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Giovanni Robustelli
Gibellina
Laboratorio di sperimentazione sociale
eBook per l'arte
un'iniziativa
© 2011 eBook per l'Arte – Giovanni Robustelli
Prima Edizione 2011
Licenza
Creative Commons 3.0 – Attribuzione - Non commerciale – No opere
derivate
http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/
In copertina
Bozzetto di Fausto Melotti per il monumento Contrappunto del 1983
Fotografia di Giovanni Robustelli
I titoli di opere d'arte sottolineati e colorati in blu sono cliccabili: si aprirà
l'immagine dell'opera (necessaria connessione a internet).
Dedico questo testo al Senatore Ludovico Corrao, al suono delle sue
parole piene di passione e di ricordi, che riempirono quella stanza
bianca e austera, seduto su una poltrona rossa imponente come
un trono in un caldo e lieto pomeriggio di Settembre del 2009,
elegante, disponibile e gentile come si conveniva ad un uomo
che ha vissuto nell'arte e per la cultura.
Premessa
Non avevo mai dedicato, fino a poco tempo fa, molta attenzione a
Gibellina; ne avevo sentito parlare, certo, ma poco e male: una citta-
dina semi-deserta, dove campeggiano qua e là degli orrori strutturali,
incomprensibili e desolanti, almeno secondo il giudizio di parenti ed
amici che casualmente vi erano “incappati”. Sennonché un giorno,
durante le lezioni di Arte Contemporanea della specializzazione in
storia dell’arte all’università di Genova, vidi scorrere sul proiettore
una diapositiva con l’immagine di un grosso cretto in cemento, diste-
so su una collina del trapanese... dove? A Gibellina. Analizzai a pelle
l’operazione del cretto come qualcosa di superficiale, dando svoglia-
tamente un giudizio simile a tante altre operazioni di Land Art.
Da qui è iniziato il mio interesse verso questa sconosciuta cittadina
siciliana, forse sfortunata, perché attorniata da una zona troppo intri-
sa di storia e di cultura come Palermo, Segesta, Mazara del Vallo,
Trapani, Selinunte per attirare l’attenzione di una rete turistica che
mira ad enfatizzare principalmente la “patina dei secoli”, “il fascino
del mito”, “la tradizione” e “l’ospitalità gastronomica”. Naturalmente,
a causa di ciò, si capisce il giudizio negativo dei non addetti ai lavori:
Gibellina rimane purtroppo fuori da qualsiasi “tradizione”. Con la
storia passata non ha nulla a che vedere: è una città ricostruita nuo-
vamente, dopo un terribile terremoto, non solo senza poter riprende-
re nulla di quello che era crollato, ma lasciando proprio le macerie
sulla collina dove sorgeva per rinascere su un altro posto, più distan-
te, a valle.
Anche se i turisti venissero martellati dai media, giorno e notte,
sulla possibilità di visitarla, non troverebbero alberghi per ospitare i
loro pullman: a Gibellina si va magari con una multifamiliare, perché
le stradine non permettono di raggiungere agevolmente il Grande
Cretto di Burri, o la Fondazione delle Orestiadi, che ospita, oltre ad
una ricca esposizione di Arte Applicata del Mediterraneo, una delle
più importanti collezioni di Arte Contemporanea del meridione d’Ita-
lia.
Al massimo si alloggia nei B&B “domestici”, dove l’accoglienza del-
la gente non fa rimpiangere la propria casa.
Mi sono recato quindi a Gibellina con l’intenzione di occuparmene,
conoscerla e scrivere una ricerca su questo importante “fenomeno”
culturale, non avendo però ancora chiara l’idea su quale aspetto do-
ver esattamente focalizzare il mio studio. Soltanto dopo aver visto le
opere, e la loro storia, ho capito cosa voleva dire quel fenomeno di
dialogo e di confronto che si era venuto a creare durante i convegni
organizzati negli anni Ottanta a Gibellina, tra le tendopoli, nelle
strutture di accoglienza, tra architetti, artisti, letterati o semplici cit-
tadini che avevano voglia di rinascere dalle macerie.
A Gibellina esistono dei linguaggi unici, inusuali, che esistono per-
ché sono stati creati là e per quella precisa destinazione o funzionali-
tà. Quante sculture abbiamo mai visto di Rotella? Quante architetture
abbiamo mai potuto incontrare di Consagra? E qual è l’ultimo gonfa-
lone disegnato da un artista per una processione (che non sia Anto-
nello da Messina), se non quello di Boetti, Accardi o Isgrò? Questi
nomi ci sono familiari, fanno parte della più importante storia cultu-
rale del nostro paese (e non solo) degli ultimi decenni, e siamo abi-
tuati a conoscerli per altro. Ma a Gibellina sono come rinati, cioè si
sono immedesimati, hanno sentito, provato e calpestato questa terra
per poi rimescolarsi e rinascere per un’idea unica, per un’utopia che
non fosse legata al mercato, al circuito della cultura “ufficiale”.
Come dice Ludovico Corrao, nell’intervista che riporto alla fine di
questa ricerca, gli artisti e gli architetti invitati a Gibellina per la rico-
struzione della città, si sono recati sul posto, ascoltando e vivendo la
realtà sociale, culturale e spirituale; si sono espressi per la cultura ma
anche per la gente, che oltre all’esigenza materiale di un tetto, aveva
bisogno di storia, di memoria: è questo ciò di cui voglio parlare nella
mia ricerca, degli interventi in cui l’artista è riuscito ad immergersi
nel sociale, nella necessità immediata di un’idea di libertà analizzan-
done soprattutto la riuscita contestuale e storica dell’opera.
La ricerca sarà così strutturata in una prima parte che esporrà le
vicende di Gibellina, dal terremoto al periodo di ricostruzione e poi di
assestamento, nonché l’attuale condizione di Gibellina a vent’anni
dalla ricostruzione e le realtà culturali presenti sul territorio. In que-
sta prima parte si cercherà quindi di inquadrare una storia, una pre-
messa al nostro discorso, per contestualizzare meglio l’analisi sui pro-
cessi creativi degli artisti accorsi all’appello di Corrao.
La seconda parte della ricerca, che inizia con l’esporre i diversi
esempi di interventi artistici sparsi per la rete urbana di Gibellina,
comprese alcune opere all’interno ormai dei musei (sia quello civico
che quello del Granaio della Fondazione Orestiadi), continuerà con
un approfondimento su tre esperienze in particolare, interessanti so-
prattutto per l’attività laboratoriale che ha caratterizzato i processi
creativi in un dialogo tra artisti e artigiani locali.
