pensato che possa trattarsi o di un disegno-copia realizzato in piena libertà espressiva ed interpretativa da parte dell'esecutore (come succede nei disegni della serie di Strasburgo) o che si tratti di uno studio precedente modificato in alcuni particolari al momento della stesura in parete. Le fonti non fanno mai riferimento a un cartone per l'Ultima Cena, ma ciò non permette di escludere che il maestro abbia potuto realizzare un disegno preparatorio, magari traendo spunto da un modello al naturale, sopratutto per la Testa di Cristo visto il famoso passo del Vasari68 in cui viene esposta la difficoltà di Leonardo di realizzare proprio questo particolare, che decide di lasciare 62 Pinin Brambilla Bacinon, P.C. Marani, 1999: Durante le fasi del restauro dell'Ultima Cena sono state ritrovate «tracce di terra rossa stese sull'intonaco in prossimità della figura di Matteo», p. 22-36. 63 De Vecchi, P., Cerchiari, E., 2004, p.299 64 Pinin Brambilla Bacinon, P.C. Marani, 1999, p.22-36 65 A. Ballarin, 2010, in corso di Pubblicazione. 66 P.C. Marani et Al., 1986, p.29; A. Marinoni, L. Cogliati Arano, 1982, p.91-93; G. Bora et Al, 1987, p. 74-77 e A. Ballarin, 2010, in corso di Pubblicazione. 67 Come, invece, affermava Venturi. In P.C. Marani et Al., 1986, p.30 68 G. Vasari, 1550, «Non voleva cercare in terra , e non poteva tanto pensare che nella immaginazione gli paresse poter concipire quella bellezza e celeste grazia che dovette essere quella della divinità incarnata».
  • 18. volutamente incompiuto. Lomazzo ci informa anche su una particolarità di questa tecnica disegnativa, ovvero che così come è «difficile il colorire in questo nuovo modo, tanto è egli facile a guastarsi 69». Ed infatti, una problematica riscontrata in tutti i tipi di pastello è quella della fragilità delle opere e della loro suscettibilità all'asportazione meccanica dello strato pittorico, tanto che nel XVIII secolo diversi personaggi si adopereranno per trovare il più opportuno metodo di fissaggio per la conservazione delle opere a pastello. Giovan Pietro Armenini, nel 1586, ci informa su quella che poteva essere una funzione del disegno a pastello: lo studio preparatorio su muro. Infatti, discutendo a proposito del colore, sottolinea la difficoltà di ottenere «le mestiche», ovvero le mescolanze dei colori, e di prevedere l'effetto che avranno sul muro. Per questo motivo, aggiunge «ci sono di quelli [pittori] che, per non averle a mendicar sul muro, prima le imitano con i pastelli benissimo 70». Inoltre, nel sesto capitolo del suo testo71, elargendo consigli pratici ai giovani che intraprendono la strada dell'arte del disegno e della pittura, Armenini utilizza nuovamente il termine pastello, attribuendogli una seconda funzione: il pastello come strumento propedeutico ad una forma di disegno che potremmo definire disegno didattico, ovvero finalizzato allo studio e al perfezionamento della tecnica da parte di un artista principiante. Il consiglio di Armenini per imparare il modo corretto di distribuire le «mestiche ed i colori diversi» sul supporto, è di osservare le opere dipinte «dai più eccellenti nostri moderni, perciò siccome queste sono sparse in più paesi e città, gli è necessario di andarle con più tempo e con stenti a minuto considerarle, e se gli è possibile provasi ad imitarle coi colori, o in tavolette, o in carte, o tutte, o parte delle cose più belle e coi pastelli, o con altra materia averne copia per poter servirsene poi né loro bisogni». Una simile funzione potrebbe connotare i disegni a pastello della serie di Strasburgo attribuiti a Boltraffio72, di cui si è parlerà in seguito. Molto interessante è, anche, il riferimento al pastello riportato nel «Primo Libro de’ ragionamenti delle regole del disegno d’Alessandro Allori con M. Agnolo Bronzino73». Questo testo si impronta su un dialogo tra un certo M. Vincenzo e altri due interlocutori, in cui si dibatte sul tema della distinzione tra il disegno e la pittura. Nel cuore del discorso, M. Vincenzo ricordò che, al suo tempo, «si fanno certi [strumenti] che gli chiamano pastelli, che sono di tutti i colori, sì com'io già vidi fare a uno amico pittore, che gli riduceva come una pasta soda e di poi ne faceva punte come si fa della matita, e con essi contraffaceva la carne et insomma tutti i colori...». Unendo queste alle informazioni fornite da Lomazzo, veniamo a sapere da Allori che effettivamente il procedimento di produzione dei pastelli poteva coinvolgere diversi colori e che prevedeva la formazione di una «pasta soda» a cui poi si dava 69 G.P. Lomazzo, 1584 70 G.B. Armenini, 1587 (a cura di M. Gorreri, 1988), p. 133. e in V. Romani, 2000, p.69-81 71 G.B. Armenini, 1587, p. 58-59 72 A. Ballarin, 2005. 73 A. Allori, in P. Barocchi, 1971, p.1946-1947