L’aspetto principale della ricerca è proprio quest’ultimo tema, il ri-
contestualizzarsi dell’artista non solo dal punto di vista linguistico,
ma anche secondo un diverso procedere dal punto di vista progettua-
le e realizzativo.
Gibellina viene studiata quindi come fenomeno sociale, precisa-
mente come “laboratorio sociale” (per utilizzare un’espressione di
Achille Bonito Oliva), da cui hanno visto la luce opere inusuali, tassel-
li unici all’interno di illustri ricerche di altrettanti autori internazio-
nali.
La ricerca si chiude con il dialogo avvenuto con Ludovico Corrao
durante il mio soggiorno a Gibellina, in cui si percorre un’interessan-
te parabola socio-culturale, dal terremoto alla ricostruzione e in cui
affiorano ulteriori spunti per ulteriori ricerche e studi. Un dialogo che
oltre a riportare i fatti, ormai studiati e ancora dibattuti in numerosi
testi specializzati, rispolvera episodi intimi, della politica e della cul-
tura; una faccia più genuina e sincera per una storia, quella di Gibelli-
na, che ha dovuto scontrarsi spesso e volentieri con le critiche più
aspre e velenose.
Questa ricerca espone quindi un modello culturale, quello di Gibel-
lina, basato sul valore e sull’importanza dell’arte, con lo scopo di no-
bilitare la nuova storia di una comunità o di una società intera; ne ve-
dremo i risultati che si possono ottenere dalla creatività se si lascia un
artista nella libertà espressiva più assoluta, nel rischio sempre latente
di creare oasi nel deserto.
Indice
I. Gibellina: storia dalla vecchia alla nuova 11
L’appello del 1970: un appello di solidarietà 15
II. Le realtà di oggi e la Fondazione Orestiadi 27
III. L'artista si mette in gioco 39
IV. Artista e realtà sociali: stato, religione e cultura 51
Consagra e le architetture 53
Boetti e il Prisenti di San Rocco 57
Paladino e la scenografia per La Sposa di Messina 61
V. Elenco dei progetti artistici a Gibellina 66
VI. Dialogo con Ludovico Corrao 69
Conclusione 83
Bibliografia 88
Il terremoto, cieca forza d’una maligna na-
tura, è un doppio disastro, fisico e umano.
Spazza via in pochi secondi secoli di storia,
cultura, civiltà. Là dove erano focolorai, rifugi
per soste e riposo, coaguli di tenerezze, trame
d’amore, dolore, eventi di vita e morte, accu-
muli di memoria, di colpo si fa il deserto, ter-
reno nudo e vago. E puntualmente spuntano,
su questi luoghi azzerati dalla malasorte, dalle
selve della violenza e del disumano, dall’anti-
storia dell’opportunismo e del cinismo, spun-
tano i lupi e gli sciacalli. Ma è anche il mo-
mento, dopo il terremoto, di non perdersi nel
mare della disperazione e dell’annientamento.
È il momento di ricominciare a costruire la
storia. Ricostruire sulle pietre della consape-
volezza e della ragione, e anche, perché no?
sulle pietre della bellezza. Niente è più entusia-
smante della costruzione di una nuova città.
Vincenzo Consolo1
1
Consolo V., Il drappo rosso con le spighe d’oro, in “Labirinti” anno II n.3, pp.22-
25, 1989.
10
I. Gibellina: storia dalla vecchia alla nuova
I. Gibellina: storia dalla vecchia alla nuova
Su Roccatonda, lo sperone roccioso più prominente nel versante
destro della valle del Belice, sorgeva Gibellina, un piccolo villaggio ru-
rale di origine medievale a 400 metri circa di altitudine.
Il centro era un agglomerato di case basse fittamente disposte su
un pendio molto ripido.
“Chi, venendo da Partanna, alla svolta dello stradale, in contrada
dell’ex feudo della Carcia, fissa verso oriente lo sguardo, scorge un
bel panorama: una larga e più lunga estensione di fabbricati, come
addossati uno sull’altro, che vanno da mezzogiorno sul torrente
Gebbia, verso mezzanotte, ove li sormonta il piacevole colle, Mulino
del Vento. Così, nel 1915, lo storico locale, il sacerdote Baldassarre In-
goglia, descriveva la topografia di Gibellina, che presentava un im-
pianto urbano di tipo policentrico sviluppatosi lungo le linee direttri-
ci dei due assi principali. Di questa struttura i ruderi del castello chia-
ramontano da un lato e la Chiesa Madre dall’altro rappresentavano i
poli di riferimento spaziale e i nuclei di agglomerazione della vita cit-
tadina, fulcri generatori di una planimetria che nella sua lenta e natu-
rale espansione non aveva subito nel tempo sostanziali cambiamenti.
Ogni corpo edilizio si addossava all’altro con le irregolarità impo-
ste dal pendio del terreno, talvolta collegati da grandi arcate che sca-
valcavano il tracciato viario. Gli stessi palazzetti patrizi e i complessi
ecclesiastici non avevano masse monumentali né prospetti aulici, non
essendo isolati o separati dall’intrensicabile e minuto ordito delle abi-
tazioni popolari.
Del paese contadino tradizionale Gibellina conservava l’identità
architettonica, tutta giocata sul rapporto funzionale tra casa e strada,
dimensionata l’una e l’altra sul declivio del suolo e sul passo dell’uo-
mo e dell’animale. La strada non era che il prolungamento della casa,
uno spazio frastagliato da scale esterne e sogli prospicienti, un’appen-
dice pubblica dell’abitazione privata, uno slargo in cui si risiedeva, si
11
I. Gibellina: storia dalla vecchia alla nuova
lavorava, si intesseva la fitta rete delle relazioni, si conservava e si
giocava, più che non si transitasse fugacemente e semplicemente.
Le case, arroccate lungo svolte e pendii, secondo le curve di livello
altimetrico, avevano la muratura in pietrame informe o in conci squa-
drati. Le facciate erano, a volte, imbiancate di calce. Più spesso nella
loro scarna nudità lasciavano in più punti allo scoperto la tessitura
delle pietre di tufo connesse dalla malta di gesso.
La povertà dei materiali lapidei si associava alle tonalità dell’argil-
la, alla terracotta dei laterizi e dei vari elementi di raccolta, drenaggio
e canalizzazione delle acque piovane. Embrici, doccioni e pluviali di
creta disegnavano sulle facciate geometrie sobrie.
[...]
Un’accentuata uniformità caratterizzava la tipologia delle abitazio-
ni, essenzialmente dovuta all’omogeneità dei modi di produzione ma
anche evidentemente condizionata dalla necessità di utilizzare i ma-
teriali naturali di costruzione a disposizione: tufo, canne, gesso.
Unità pluricellulari sovrapposte erano aggregate lungo le strade
secondo moduli nastriformi, con rampe di scale esterne che rendeva-
no indipendente l’ingresso alla stalla del piano terra a quello ai locali
superiori.
A sostenere i soffitti dell’interno era una sapiente orditura di canne
tenute insieme da legacci vegetali e “rinzaffate” di gesso. Il solaio era
generalmente destinato a granaio. Focolare e forno, sempre vicini,
costituivano il fulcro domestico attorno al quale si articolava la vita
quotidiana delle famiglie contadine.
La maggior parte delle strade erano strette e piccole, quasi tutte
asfaltate quelle in pianura, pavimentate con acciottolati o lastre di
pietra quelle costruite in pendio, sulla dorsale della collina.
Gradinate e selciati di ghiaia favorivano il passaggio degli animali
sui percorsi dove i dislivelli erano più accentuati. La via principale era
una, “la strada grande”, via Umberto: un asse più o meno regolare
della lunghezza non superiore ai 150 metri, che tagliava il paese in
due, secondo la direzione nord – sud, separando i quartieri più anti-
chi, che si addensavano a oriente attorno ai ruderi del castello, da
quelli di più recente costruzione, nelle zone di nuova espansione del-
l’abitato.
12
I. Gibellina: storia dalla vecchia alla nuova
[…]
Così si presentava il paese quando le scosse di terremoto, nella
notte del 15 Gennaio 1968, lo rasero definitivamente al suolo. Era un
centro di circa 6.000 abitanti, per lo più braccianti, mezzadri, piccoli
e medi proprietari”2
.
La storia si è divorata Gibellina, uno dei centri più importanti, ma
isolati, della Valle del Belice. Il terremoto del 15 Gennaio del 1968 fu
provocato da un movimento lungo la faglia del Belice.
Almeno quattrocento i morti. Cinque i comuni maggiormente col-
piti: Gibellina, Poggioreale, Salaparuta, Montevago e Santa Margheri-
ta. I primi quattro rasi al suolo.
“La catastrofe nella notte fra domenica e lunedi. Il ministro Tavia-
ni è giunto sul posto, oggi arriva il Presidente della Repubblica, si riu-
nirà al Consiglio dei Ministri. Gibellina, un paese di 6410 abitanti, è
stata quasi cancellata dal terremoto; il novanta per cento delle case è
crollato. È uno spettacolo desolante, incredibile. Vista dall’elicottero
appare colorata di rosa e azzurro. Quando si è più vicini ci si accorge
che queste tonalità sono date dai muri interni che, crollate le facciate,
sono rimasti in piedi: erano stati tutti dipinti con questi due colori.
Nell’unica piazza del paese ancora riconoscibile si è salvata una co-
struzione, la sola che, per essere moderna e in cemento armato, ha
resistito”3
.
La necessità di un riparo è stato il primo problema da risolvere per
circa cinquantamila senzatetto del Belice; nei primi mesi la cifra era
doppia, poiché la totalità degli abitanti, anche con case leggermente
lesionate, abitava all’aperto. Questo aspetto non era però presente a
Gibellina dove le 1980 abitazioni erano tutte distrutte completamen-
te. La prima attività si è diretta a creare dei villaggi di tende, in attesa
2
Cusumano A., Gibellina nella memoria in Pes. A., Bonifacio T., Gibellina dalla A
alla Z, cat. del Museo d’Arte Contemporanea di Gibellina, Edizioni Comune di
Gibellina e Museo Civico d’Arte Contemporanea, Gibellina 2003.
3
Furno L., Tra le macerie a Gibelina, in “La Stampa”, martedì 15 Gennaio 1968.
13
I. Gibellina: storia dalla vecchia alla nuova
della costruzione di più duraturi ricoveri o baracche unifamiliari, do-
tate di servizi necessari a una più prolungata permanenza, in previ-
sione del periodo necessario per la ricostruzione definitiva.
Già la scelta delle baraccopoli e l’appalto delle opere ha implicato
una perdita di tempo e uno spreco di energie e di denaro. A Gibellina
la costruzione degli alloggi precari non terminò prima del 1971 (ben 3
anni dopo la sciagura); il costo per mq. costruito è almeno triplicato,
con l’inserimento di interessi clientelari e mafiosi nel campo dei ter-
reni e degli appalti. I lavori vengono dati prima in appalto e poi in su-
b-appalti successivi, fino a tre, quattro passaggi, delegando la costru-
zione dal grosso appaltatore fino a piccoli gruppi di muratori improv-
visati.
Le aree (prescindendo dagli interessi privati) sono state scelte in
due forme principali: o nei pressi delle rovine o a distanza notevole
dal centro distrutto.
Gibellina fu temporaneamente trasferita in due diversi villaggi:
uno più piccolo, a Santa Maria delle Grazie, a est dei ruderi da cui di-
sta solo un chilometro, mentre l’altro a ovest, Rampinzeri, che dista
ben sette chilometri. Quest’ultima baraccopoli ospitava la quasi tota-
lità degli abitanti: qui c’era anche la sede comunale provvisoria, an-
che se il villaggio ricadeva nei confini comunali di Santa Ninfa.
Nel periodo successivo a quello dei primi soccorsi, ossia nel 1969,
iniziò un piano di trasferimento e ricostruzione (totale o parziale) dei
quattordici comuni maggiormente colpiti. Così la nuova Gibellina
venne ricostruita in contrada Salinella, su di un’area pressoché pia-
neggiante, a un’altitudine di 220-240 metri.
La località si trova presso la stazione di Salemi e al confine dei ter-
ritori di Salemi e di Santa Ninfa, ai quali, per la costruzione del cen-
tro, venne sottratta una parte dell’area comunale. Si determinò così
un exclave contenente il centro principale e la sede comunale, mentre
il rimanente del territorio gibellinese sarebbe stato un’isola ammini-
strativa. La scelta del sito di Gibellina fi in relazione con la vicinanza
dello svincolo autostradale e delle stazioni ferroviarie, a cui si aggiun-
se la presenza di ampi spazi pianeggianti.
Per la nuova Gibellina, in località Salinella, i lavori sono stati av-
viati nel 1971 e solo nel 1976 è stata portata a termine l’urbanizzazio-
14
I. Gibellina: storia dalla vecchia alla nuova
ne primaria. Una delle cause del ritardo (qui come altrove) è stata
l’incertezza sulle soluzioni da adottare: il piano primitivo dall’ISESS
(Istituto per l’Edilizia Sociale, uno dei tanti “Enti Pubblici” operanti
nel territorio) prescindeva dalle esigenze della popolazione e calava
dall’alto un progetto per una conurbazione del Belice in cui si doveva-
no raggruppare circa 30-40 mila abitanti dei vari centri distrutti.