  • 19. la forma di una punta, come si fa con la matita, quindi con l'ausilio di un coltello come visto sopra per le matite rossa e nera. Ma ancora non sappiamo quale potessero essere gli altri ingredienti coinvolti nel processo produttivo di questi strumenti. Maggior chiarezza su questo punto ci perviene dal riferimento al pastello di Benvenuto Cellini, il quale ci informa della consuetudine, del suo tempo, di fare «pastelli grossi quanto una penna da scrivere, i quali si fanno di biacca con un poco di gomma arabica74» che venivano utilizzati per realizzare le lumeggiature sui disegni. Finalmente con Cellini abbiamo un primo riferimento sul legante utilizzato per la realizzazione dei pastelli: la gomma arabica. Solamente con questi scarsi riferimenti e senza, per il momento, prendere in considerazione le ricette più approfondite riportate nei trattati tecnici del Cinquecento e Settecento, potremmo essere in grado di definire cosa fosse la matita colorata, ovvero il pastello, fin dalla sua origine. Si trattava, infatti, di una pasta realizzata attraverso il mescolamento di pigmenti in polvere colorati con un mezzo legante, come ad esempio la gomma arabica. Questa pasta, una volta essiccata, veniva modellata come si era soliti fare per le matite: per mezzo di un coltellino si procedeva alla formazione della punta. Nonostante Lomazzo ritenga «difficile il colorire in questo modo», il pastello, come medium grafico, presenta dei vantaggi considerevoli, rispetto agli altri strumenti del disegno, che ne ha permesso una rapida diffusione soprattutto dalla metà del Cinquecento, fino allo sviluppo dei secoli successivi. Innanzitutto consente di lavorare velocemente, senza necessità di preparazione preliminare del mezzo, e questo dal punto di vista del modus operandi facilita l'artista nel trascrivere un'emozione o un'idea immediata. In secondo luogo il pastello e la matita sono facilmente rimovibili, pertanto la tecnica permette sia i ripensamenti che le sovrapposizioni successive. Infine, il pastello, «è linea e colore allo stesso tempo75». Questa caratteristica è determinante, perché inserisce un valore coloristico nella pratica tradizionale del disegno che permetterà di emulare gli effetti sottotonali della pittura e di ottenere una resa più veritiera e reale dei volumi. Ciò significa che il «nuovo modo di colorire a secco» permette di dipingere su carta. Questo dato è importantissimo nel primo Cinquecento, perché modifica il modo di concepire la produzione grafica e favorisce una rapida evoluzione dei mezzi disegnativi. Infatti, la possibilità di dipingere su carta ha un duplice effetto: da un lato eleva la pratica disegnativa allo stesso rango di quella pittorica, e questo aspetto è pienamente espressione della maniera moderna; in secondo luogo fa assumere maggior rilievo al disegno in ambito collezionistico, in quanto questo non è più solo studio propedeutico all'artista, ma diviene opera d'arte indipendente, che presenta delle chance in più rispetto alla pittura tradizionale, perché la tecnica può contare anche su soluzioni estetiche proprie solo del disegno: il non-finito, l'abbozzo. 74 B. Cellini, in P. Barocchi, 1971, p.1929-1930 75 G. Monnier, 1996, p.241-245
  • 20. Modulando le proporzioni dei materiali costituenti e miscelando pigmenti diversi è possibile ottenere uno strumento dalle caratteristiche controllate che permetta di raggiungere gli effetti desiderati. Per questo motivo nei secoli successivi, sopratutto dalla metà del '600 in Inghilterra e Francia, ma anche in Italia e Olanda, la nuova tecnica prese piede e iniziarono a proliferare molte più ricette sui pastelli. La preferenza dell'alta società europea per questo nuovo tipo di pittura è dovuta probabilmente al modo in cui alcuni esperti la presentarono. Luttrell76, Gautier77 e Peacham78 la definirono un'appropriata attività per gentiluomini e un adeguato sostituto alla pittura ad olio. Il dipingere a pastello era considerato più semplice rispetto alla pittura ad olio, più pulito e facilmente trasportabile79 – ideale, quindi per l'attività pittorica dei giovani impegnati nel Gran Tour80. Permetteva di produrre «superfici altamente rifinite emulanti la pittura ad olio81», ma differentemente da quest'ultimo, il pastello è uno strumento asciutto pertanto il working-in-progress poteva essere interrotto e ripreso più volte senza rischiare di compromettere il risultato finale a causa dell'asciugatura della superficie pittorica. Il ritocco è consentito e facilitato dalla scarsa aderenza della stesura, non è necessario fare attenzione alle mescolanze dei colori, perché le diverse sfumature sono già create a forma di bastoncino prima dell'esecuzione dell'opera; infine la superficie opaca del dipinto a pastello non causa lo spiacevole riflesso che invece è presente nelle opere ad olio. I pastelli in questo periodo potevano essere acquistati anche in stick pronti all'uso ed erano poco costosi; due particolarità che ne facilitarono la diffusione anche al ceto meno abbiente. 1.4 Scelta esecutiva di un medium grafico: le funzioni del pastello. Nell'Italia rinascimentale, così come avviene oggi, la scelta del medium grafico da parte di un artista doveva essere legata al tipo di disegno e alla sua funzione. Di conseguenza se il dettaglio e la minuzia erano le caratteristiche principalmente ricercate, l'artista avrebbe rivolto la sua attenzione a strumenti che gli permettevano di ottenere un segno fine, regolare e veloce come l'inchiostro e la penna dalla punta sottile, o lo stilo d'argento. Quando, invece, l'effetto ricercato riguardava la rappresentazione del reale attraverso la distribuzione di luci ed ombre oppure lo studio del cangiantismo dei colori, della loro distribuzione e dell'effetto sulla visione d'insieme, allora l'acquerello, il pastello e in un certo qual modo anche l'associazione di matite a due o tre colori, divengono i media grafici prescelti. Le motivazioni che spingono 76 E. Luttrell, 1683, p. 29 77 H. Gautier De Nismes, (1687), Bruxelles, 1708, p. 22 78 H. Peacham (1634), Oxford, 1906, p.46 79 J. M. Muller e J. Murrell 1997, De Piles, 1684, p.10 80 E. De Beers, 1955, p. 208, dove nella trattazione relativa al diario di John Evelyn è confermata questa pratica aristocratica di portare i pastelli con sé durante i viaggi per l'Europa. 81 R. de Piles; Parigi, 1684, p.91
  • 21. l'artista a sceglierne uno piuttosto che l'altro dipendono, oltre che dalle preferenze soggettive quali la manualità personale o la simpatia verso una determinata tecnica, anche da fattori più oggettivi, tra i quali spiccano la scelta del soggetto da rappresentare, lo scopo estetico che si desidera raggiungere, le tendenze e le spinte del mercato dell'arte e, nel caso dei disegni preparatori, la tecnica esecutiva con cui dovrà essere eseguita l'opera finale. Alla fine del XV secolo tutte e tre le tecniche sopracitate erano in uso nelle botteghe antiche. Ma, mentre l'acquerello è una tecnica liquida e può vantare un'origine più antica, tanto che lo stesso Cennini fornisce le informazioni necessarie all'uso della stessa82; l'arte di “colorire a secco” è tipicamente tardo quattrocentesca – Leonardo, infatti, la menziona per la prima volta nel Codice Atlantico solo verso gli anni Novanta del Quattrocento – si rafforza nel Cinquecento, dove viene battezzata con il termine pastello iniziando ad essere menzionata dai trattatisti, per avere, infine, uno sviluppo eclatante verso la fine del XVII – inizio del XVIII secolo con il passaggio da mezzo grafico-disegnativo a vera e propria tecnica pittorica. I campi d'applicazione del pastello sono legati a questo sviluppo storico-artistico della tecnica. Come fa presente McGrath83, in alcune occasioni il desiderio di aggiungere colori descrittivi ai disegni, incoraggiò gli artisti a ricorrere alle matite colorate fabbricate, ovvero ai pastelli, per diversi scopi. Il pastello lo vediamo, infatti, impiegato in svariate situazioni e per molteplici finalità: per lo studio dei volti o più in generale per lo studio di figura che sfocerà nel Settecento nel ritratto vero e proprio a pastello; per lo studio di animali; per gli studi di composizione per opere ad olio, come quelli dell'artista veneto Jacopo Bassano, in diretta opposizione con gli studi di composizione ad acquerello di affreschi centro italiani; nell'esecuzione dei cartoni preparatori, come nel caso del cartone per il Ritratto incompiuto di Isabella d'Este di Leonardo. Nel Seicento, il pastello viene utilizzato anche per la realizzazione dei modelli per l'incisione in mezzotinto, tecnica che proprio in questo periodo si sviluppa, come nel caso delle opere di Robert Nateuill. Nel Settecento, infine, si sviluppa come opera d'arte a sé stante, senza alcuno scopo funzionale: è il caso questo di artisti internazionali come l'italiana Rosalba Carriera, lo svizzero Liotard o di francesi come: Joseph Vivien, Antoine Watteau, François Boucher, Jean-Baptiste Perronneau, Maurice-Quentin De LaTour o di Chardin, per citarne solo alcuni. Le motivazioni, che dal XV secolo, spingono gli artisti ad aggiungere il colore alle loro opere grafiche, possono essere diverse e spesso sono riconducibili alle diverse fasi dell'operazione progettuale. Si può considerare ad esempio il desiderio dell'artista di sperimentare la resa cromatica di un particolare, o una posa o uno scorcio impegnativi: si incontrano allora, i cosiddetti studi di dettaglio, ovvero disegni che presentano solo alcuni dettagli rifiniti con il colore, come l'accessorio peculiare, un pizzo, un fronzolo, o un 82 F. Frezzato, 2003, p. 83-85 83 T. McGrath, 2002.
  • 22. particolare anatomico, l'occhio, la bocca o un intero volto. La stesura cromatica poteva essere dettata, anche, dalla necessità di creare un modello visivo, una sorta di fac-simile, per il committente dell'opera, in quel caso si sottoponeva il disegno, che presentava gli stessi colori che avrebbe dovuto avere l'opera finale, al vaglio del mecenate . Altre volte, l'uso del pastello poteva essere dettato da necessità salutistiche: McGrath84, ipotizza che l'uso esteso delle matite colorate fabbricate da parte del Barocci, sia da attribuire alla «volontà dell'artista di studiare gli effetti coloristici della sua pittura e allo stesso tempo eliminare l'esposizione a materiali che sconquassassero il suo stomaco85», ciò gli era permesso grazie al fatto che con la tecnica del pastello «poteva raggiungere risultati simili a quelli della pittura ad olio», come verrà dettagliatamente spiegato in seguito. Infine, un'ultima motivazione poteva derivare direttamente dalle preferenze o esigenze di mercato. Nel Cinquecento, in particolare si sviluppa un forte interesse verso il collezionismo delle opere grafiche. Gli artisti non sono sordi a questi input collezionistici e con il passare del tempo iniziano a creare disegni il cui scopo finale è quello di finire sul mercato. Con questi presupposti si innesca il fenomeno del passaggio da disegno funzionale a disegno a sé stante, il quale si arricchisce sempre più spesso di effetti coloristici: si prendano ad esempio i disegni a due o tre matite di Zuccaro e di altri artisti della scuola romana. Di seguito si cercherà di approfondire il discorso sulle funzioni e le motivazioni nell'uso del pastello, arricchendo lo studio con esempi e confronti che permettano di motivare le affermazioni appena riportate. Si proverà ad individuare a quale livello ideativo del procedimento appartengono i disegni eseguiti a pastello, e vedremo come questa tecnica coloristica sia riuscita ad entrare in tutte le tipologie del disegno e si sia poi sviluppata in modo autonomo divenendo una vera e propria tecnica pittorica. 