Grazie alle forti manifestazioni di disapprovazione del progetto da
parte dei gibellinesi, Gibellina riuscì a mantenere la propria identità.
La nuova Gibellina, dunque, non è il risultato desiderato e voluto
da tale piano; al contrario, essa nasce dall’incontro appassionato di
un gruppo di uomini, coordinati da Ludovico Corrao (eletto Sindaco
di Gibellina proprio nell’anno seguente al terremoto), i quali intuiro-
no con anticipo che gli antichi modelli crollavano ed era alle porte un
terremoto molto più grande di quello del Belice, con la mobilitazione
e l’intervento diretto della popolazione, per un’elaborazione propria e
democratica di base.
L’appello del 1970: un appello di solidarietà4
“Nella notte del 15 gennaio 1968 un terremoto sconvolse la Valle
del Belice, al confine della provincia di Palermo, Trapani e Agrigento,
distruggendo totalmente sei paesi popolosi e poveri e danneggiando-
ne altri. Le vittime furono 1150 (compresi i morti per mancanza di
pronto intervento), 98000 persone rimasero senza casa, 100000 per-
sone con case cadenti.
Ci vollero parecchi giorni prima che tutte fossero ricoverate sotto
le tende; e parecchi mesi prima che tutte fossero alloggiate in barac-
che. Gli uomini politici, che a gara si precipitarono sul luogo del disa-
stro, sottraendo ore di più urgenti e utili servizi ai pochi elicotteri di-
4
Testo firmato da Sciascia, Guttuso, Zavattini, Caruso, Treccani, Cagli, Domiani,
Zavoli, Corrao ed altri Sindaci della Valle del Belice e pubblicato e divulgato nel
1970 attraverso tutti i media; recapitato anche individualmente a tutte le
personalità di spicco nel mondo della cultura.
15
I. Gibellina: storia dalla vecchia alla nuova
sponibili, promisero tutti l’immediata ricostruzione dei paesi distrutti
e parve allora che, al di là della provata demagogia e inefficienza della
classe al potere, almeno e soltanto sulla promessa di ricostruire gli
abitati, si potesse contare.
E diciamo soltanto perché altre ne furono fatte: di una ricostruzio-
ne economica ella zona, di radicali interventi strutturali ed infrastrut-
turali, nel contesto di una visione e di una volontà che tenesse pre-
sente la situazione siciliana nell’insieme, quale il terremoto l’aveva ri-
velata agli uomini politici e agli inviati speciali dei giornali del nord e
stranieri.
Ma passato il momento emotivo e demagogico, passate le elezioni
politiche che si ebbero qualche mese dopo, ad altro non si pensò che
alla costruzione delle baracche, e con molta improvvisazione disordi-
ne: come ad un atto di definitiva solidarietà, come ad una soluzione
finale del problema. Ed in un certo senso lo era: per il costo finanzia-
rio dell’operazione, che ad un’amministrazione più avveduta e sagace
pare sarebbe bastato per ricostruire davvero i paesi, e per gli effetti
che le baraccopoli avrebbero avuto su quelle popolazioni, non dissi-
mili da quelli di una vera e propria “soluzione finale” in cui a una
condizione di inedia e promiscuità e agli eventi naturali, particolar-
mente inclementi in quella zona e in questi ultimi anni, veniva lascia-
to il compito, più lungo ma ugualmente sicuro, dell'annientamento
psicologico, morale e fisico che i lager nazisti più direttamente e sbri-
gativamente esplicavano.
Di fronte a questo stato di cose che da due anni si protrae e si ag-
grava, sentiamo, come uomini e come siciliani, il dovere di rivolgere
all’opinione pubblica mondiale e, per essa, agli uomini che la rappre-
sentano, l’invito di una riunione a Gibellina nella notte tra il 14 e il 15
Gennaio 1970, nel secondo anniversario del terremoto; perché veda-
no, perché si rendano conto, perché uniscano la loro proposta e de-
nuncia a quella dei cittadini relegati nei lager della Valle del Belice,
alla nostra.
In un paese e con una classe di potere soltanto sensibile alla retori-
ca, abbiamo bisogno di questa solidarietà, forse retorica, anche se vo-
gliamo che alla riunione di Gibellina venga fuori un atto di accusa da
16
I. Gibellina: storia dalla vecchia alla nuova
cui lo Stato Italiano, il Governo, siano chiamati a discolparsi di fronte
al mondo civile e ad uscirne.
Perché ci sono tanti modi di conculcare la libertà, di opprimere, di
destituire l’uomo dal diritto e dalla dignità: e uno di questi modi è
quello che lo Stato e il Governo della Repubblica Italiana attuano nel-
la Valle del Belice”.
Sciascia, Guttuso, Zavattini, Caruso, Treccani, Cagli, Domiani,
Zavoli, Corrao ed altri Sindaci della Valle del Belice
Quindi l’attuale ricostruzione, risultato di un programma comun-
que curato dall’ISES5
, ha comportato il trasferimento totale della po-
polazione nella contrada salinella, in una lieve conca alla confluenza
delle principali infrastrutture viarie, dove si estendevano le terre col-
tivate dai contadini di Gibellina. Dalle Case Di Stefano (l’antica fami-
glia proprietaria dei feudi e attuale sede della Fondazione delle Ore-
stiadi), poste in alto, si ha una vista di insieme della nuova città, di-
stesa a ventaglio con il tracciato dei viali, mostra il senso geografico
della sua recente storia urbana in progress: l’estensione della piazze e
il taglio delle strade; i nomi di siciliani illustri, scolpiti su cippi di tra-
vertino, formano un unico grande libro di storia. Il sistema urbano è
articolato in due grandi blocchi planimetrici disposti, in linee di mas-
sima, in maniera simmetrica rispetto all’asse longitudinale est-ovest
che intervalla zone residenziali a schiera con attrezzature pubbliche.
Le arterie urbane principali e gli spazi di raccordo, cardini della città,
convergono idealmente verso il punto più alto del colle.
Un progetto, quello di urbanizzazione molto lento, travagliato e di-
scusso attraverso i diversi convegni e incontri avvenuti dal Settamta
agli anni Ottanta, nelle tendopoli, tra le baracche provvisorie degli
abitanti. Si organizzarono anche mostre (come quella della città fron-
tale di Consagra), proprio dentro le tende, per permettere a tutti di
5
La ricostruzione inizia con i programmi di trasferimento dell’ISES del 1968,
approvati dieci anni dopo dal comitato tecnico amministrativo del provveditorato
alle opere pubbliche, senza alcun piano editoriale di coordinamento.
17
I. Gibellina: storia dalla vecchia alla nuova
interagire con i progetti, con le idee, con quell’utopia tanto condanna-
ta oggi, ma che ha dato lo spunto e l’entusiasmo per la ricostruzione.
Dirà Corrao, in un suo intervento del 1979 intitolato “L’Arte non è
superflua”, durante un convegno pubblico tenutosi a Gibellina il 15
Gennaio, in cui si discusse sui progetti in attuazione di alcune strut-
ture architettoniche (come quelle di Quaroni, Venezia e altri): “[…] Il
disordinato crescere della nuova città comporta il rischio della perdi-
ta assoluta di identità e potrebbe farla apparire come il quartiere di
periferia di una qualsiasi città. Da ciò la necessità di un ancoraggio
alle proprie radici storiche e culturali. Il primo problema che ci po-
niamo è quello di recuperare quanto è possibile della memoria della
vecchia città distrutta per conservarne non il documento, ma la me-
moria come fonte alla quale ci si possa richiamare perché l’uomo e la
donna di Gibellina sentano che non sono nati improvvisamente in un
deserto, che non vengano dal nulla o da una città calata dal cielo, sen-
za una loro ragione e senza una loro propria collocazione storica e
culturale. […]”.6
Le decisioni prese da Ludovico Corrao negli anni immediatamente
successivi al terremoto risultano caratterizzate da un estremo reali-
smo, da un’asciutta consapevolezza delle iniziative possibili e neces-
sarie per interpretare ed indirizzare il sentire della gente di Gibellina
senza tradirne attese e nuovi bisogni. Il realismo di Corrao si connet-
teva ad una tensione allo stesso tempo etica ed estetica; un luogo dav-
vero anomalo (Gibellina) rispetto alla sostanziale anonimia degli altri
luoghi del Belice, o delle superfetazioni “in puro stile geometra” (se-
condo l’irridente ma terribile definizione di Federico Zeri) di innume-
revoli paesi e città, in Sicilia come nel resto d’Europa. Il problema
cruciale a Gibellina è quello della Città, affrontando simultaneamente
questioni come quelle dell’appartenenza ad un luogo e ad una cultu-
ra, del progetto, del rapporto con il passato e col futuro. Perché la cit-
tà può rendere liberi, in quanto “toglie la nostalgia”. Strana verità, ri-
cordata da Consagra in un’intervista del 1967: “Avendo perduto l’ani-
6
Corrao L., L’arte non è superflua, in “Gibellina, ideologia e utopia” di La Monica
G., ed. La Palma Renzo Mazzone, Palermo 1981, pp. 44-49.
18
I. Gibellina: storia dalla vecchia alla nuova
malità, la vita spontanea, non c’è altro che la città come possibilità di
riprendere contatti con la naturalezza dentro se stessi. Dentro se stes-
si che significa? Che tu ti rifletti con tutti i contatti umani che hai.
Ora, la città dà il massimo di questi rapporti, la città ti toglie la no-
stalgia, assorbe al completo la tua intelligenza, te la sfoga, te la ado-
pera…”.
A tal proposito Giuseppe Frazzetto racconta un importante episo-
dio: “Di cosa avrebbero dovuto avere nostalgia, le due bambine che
vidi una mattina del 1987 al Museo d’Arte Contemporanea di Gibelli-
na? In un giorno qualunque, lontano dall’ufficialità delle inaugurazio-
ni, visitavo una rassegna dedicata a Scialoja: una pittura che quasi
tutti definirebbero difficile per i non esperti, priva di dati referenziali,
mescolata di polvere di marmo o sabbia. Eppure, quella mattina nel
Museo c’erano alcuni ragazzi, della Prima o Seconda Media di Gibelli-
na; e sentii due di loro commentare liberamente i quadri. Una, con la
goffa grazia dell’età, seguiva nell’aria, con la mano, le curve delle pen-
nellate. Certo, quei commenti erano ingenui, e mischiati di lingua e di
dialetto e di termini inventati o distorti: ma pensai, quella mattina, ed
ancora lo penso, che le due bambine manifestavano un senso di ap-
partenenza a quei quadri, una familiarità ed infine una comprensione
che probabilmente anche molti miei studenti, e non pochi artisti
adulti (per non parlare di qualche sedicente critico…) stentano ad
avere. Quel genere di familiarità che può formarsi solo come risultato
d’un permanere accanto a qualcosa con cui s’acquisisce Erfahrung,
consuetudine, allenamento, e perfino identificazione – ed allora dav-
vero sfumano i confini tra oggetto e soggetto, e le cose con cui ci si
misura diventano anche la nostra misura, e della nostra misura”.7
La città viene ricreata seguendo questa “utopia necessaria”, rical-
cando forse le ideologie illuministe, soprattutto nella volontà di ac-
compagnare il cammino di una società con i lumi dell’arte e della cul-
tura del suo tempo.
7
Frazzetto G., Gibellina, La mano e la stella, Ed. Fondazione Orestiadi, Alcamo
(Tp) 2007, pag.5.
19
I. Gibellina: storia dalla vecchia alla nuova
In un certo senso Gibellina non si discosta dalla tradizione, dalla
storia. La Sicilia annovera tantissimi esempi di ricostruzioni radicali
di intere città, come Grammichele, Avola, importantissimi esempi di
“città ideale” settecentesca; la pianta urbanistica idealizzata e visibile
soltanto da un ipotetico punto di vista sovraumano, dall’alto o a volo
d’uccello. Per non parlare di tutta la Val di Noto, completamente di-
strutta con il terremoto del 1693 e ricostruita secondo l’ideologia
estetica di allora, rifacendola completamente nei palazzi, nelle chiese
e nella concezione urbanistica funzionale ai bisogni dell’epoca; ma
questo non ha sicuramente evitato di regalarci oggi uno dei luoghi più
inusuali del barocco europeo. I “giardini di pietra”, usando la defini-
zione di Cesare Brandi.
Si instaura così questa “fabbrica civica”8
che vedrà coinvolti non
soltanto gli artisti e gli intellettuali che risposero all’appello del ‘70,
ma anche le maestranze artigianali locali e gli stessi cittadini: “[…]
Pagine di luce e frammenti di bellezza creati dagli artisti con i giova-
ni, gli studenti, gli abitanti della città, dando vita a veri e propri labo-
ratori a partecipazione collettiva […]”.9
“A Gibellina come sono stato attratto io così diversi artisti sono
stati attratti per partecipare e rispondere a quella voglia di oltrepas-
sare le soluzioni pratiche: l’estraniante oggetto utile delle necessità
impellenti.” Pietro Consagra10
La pianta urbana fu chiaramente il primo intervento, ragionato in-
sieme agli ingegneri dell’ISES, curato principalmente da Marcello
Fabbri. Richiama una figura a forma di farfalla, dove al centro trovia-
mo i luoghi e i servizi pubblici e da cui si snodano le residenze dei cit-
tadini. La Monica, nel suo testo “Gibellina, Ideologia e Utopia”, ricon-
duce l’idealizzazione della pianta ai concetti espressi nel libro di Ebe-
8
Cit. Bonito Oliva.