1.4.1 L'uso del pastello nell'esecuzione di un cartone: la nascita del cartonetto colorato. Il cartone86 è un progetto elaborato in modo definitivo e in scala reale per una precisa opera, da trasferire sul supporto tramite mezzi meccanici quali lo spolvero, la quadrettatura o il ricalco. Questo tipo di disegno, la cui funzione specifica è di trasportare lo studio su carta del soggetto e aiutare l'artista nella realizzazione dell'opera finale, è spesso facilmente riconoscibile grazie alla presenza delle tracce propedeutiche al trasferimento, quali i fori dello spolvero, la griglia per il trasferimento proporzionale, o i segni del ricalco. Per questo motivo si tende ad individuare il disegno con Ritratto di Isabella d'Este (Inv. n. MI 753, Tav I), eseguito da Leonardo, come un cartone preparatorio. Il disegno si presenta forato lungo i 84 T. McGrath, 2002, p.73-74. 85 E. Borea, 1976, pp.177-207 [NDR] Bellori è la fonte che ci informa del presunto avvelenamente del Barocci da parte degli artisti romani con cui collaborava (es. Zuccaro) e dei conseguenti problemi di stomaco che lo costrinsero a limitare l'uso di media liquidi in favore del pastello. 86 Per una maggiore trattazione sull'argomento si veda il testo di M.C. Galassi, 1998.
  • 23. contorni, quindi predisposto per un eventuale trasferimento tramite lo spolvero che Leonardo, sicuramente utilizzava a cavallo tra Quattro e Cinquecento87. Questo cartone è probabilmente l'unica opera di Leonardo pervenutaci che attesti l'utilizzo da parte del maestro della tecnica del «colorir a secco», ovvero l'uso delle matite colorate. Venne realizzato alla fine del XVI secolo a matita nera, rossa, e pastello giallo ocra, ed è oggi conservato al Département des Arts Graphiques del Louvre. È opinione condivisa che il ritratto sia stato commissionato dalla marchesa in occasione della sosta compiuta da Leonardo a Mantova tra il 1499-1500, dopo la partenza da Milano in seguito all'occupazione francese. L'interesse di Isabella verso la ritrattistica del maestro, è precedente ed è attestato dalla lettera del 26 aprile 1498 indirizzata a Cecilia Gallerani, dove la nobile chiede di ricevere il ritratto che alcuni anni prima le aveva fatto il maestro toscano, per poterlo confrontare con i ritratti di Giovanni Bellini. L'ipotesi, è quindi, che Leonardo abbia realizzato due disegni e che, uno sia rimasto a Mantova e sia stato presto alienato (tanto che Isabella è indotta a scrivere a Fra' Pietro da Novellara di Firenze per chiedere un nuovo ritratto), mentre l'altro l'abbia portato con sé, prima a Venezia88 e poi a Firenze, dove ha ricavato il cartone da noi conosciuto. Il cartone non fu mai tradotto in pittura, nonostante le insistenze della committente, che nel 1504 vi rinunciò in cambio dell'immagine di un «Christo giovenetto de anni circa duodeci»89. Il procedimento tecnico-stilistico adottato per questo disegno, dove Leonardo combina i pastelli su disegni sottostanti realizzati a matita rossa e lapis nero, mostra in primo luogo una forte propensione alla regolarizzazione dei volumi, che conduce in seconda battuta alla resa di effetti monumentali, che sono accentuati anche dalla frontalità con cui è presentato il busto, rispetto alla posa di profilo del volto. Il colore potrebbe essere chiamato ad assolvere anche a un'altra funzione, diversa da quella della costruzione lineare-volumetrica del corpo o della semplice realizzazione del cartone. È possibile che il pastello sia stato scelto da Leonardo come strumento disegnativo per l'impossibilità di eseguire un ritratto ad olio della marchesa a causa della brevità del soggiorno dell'artista a Mantova90. Il medium adottato, per la facilità e velocità di stesura che lo caratterizzano, potrebbe essere stato utilizzato per la rapida esecuzione del disegno e con l'intento di fissare qualche particolare o qualche dato coloristico (come la massa scura dei capelli o l'orlo dorato del colletto) che si sarebbe potuto dimenticare al momento della realizzazione del dipinto. Il fatto, però, che Leonardo abbia scelto di utilizzare un mezzo inconsueto come il pastello e che abbia cercato di riportare sul foglio il maggior numero di 87 Leonardo da Vinci, Codice A, f 1r; cfr. Panichini, 1977, p.215: «prepara il legname per dipingervi su...e poi spolverizza e profila il tuo disegno sottilmente». 88 La presenza di un ritratto di Isabella a Venezia è testimoniata dalla lettera del 13 marzo 1500, di Lorenzo da Pavia in cui afferma: «e l'è a Venezia Lionardo da Vinci, el quale m'ha mostrato uno retrato de la S.V. che è molto naturale a quela. Sta tanto ben fato, non è possibile melio». 89 Lettera del 24 maggio 1504 scritta direttamente a Leonardo da Isabella. 90 Dopo Mantova, Leonardo venne chiamato a Venezia dalla Repubblica Serenissima per effettuare un sopralluogo sull'Isonzo, a causa della minaccia turca. Il suo viaggio, comunque, riprese quasi immediatamente alla volta di Firenze
  • 24. dettagli realistici possibile, compresi la modulazione dei colori e la cangianza dei lumi che definiscono le masse corporee, fa assumere al disegno «l'aspetto di vero e proprio ritratto- disegnato, ovvero di un ritratto condotto con le sole risorse del disegno 91». La grandezza di quest'opera si risolve tutta in questa caratteristica. Leonardo deve aver scelto di fare un ritratto-disegnato perché sapeva di poter disporre di strumenti nuovi che gli avrebbero permesso di realizzare, pur disegnando, un ritratto tale da poter gareggiare con la pittura, finanche a superarla perché l'artista, con questa nuova tecnica, può contare anche su soluzioni estetiche proprie del disegno quali l'abbozzo o il non-finito. Queste caratteristiche del Ritratto di Isabella denotano l'elevato grado di maturità raggiunto dalla concezione costruttiva del maestro, il quale crea un qualcosa di nuovo che è pienamente espressione della maniera moderna e che si rinviene anche nei disegni dei suoi allievi. Probabilmente affascinati dai risultati ottenuti da Leonardo nella tecnica del «colorire a secco», Giovanni Antonio Boltraffio e Bernardino Luini seguirono le orme del maestro, continuando ad usare le matite colorate e ottenendo risultati degni di nota. Il primo realizzò tre disegni, in questa tecnica, che possono essere considerati come cartonetti colorati: uno Studio di giovane donna a mezzo busto in vista frontale, da alcuni ritenuto preparatorio per la Santa Barbara del museo di Berlino o per un perduto Ritratto di Isabella di Aragona e un Ritratto di giovinetto conservati entrambi all'Ambrosiana di Milano (rispettivamente Inv. n. F 290 Inf.7; Inv. n. F 290 Inf. 8), oltre a uno Studio di testa femminile (Inv. n. 17184 F, Tav. III) degli Uffizi, «studio dal vero» per la madonna della pala Casio92. L'altissimo grado di messa a punto raggiunto in questi disegni, che tra l'altro non riesce a reggere nel trapasso alla pittura, avvalora la tesi dell'invenzione del Ritratto-disegnato. Bambach93, ad esempio, crede che questi disegni di Boltraffio siano un lavoro indipendente e non legato ad un'opera finita, in quanto ritiene che un disegno così rifinito dovesse essere poco pratico e ridondante per lo scopo a cui doveva assolvere un disegno preliminare: essere una traccia di base per il trasferimento su altro supporto. Mentre Forio fa notare che c'è stato un «passaggio ad una concezione grafica rivolta ad effetti più propriamente pittorici, non solo nelle più ricche scelte cromatiche, ma anche nella ricerca di tratti più morbidi che non chiudono la forma nel segno definitorio della punta d'argento ma la aprono a un più libero contatto con la luce»94. Anche il secondo, Luini, raggiunge gli stessi risultati nel suo Ritratto di donna in mezzo busto di trequarti dell'Albertina (Vienna, Graphische Sammlung, Inv. n. 243, Tav. IV), che secondo un ipotesi raffigurerebbe Ippolita Bentivoglio. Questo è l'unico disegno a matita colorata che ci è pervenuto dell'artista ed è ritenuto da molti un capolavoro del disegno a pastello del XVI secolo. Dal punto di vista tecnico-esecutivo, Luini accentua a matita colorata solo alcune zone 91 A. Ballarin, 2010, in corso di pubblicazione. 92 Fiorio, M.T., 2000, p.50 93 Bambach, C.B.et al., 2003, p.658 94 Fiorio, M.T., 2000, p.50.
  • 25. particolari, quali l'incarnato del volto, in cui utilizza un soffice sfumato per articolare gli effetti tonali, i capelli e il cappello. Lascia, poi, la maggior parte della figura abbozzata sia con la matita nera, soffice e argentea ,che a carboncino. Ne risulta un dinamico contrasto di finito e non finito, di aspetto molto simile a quello del cartone per il ritratto di Isabella d'Este, e del tutto in sintonia con quanto detto prima riguardo ai vantaggi del ritratto disegnato. 1.4.2 L'uso del pastello nel ritratto celebrativo. Mentre Leonardo e i suoi allievi milanesi, realizzano con le matite colorate dei ritratti disegnati, che solo in un secondo momento vengono recuperati come cartoni o modelli di opere finite, nella produzione di Hans Holbein il Giovane e di Jean e François Clouet, l'uso delle matite colorate ha come scopo lo studio per un'opera finale di tipo celebrativo e forse, anche la necessità di costruire un modello per il committente, generalmente un personaggio di alto rango sociale molto legato all'ambiente di corte. Il ritratto celebrativo è un'opera che nasce per rappresentare ed esaltare la persona raffigurata. Pertanto, proprio per la funzione a cui deve assolvere, i personaggi ritratti mostrano una serie di caratteristiche peculiari e comuni, quali: la rappresentazione monumentale del soggetto a mezzobusto, la posa generalmente di trequarti e la ricchezza descrittiva dei particolari dell'abbigliamento, sopratutto di quelli lussuosi o caratteristici che denotano il tenore di vita e la classe sociale d'appartenenza. Alcuni esempi di ritratto celebrativo a pastello di Jean Clouet sono il Ritratto di Guillaume Gouffier, seigneur de Bonnivet (Chantilly, Musée Condé, Inv. n. MN 153, Tav. V), il Ritratto di Marie de Langeac, Madame de Lestrange (Chantilly, Musée Condé, Inv. n. MN211 Tav. VI), e il Ritratto di Antoinette de Cerisay