9
Pes A. - Bonifacio T., Gibellina dalla A alla Z, cat. del Museo d’Arte
Contemporanea di Gibellina, Edizioni Comune di Gibellina e Museo Civico d’Arte
Contemporanea, Gibellina 2003, pag. 20.
10
Consagra P. in Gibellina, Ideologia e utopia, La Monica G., pag. 53.
20
I. Gibellina: storia dalla vecchia alla nuova
nezer Howard, “L’idea della città giardino”11
, come deduzione di mo-
delli anglosassoni scandinavi, presentando (e non senza qualche pun-
ta di dissenso, soprattutto quando cita, come preambolo al discorso,
una frase di Le Corbusier: “…l’architetto è un inventore, non un de-
duttore…”) evidenti ed eclatanti esempi molto simili alla conforma-
zione gibellinese.
La pianta della città fu poi caratterizzata dagli innumerevoli inter-
venti degli artisti, sia attraverso opere architettoniche sia attraverso
sculture che crearono un preciso assetto spaziale: “[…] le sculture di
Gibellina ovviamente non sono decorative; ma soprattutto, non sono
preposte come forme da contemplare, piuttosto appaiono tappe d’una
meditazione che allo stesso tempo vuole essere produzione dello spa-
zio civico. Le sculture tentano (e certo non sempre riescono) di farsi
spazio, di avere un luogo, a partire da un luogo e da uno spazio non
ancora precisati, e la cui storicizzazione è in corso d’opera […]”12
.
In effetti Frazzetto vede bene, attraversando Gibellina si attraversa
uno spazio creato da evidenti fulcri che sono proprio le installazioni
urbane, le sculture-spazio. Molti artisti interpretarono veramente il
gioco della scultura come vettore di ulteriori movimenti “da e per” il
luogo in cui intervenivano: l’installazione scultorea doveva creare dei
contesti e degli spazi, anche futuri, che acquistassero dinamicità ed
energia dalle opere stesse. La struttura scultorea diviene anche il
punto di riferimento: mentre nella vecchia Gibellina le poche grandi
strutture, insieme alle fontane e alle piazze diventavano il mezzo di
orientamento non solo geografico ma anche civile e storico, nella
nuova Gibellina sono gli interventi degli artisti a creare un flusso sto-
rico, uno spazio in divenire, un riferimento che non incornicia nulla
se non le azioni degli abitanti e il loro naturale divenire.
Così come in un certo senso afferma Marcella Aprile riferendosi
alle case di Gibellina: “Qui, nel nuovo paese, la casa esaurisce in sé
tutte le componenti urbane, sia pubbliche che private; è l’unico ogget-
11
G. La Monica, Gibellina, Ideologia e utopia, pag. 10.
12
Frazzetto G., Gibellina, La mano e la stella, pag. 18.
21
I. Gibellina: storia dalla vecchia alla nuova
to capace di polarizzare l’attenzione degli abitanti. È la casa a stabilire
le regole del gioco.”13
L’attuale aspetto di Gibellina è chiaramente l’evoluzione di un lun-
go percorso di interventi e progetti che, come abbiamo detto prima,
provengono da numerosi convegni e tavole rotonde.
La prima urbanizzazione, quella che va dal 1971 al 1975 circa, vede
sorgere già le prime architetture che caratterizzeranno lo skyline del-
la nuova Gibellina come la Chiesa Madre di Ludovico Quaroni. La
struttura viene costruita nella parte più alta della città, e funge da ele-
mento culminante, da punto di riferimento spirituale degli abitanti.
Un aspetto tradizionale della cultura siciliana viene esposto nell’uso
delle forme, la sfera e il cubo, che (oltre ad essere intrise di evidenti
significati metaforici come la materialità e l’aere, la razionalità e la
fede) riportano alla memoria l’architettura arabo normanna, tanto
diffusa nella Sicilia Occidentale e che diventano il simbolo di unione e
scambio culturale tra diverse etnie (così come i presupposti di Gibel-
lina, che vuole diventare una fornace Europea della cultura). Oltre la
Chiesa viene costruito l’altro fulcro sociale, il Municipio, la sede dello
stato. Gli architetti, Alberto Samonà, Giuseppe Samonà e Vittorio
Gregotti, formulano una struttura che risente di un originale linguag-
gio architettonico riconducibile all’architettura brutalista, nella ver-
sione tutta italiana di quegli anni: un calibrato gioco di pieni e di vuo-
ti, di luci e di ombre rimanda ad un’architettura che, pur nel suo ruo-
lo di edificio emergente, dichiaratamente si oppone al
monumentalismo che l’occasione progettuale avrebbe potuto richie-
dere.
Nel 1976 iniziano i lavori del Meeting e del Cimitero Comunale di
Pietro Consagra, dove l’anno dopo verranno installate le porte e nel
1979 collocata la scultura di Mirko.
13
Oddo M., Gibellina la nuova, Attraverso la città di transizione, coll. Universale
di architettura, a cura di Lorenzo Spagnoli, ed. Testo e Immagine, Chieri (TO)
2003, pag. 29.
22
I. Gibellina: storia dalla vecchia alla nuova
Nel 1978 Nanda Vigo, con la sua Tracce Antropomorfe, realizzerà
un interessante luogo in cui si mescola il presente con la memoria:
un’architettura a se stante, che crea uno spazio contemplativo ma
nello stesso tempo dinamico, che raccoglie in sé l’azione contempora-
nea ma anche la materia del ricordo, della storia. Nanda Vigo inseri-
sce nel corpo della struttura elementi architettonici presi nella vec-
chia Gibellina e ricontestualizzati in una nuova funzionalità comme-
morativa. L’anno dopo, nel 1979, oltre ad altre numerose installazioni
scultoree come quelle di Cappello, Messina e altre soluzioni originali
come quella di Emilio Isgrò, Gibellina vede nascere il Museo Civico
d’Arte Contemporanea, che raccoglie numerose opere d’arte contem-
poranea di importanti nomi della cultura italiana e internazionale e la
Chiesa di Gesù e Maria di Nanda Vigo, essenziale ma nello stesso
tempo costellata da simboli che rispecchiano un lato molto arcaico e
tradizionale della religione, come triangoli e quadrati che formano
stilizzate icone bibliche come l’Albero della vita.