detta "La Chanceliere Olivier" (Vienna, Graphische Sammlung der Albertina, Inv. n. 11184) che esemplificano il metodo disegnativo del maestro francese, che consiste nel «definire il soggetto non tanto con un'unica linea di contorno, ma piuttosto con tratti paralleli, sottili e lunghi, piuttosto spaziati di pastello»95, come ben si vede sul copricapo di Guillaume e sui capelli di Madame de Lestrange. Il metodo di Holbein è, invece, diverso. Holbein definisce maggiormente i contorni con un disegno lineare e sciolto, condotto interamente a pastello e poi rifinisce in maniera sorprendente il volto e pochi altri particolari, quali i gioielli o gli accessori delle signore. Tramite il pastello riesce a conferire una stupefacente vitalità al personaggio, sia nell'espressione che nell'animazione. Alcuni studiosi96 credono che abbia acquisito la tecnica direttamente da Clouet durante il suo soggiorno francese (1524), ma Meder 97 fa notare che già 95 S. Foister, London, 1983, p.28 96 N. Jafferes, 2006, p. 758 97 Meder, 1978, p. 101
  • 26. nel Ritratto di lebbroso (Cambridge, The Fogg Art Museum, Harvard University, Inv. n.1927.425.Meta and Paul J. Sachs Collection) datato 1523, quindi antecedente al viaggio in Francia, Holbein utilizzava il pastello. È presumibile pertanto che la tecnica l'avesse imparata precedentemente, forse in Svizzera, e che in seguito si fosse sviluppata in Francia - anche grazie al contributo di Clouet - dove sussisteva da tempo una consolidata tradizione di disegni preparatori a pastello - basti pensare al primo disegno a pastello di Jean Fouquet e al celebre Jean Perréal, che suscitò l'interesse di Leonardo. Molto interessante, per comprendere la tecnica a pastello di Holbein sono alcuni disegni del maestro conservati nel castello di Windsor, per citarne solo alcuni, il Ritratto di Lady Grace Parker (Inv. n. 28, Tav. VII), la figlia di sir John Newport, il Ritratto del conte Bedford (Inv. n. 69) o quello del conte di Southampton (Inv. n. 66). 1.4.3 L'uso del pastello nella pratica di bottega: ricordi e modelli per il committente. Il modello per il committente è un disegno-progetto, generalmente ben rifinito, realizzato dall'artista per sottoporre le sue idee al vaglio del mecenate che gli ha commissionato l'incarico; mentre i ricordi potrebbero essere definiti come delle copie dettagliate dell'opera finale, realizzate dal maestro a scopo documentario o quale promemoria della sua attività in modo da costruire per sé un repertorio di immagini-campione. Il ricordo, nell'ambiente di bottega, poteva assolvere anche ad altre due funzioni: essere la base per l'insegnamento e il praticantato degli allievi, che spesso consisteva nel ricopiare questi ricordi per impratichirsi nel disegno, oltre ad essere un ausilio per combattere la falsificazione (il ricordo, in questo caso, attesterebbe la paternità dell'opera). Gli scopi per cui si realizzano queste tipologie disegnative sono quindi diversi, ma non si può escludere che un modello precedentemente realizzato possa trasformarsi in un ricordo, o che si verifichi l'ipotesi inversa: se, infatti, l'artista conserva nel tempo il disegno di un'opera eseguita in passato e lo mostra in seguito ad un nuovo committente, questi potrebbe accettarlo ed automaticamente il ricordo diverrebbe modello al committente. I tratti caratteristici che contraddistinguono questi due generi di disegno, sono simili e dovrebbero consistere nell'elevato grado di definizione raggiunto e nella minuzia descrittiva, sia lineare che coloristica. Usare il condizionale è, però, d'obbligo in quanto la scelta di come realizzare il ricordo o il modello spetta solo all'artista e dipenderà quindi dalle sue abitudini. Un esempio, che secondo alcuni studiosi98, può essere considerato sia un ricordo che un modello, è il foglio raffigurante la Madonna che legge con Bambino in braccio di Barocci (Parigi, Musée du Louvre, Inv. n. 2847, recto, Tav. VIII), già citato in precedenza. Questo disegno di piccole dimensioni, raffigura la Vergine seduta davanti ad un tendaggio mentre 98 M.M. Grasselli, R. Eitel-Porter et Al., 2007, p.52
  • 27. legge, con in braccio un Cristo bambino che si aggrappa al manto azzurro e dialoga attraverso lo sguardo con lo spettatore. Il gruppo di figure è praticamente identico alla piccola opera della Galleria Pallavicini di Roma, realizzata dall'artista tra il 1568 e il 1569. Altri disegni che potrebbero essere considerati dei ricordi sono gli studi di animali di Jacopo Bassano, in particolari quelli raffiguranti i cani. Dall'osservazione delle opere di Jacopo e dei figli ci deriva la certezza che si possa trattare di ricordi di bottega, in quanto la raffigurazione dello stesso animale nella medesima posa è ripresa in opere diverse, come ad esempio il cagnetto accucciato in angolo in basso a sinistra nel battesimo di santa Lucilla per mano di San Valentino (Museo Civico di Bassano del Grappa, Inv. n.15) che viene ripreso in vista speculare nell'opera raffigurante il Potestà Sante Moro e san Rocco ai piedi della Madonna con il Bambino (Museo civico di Bassano del Grappa, Inv. n. 23), e in tanti altri esempi99. 