Il 1980 vede a Gibellina la presenza di altre grandi figure intellet-
tuali come Alberto Burri, che realizzerà una delle opere più emblema-
tiche dell’arte contemporanea degli ultimi decenni, e Franco Purini
con Laura Thermes che con la Casa del Farmacista apriranno la stra-
da ad un progetto architettonico molto sperimentale e aperto all’a-
vanguardia contemporanea: “L’Architettura è eminentemente costru-
zione. È costruzione dell’idea, costruzione del progetto, costruzione
dell’edificio, costruzione della città”14
. Un’architettura che condensa
combinazioni generative che si presentano contemporaneamente sia
come principi teorici che riguardano l’oggetto architettonico e l’ambi-
to insediativo sia come dispositivo formale, capace di essere declinato
a varie scale.
Nel 1981 sorge a Gibellina la scultura che poi diverrà il simbolo
della città, ovvero la Stella di Consagra, l’Ingresso al Belice. Ed è pro-
prio la stella di Consagra che Frazzetto prende come punto di riferi-
mento per iniziare il suo libro, “Gibellina, la mano e la stella”, argo-
mentando un riferimento romantico alla Stella Polare di Goethe, che
14
Purini F., Le opere, gli scritti, la critica, Electa, Milano 2000, pag.101.
23
I. Gibellina: storia dalla vecchia alla nuova
in un suo appunto datato 21 Aprile 1787, racconta di esserne stato il-
luminato durante una sosta proprio qui, nel trapanese15
. Consagra
concepisce la stella come insegna luminosa della città e della valle in-
tera, e ispirandosi proprio alle luminarie tradizionali montate per le
stradine dei paesi durante le feste e le ricorrenze.
Nello stesso anno, avviene anche il recupero delle Case Di Stefano
che, da un esemplare progetto di Marcella Aprile, Roberto Collovà e
Fulvio La Rocca, da uno stato di rudere vengono trasformate in uno
spazio espositivo, inserendo una serie di soluzioni strutturali là dove
la fabbrica era completamente distrutta. Del 1981 è il progetto per il
centro di Gibellina di Oswald Mathias Ungers. Un altro importante
edificio è Palazzo Di Lorenzo di Francesco Venezia che, come Nanda
Vigo, recupera delle architetture della vecchia Gibellina per fonderle
in una nuova concezione spaziale. Il palazzo diventa, attraverso un
geniale incastro di piani e spazi, un percorso cronologico che va dalla
memoria, dal passato, il cortile con la vecchia facciata recuperata dal-
la vecchia Gibellina, al presente, verso aperture sulla valle e il paesag-
gio contemporaneo che muta e si evolve in continuazione, trasfor-
mandosi e apparendo sempre nella sua attualità allo spettatore che
arriva a conclusione di questo percorso. Al suo interno, le sculture di
diversi autori, collocate strategicamente in un rapporto funzionale
con l’architettura, caricano ulteriormente il percorso di simboli e sug-
gestioni che fanno parte della tradizione e del mito.
Nel 1982 inizia il progetto Il Sistema delle Piazze di Purini e Ther-
mes che verrà completato nel 1990, ma mai utilizzato, e nel 1984 il
teatro di Consagra, che vedrà una costruzione a più riprese e ad uno
stato attuale, a 28 anni di distanza, ancora incompiuto (ma si spera,
ormai in via di ultimazione).
Nel 1987 sorge la Torre Civica di Mendini, altro simbolo ormai
della città che ne scandisce il tempo e lo spazio oltre a creare un altro
punto di riferimento per l’orientamento nel nuovo tessuto urbano.
15
Frazzetto G., Gibellina, La mano e la stella, Ed. Fondazione Orestiadi, Alcamo
(Tp) 2007, pag. 7.
24
I. Gibellina: storia dalla vecchia alla nuova
Si arriva quindi al 1990 con una delle ultime importanti strutture
architettoniche di Purini e Thermes, ovvero Casa Pirello, che chiudo-
no un primo intervento architettonico importante e massiccio nella
città.
Oltre a questo breve elenco che riporta gli esempi architettonici
più eclatanti, dobbiamo aggiungere le innumerevoli installazioni
scultoreo-spaziali che hanno contribuito, insieme all’architettura, a
determinare lo spazio di Gibellina e la sua coordinazione tra funzio-
nalità e fruizione sociale.
I gibellinesi usano le sculture, se ne sono appropriati con quella fa-
miliarità ingenua ma profonda che prima citavamo dal libro di Fraz-
zetto. Come dice Purini: “L’interesse dell’esperimento di Gibellina,
tenacemente voluto dal sindaco Ludovico Corrao, sta non tanto nella
percentuale “statistica” di opere per abitante, superiore di gran lunga
a quella di qualsiasi altra nuova città o parte di città e già di per sè se-
gno di grande civiltà urbana, né nell’aver messo l’una accanto all’al-
tra, e qualche volta l’una contro l’altra, differenti vicende della ricerca
plastica contemporanea in Italia, come in un grande museo “en plen
air”, ma di aver riproposto a scala di un intero insediamento il pro-
blema del possibile “ruolo” dell’opera d’arte nella configurazione del-
lo spaio urbano, riprendendo, evidentemente con alcune visibili ma
ineliminabili incertezze, un filo spezzato dalle avanguardie”16
.
16
La Monica G., Gibellina, Ideologia e utopia, pag. 96.
25
“È uno scenario piuttosto straordinario
questo abbozzo di città abbandonata ai bordi
di un villaggio e al margine dei secoli. Ho per-
corso una metà dell’emiciclo, salito la gradi-
nata del padiglione centrale, e per un pezzo
sono rimasta a contemplare questi edifici co-
struiti per fini utilitari e che non sono mai ser-
viti a niente.sono solidi, esistono, eppure il fat-
to di essere abbandonati li trasforma in un si-
mulacro fantastico; di che cosa, non si sa.”
Simone De Beauvoir17
17
De Beauvoir S., Una donna spezzata, ed. Einaudi, Torino 1999.
26
II. Le realtà di oggi e la Fondazione Orestiadi
II. Le realtà di oggi e la Fondazione Orestiadi
“L’iniziativa di Ludovico Corrao non ha riscosso solo consensi, ma
anche una serie di critiche rivolte soprattutto a due aspetti dell’opera-
zione: una presunta estraneità delle opere d’arte e delle architetture
alla cultura degli abitanti della città (secondo questa critica oggetti
passivi di una volontà pedagogica e contraddittoriamente estetizzante
calata dall’alto) e una mancata integrazione tra spazi urbani, edifici e
opere d’arte. Sono critiche sulle quali occorre senza dubbio soffer-
marsi, perché toccano in effetti questioni reali.” Franco Purini18
Gibellina si presenta al visitatore come una realtà sospesa: è una
sensazione comune che si prova non appena si entra nel tessuto urba-
no; anche se si è preparati e si conosce bene la sua storia, si rimane
ugualmente “intimoriti” e nello stesso tempo eccitati dal complesso di
sculture e strutture “inusuali” che si incontrano ad ogni traversa, ad
ogni piazza.