1.4.4 L'uso del pastello per la “copia” condotta sull'originale dei maestri antichi. La pratica della copia, intesa come riproduzione di un modello e finalizzata allo studio e al perfezionamento della tecnica da parte di un artista principiante, doveva essere molto diffusa nel passato. «La trattatistica artistica da Cennini a Vasari sino ai teorici del Neoclassicismo, raccomanda al giovane artista l'applicazione alla copia come esercizio propedeutico e indispensabile all'attività creativa, tale da affinare l'abilità dell'esecutore e da stimolare il maturarsi delle sue doti»100. Nell'esecuzione della copia l'artista poteva utilizzare strumenti disegnativi diversi, dalla penna, allo stilo, al carboncino e per inserire e sperimentare il colore poteva considerare sia l'acquerello che il pastello. L'attestazione di questo uso pratico del pastello, la ritroviamo nei consigli elargiti dall'Armenini101 ai giovani che intraprendono la strada dell'arte del disegno e della pittura. Il consiglio riguarda il modo corretto per imparare a distribuire le «mestiche ed i colori diversi» sul supporto. Suggerisce di osservare le opere dipinte «dai più eccellenti nostri moderni, […] e se gli è possibile» di provare ad «imitarle coi colori, o in tavolette, o in carte, [...] coi pastelli, o con altra materia averne copia per poter servirsene poi né loro bisogni». In questa categoria potrebbero essere inseriti i sei studi di teste a pastello per l'ultima cena realizzati da Boltraffio, come ipotizzarono Georg Dehio e Wilhelm Von Bode102. Le teste raffigurano Giacomo il Minore, Andrea, Giuda, Pietro, Giovanni e Cristo e si tratterebbe di copie condotte dall'originale, dal quale si distaccano leggermente per la rielaborazione personale dell'interprete di alcune pose dei personaggi, ma che permettono di cogliere i 99 A. Ballarin, G. Ericani, 2010, p. 71 100A. Petrioli Tofani, 1991, p. 171 101G.B. Armenini, 1587, p. 58-59 102 W. v. Bode, 1886, 187-195
  • 28. pensieri del maestro, per quella porzione sinistra di affresco delle grazie irrimediabilmente perduta. Esiste anche una seconda serie di disegni a pastello dello stesso soggetto e forse con una simile funzione: quella dell'ormai dispersa collezione Weimar del museo granducale, dove sono raffigurate le teste di Giuda, Pietro (North Carolina ,Chapel Hill, Auckland Art Museum, Inv. n. 77.53.2), Tommaso, Giacomo Maggiore (North Carolina, Chapel Hill, Auckland Art Museum, Inv. n. 77.53.2), Bartolomeo, Andrea, Filippo (Londra, collezione Gabriele Pantucci), oltre alle Teste di Cristo (Melbourne, National Gallery of Vicotria, Inv. n. 1972/4) e di Taddeo (Melbourne, National Gallery of Vicotria, Inv. n. 1973/4), mentre la Testa di Simone risulta perduta e quella di San Giovanni e Giuda Minore sono invece conservate a New York (collezione privata del dott. B.H. Breslauer)103. Non è certo che quest'ultima serie sia un originale, ma se lo fosse probabilmente la sua funzione rientrerebbe nella categoria sopra descritta. 1.4.5 L'uso del pastello per l'abbozzo o schizzo. L'abbozzo, o schizzo, è un particolare tipo di disegno preparatorio in cui l'artista ricerca la definizione formale delle idee che ha in testa. Potrebbe essere descritto come «l'embrione dell'opera d'arte»104, ovvero quella fase primordiale ancora poco definita, ma spesso libera e vitale, che preannuncia la realizzazione di un nuovo soggetto. Inoltre può essere difficile trovare un riscontro tra l'abbozzo e l'opera finale a cui è destinato, perché il disegno prima d'esser riportato sul supporto definitivo potrà essere più volte rimaneggiato, riadattato finanche stravolto completamente o abbandonato per nuove soluzioni. Lo Studio di figura seduta di spalle di Darmstadt (Inv. n. AE1432) e lo Studio di figura seduta di Francoforte (Inv. n. 15216) di Jacopo Bassano possono essere considerati degli abbozzi realizzati a pastello. In questi disegni, l'artista studia e sperimenta la struttura e l'articolazione dei corpi con tratti repentini e ricchi di tensione che delineano la forma essenziale della figura. Come fa notare Ballarin105, «l'esigenza di sperimentazione carica di vitalità il segno fin dal primo formularsi del pensiero formale». Il pastello è impastato a formare accese sfumature colorate, che vengono accostate arditamente (la trama dei segni neri in contrasto con l'arancio della camicia, con il giallo limone delle braghe e con il rosa e bianco dell'incarnato, e il freddo azzurro del manto), e viene utilizzato per dare forma alle figure e per indagarne le pose, in una fase di ricerca formale ancora lontana dall'opera finale: «L'espressione è condizionata e vitalizzata dalle possibilità del mezzo tecnico, il pastello, e dall'occasione sperimentale di un primo abbozzo verso esiti che non sempre collimano con quelli dei dipinti che si intendono preparare». La tesi che si tratti di abbozzi, appartenenti ad 103 P.C. Marani, 2001, tavole dalla 60-64 104A. Petrioli Tofani, 1991, p.171 105A. Ballarin, 1995, p.185
  • 29. una fase precoce del processo ideativo dell'artista, è avvalorata dal fatto che questi disegni non presentano corrispondenze con soggetti riportati in pittura, è possibile pertanto che l'artista li abbia abbandonati in corso d'opera. 1.4.6 L'uso del pastello negli studi preparatori di figura. Lo studio preparatorio di figura è un disegno, spesso, tradotto dal modello vivente in posa, nudo o vestito, il quale viene analizzato in tutte le sue possibili gestualità. Nell'esecuzione dello studio venivano, generalmente, tralasciati i particolari anatomici, quali teste, mani, piedi, ginocchia e articolazioni varie, che venivano invece studiate singolarmente negli studi di dettaglio. Gli artisti facevano uso, in questa fase ideativa, anche di espedienti tecnici particolari, attestati dalle fonti, quali manichini o modellini in cera o creta per focalizzare i movimenti o l'effetto dell'incidenza della luce. Lo studio preparatorio di figura può presentarsi sotto forma di disegno più o meno dettagliato a seconda della fase preparatoria a cui appartiene o dell'effetto ricercato. Le caratteristiche di questo genere di disegno si possono osservare nel già citato Studio per il Buon ladrone sulla Croce (Inv. n. 2897 recto), dove certamente la resa dell'incarnato e l'analisi della posa sono i caratteri ricercati; o nello Studio di vecchio con turbante della Fondazione Museo Meniscalchi-Erizzo di Verona (Inv. n. 35), dove con pochi tocchi di colore viene delineata sia la forma del busto che l'espressione del volto personaggio, così come nello Studio per vescovo seduto con libro sulle ginocchia (Stoccolma, Collezione Perman). Mentre in Barocci ritroviamo le caratteristiche di questo genere nel bellissimo disegno a soggetto volgare, dello Studio per giovane donna nuda piegata in avanti a prendere un vaso (Parigi, Museo del Louvre, Inv. n.2860), conservato al Département des Arts graphiques del Louvre. 1.4.7 L'uso del pastello negli studi di dettaglio. Il disegno di dettaglio corrisponde alla fase di studio analitico di ogni singolo particolare della figura. Il punto di partenza è sempre il modello vivente atteggiato nella posa esatta in cui deve comparire, ma diversamente dallo studio di figura, dove si analizza l'intero soggetto, in questa fase vengono dettagliatamente studiati solo alcuni particolari, quali le mani, i piedi, le gambe o le teste, sia nell'aspetto dell'articolazione della posa che in quello della modulazione delle luci e dei colori. La scelta del pastello per lo studio dei particolari, piuttosto che dell'acquerello, è determinata dall'«elevato grado di controllo del mezzo, [che è] necessario per raggiungere una convincente resa tridimensionale106», tramite sottili gradazioni di tono. Possiamo riscontrare questa fase di studio in opere di Bassano quali il saggio giovanile 106T. McGrath, 2002, p. 73
  • 30. a pastello per la Fuga in Egitto della Morgan Library di New York (collezione privata), datato 1542; la Testa di Vergine addolorata (Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques Inv. n. 5286) del Louvre ed in particolare negli studi di animali, quali lo Studio per il muso di un asinello (Berlino, Inv. n. 15655, Tav. IX) o lo Studio per due conigli (Inv. n. 811 Orn) degli Uffizi. Di Barocci, invece, si ricordano lo Studio per la testa di san Francesco (Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques Inv. n. 2876, recto , Tav. X), che a causa dell'angolo inusuale della testa del santo deve aver richiesto uno sforzo preparatorio enorme da parte dell'artista107; lo Studio per la testa di Cristo (Inv. n. 552) del capolavoro barocciano la Madonna del Popolo di Santa Maria della Misericordia in Arazzo; lo Studio preparatorio per la testa dell'apostolo della Pentecoste visto di scorcio (Vienna, Graphische Sammlung der Albertina, Inv. n. 1553), e ancora lo Studio di testa di donna del 1584 del Louvre di Parigi (Département des Arts graphiques, Inv. n. 2866), dove l'indagine riguarda sia lo scorcio della testa che la resa cromatica dell'incarnato. Per quanto riguarda gli studi di dettaglio di altre parti anatomiche, si ricordano anche gli Studi di mani (Inv. n. 2886, recto) e braccia e lo Studio di piede (Inv. n. 11009, recto) del Louvre , nonché lo Studio di mani e avambraccio (Parigi, Inv. n. 2886, recto). In questa categoria disegnativa è possibile inserire anche lo Studio per testa di cardinale (collezione privata, Tav. XI), il secondo ed ultimo disegno di Raffaello conosciuto, realizzato a pastello, oggi conservato nella collezione della Wiltonhouse, nella raccolta del duca di Pembrock, a Montgomery. La tecnica utilizzata per il disegno ha disorientato la critica per molto tempo, tanto che si era pensato di attribuire l'opera al Bassano, ma in seguito ad un intervento di Konrad Oberuber e degli esperti del British Museum è stata formulata la corretta attribuzione. 1.4.8 L'uso del pastello negli studi di composizione o «concetti». Lo studio di composizione o «concetto»108 è una sorta di disegno che si può porre a metà strada tra lo schizzo e il modello109. Viene realizzato durante la fase progettuale dell'opera per analizzare gli effetti della luce, delle pose e dell'ambientazione. Il grado di schematizzazione che può raggiungere dipende, comunque, dalle necessità di impaginazione e posizionamento delle figure nella scena, oltre che dalle abitudini del singolo artista. Associare i pastelli agli studi di composizione significa affrontare il discorso dell'importanza e della funzione del colore nella concezione artistica cinquecentesca. La 107L'ipotesi dell'insistenza sullo studio di questo dettaglio è avvalorata dalla presenza di un secondo disegno di analogo soggetto alla National Gallery di Edimburgo (Inv. n. D2250). 108W.R. Rearick, 2000, p. 21 109A. Petrioli Tofani et Al., 1991, p. 171