Nonostante si avverta un sentimento laboratoriale, del fare, che
traspare dalle installazioni artistiche, esiste un sentimento di inquie-
tudine dato non tanto dall’impatto delle opere sulla persona o sul luo-
go, più o meno desolato, ma soprattutto sulla consapevolezza di un
mancato divenire.
Le opere studiate soprattutto per realizzare eventuali percorsi,
probabili vettori non solo di spazi e soluzioni “vivibili” ma di tutta
una società in via di sviluppo, generano quest’energia propulsiva che
si sente, ma che ci spinge verso una dinamica sociale e urbana che
non riscontriamo.
Purtroppo non esiste una risposta diretta alla propulsione spaziale
che queste opere si auguravano. Sembra quasi che le opere siano
troppe, sprecate, in confronto alla reale necessità degli spazi e della
18
Oddo M., Gibellina la nuova, Attraverso la città di transizione, pag. 6.
27
II. Le realtà di oggi e la Fondazione Orestiadi
società stessa; sembra quasi che le sculture siano come grandi attori
di un importante cast, ma che il film non sia mai stato girato.
C’è da chiedersi perché, nonostante la città annoveri importanti in-
terventi artistici, che vanno dall’architettura alla scultura, ci si senta
all’interno di uno spazio povero, inquietante, desolato. Le risposte
possono essere tante e si rischia di soggettivare troppo l’analisi, o ad-
dirittura si rischia di cadere in una visione troppo breve in confronto
a un argomento che deve essere visto in un arco di tempo molto lun-
go, in quanto parliamo di una città in via di sviluppo e non di una
scultura, per esempio, circoscrivibile e analizzabile nell’immediato.
Di sicuro è importante riscontrare e dedurre le cause di questo
sentimento comune, non solo nella gente comune ma anche tra gli
addetti ai lavori.
Le cause sono tante ma principalmente possiamo esporre i proble-
mi riguardanti dati fondamentali di una città (come di un’opera d’ar-
te): gli spazi e i tempi di fruizione.
Si possono immaginare per esempio i ritmi di vita, di lavoro o di
opportunità sociale, che potevamo trovare nella vecchia Gibellina, e
che per forza di cose, in quanto gli abitanti sono rimasti gli stessi, ri-
troviamo qui: la differenza di queste dinamiche è che qui si deconte-
stualizzano; mentre il paesino della vecchia Gibellina, arroccato sulla
collina di Roccatonda, poteva “giustificare” i tempi di una società
prettamente agricola ed esclusa dai ritmi spazio-temporali delle città
e della società moderna a loro contemporanea, cui questi ritmi sono
come paralleli, sospesi nei confronti di un linguaggio imperante,
quello delle opere d’arte contemporanea, un linguaggio che si espone
nel nuovo tessuto urbano.
Una pianta urbanistica rispecchia la storia, lo sviluppo della socie-
tà, delle politiche e di tutto quello che riguarda la memoria di una co-
munità all’interno di uno spazio e un tempo che la modifica ma che si
relaziona lentamente e in modo contestuale ad essa. La città diventa
quindi la parte integrante di una vita, di un modo di rapportarsi e di
vedere le cose.
Questo naturale scorrere del tempo e dello spazio è stato raso al
suolo dal terremoto, e qualsiasi tentativo di ripeterlo non esiste più.
28
II. Le realtà di oggi e la Fondazione Orestiadi
Se Gibellina fosse stata ricostruita mantenendo gli stessi spazi per
accogliere le stesse esigenze dinamiche della popolazione, oggi il pro-
blema potrebbe essere indubbiamente differente. Potremmo avere
una comunissima città come se ne vedono a migliaia in tutta Italia, o
avremmo una città simile a Ragusa Ibla; infatti nel capoluogo ragusa-
no il terremoto distrusse interamente la città medievale di Ibla, ma la
differenza consistette nel fatto che, contrariamente a Gibellina, si
mantenne lo stesso tessuto urbano ricostruendo sulle rovine dei pa-
lazzi medievali le architetture nuove del barocco. Un po’ come se, a
Gibellina, Purini e altri architetti avessero progettato i nuovi palazzi
sulle fondamenta delle vecchie abitazioni, mantenendo gli stessi spazi
vitali, ma mostrando un aspetto della storia contemporaneo a quello
del terremoto.
La cosa che provoca desolazione forse è proprio questa netta de-
contestualizzazione tra esigenza e spazio, tra società e monumento
internazionale.
Mentre la Chiesa di Quaroni potrebbe rientrare attraverso le sue
forme, la sfera e il cubo, in una tradizione figurativa siciliana, come la
chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio a Palermo, la Torre Civica di
Mendini è assolutamente altro: un enorme obelisco di cemento che
rispecchia le forme, gli spazi e le inquietudini o le certezze di una so-
cietà comunque lontana da quella dove sorge.
Gli artisti e gli architetti che sono intervenuti a Gibellina sono pun-
tuali testimoni del tempo contemporaneo che si esprimono attraverso
un altrettanto puntuale linguaggio artistico. Ma gli artisti provengono
da altre realtà, da altri punti di vista che manifestano problematiche
internazionali, e non strettamente connesse al luogo.
La presenza dell’arte contemporanea a Gibellina è uno squarcio
improvviso nella realtà intellettuale internazionale, con i suoi pro e i
suoi contro: da un punto di vista culturale la città è un incredibile la-
boratorio di sperimentazione e colloquio tra le diverse esperienze cul-
turali internazionali, dall’atro è un mondo parallelo alla società che lo
abita; da un lato abbiamo le considerazioni e i dibattiti sull’importan-
za o meno dell’utopia, dell’eccesso o del superfluo artistico, dall’atro
la necessità di “ritrovarsi” da parte della popolazione; se esistono pro-
getti e argomentazioni su come “pianificare” la nuova realtà urbani-
29
II. Le realtà di oggi e la Fondazione Orestiadi
stica e di conseguenza della società, dall’altra esiste la possibilità di
crescere spontaneamente lungo percorsi fatti di avvenimenti che al-
l’occorrenza del caso e degli avvenimenti si alternano nella storia.
Perché c’è da dire che Gibellina oggi è il frutto di decisioni, di pianifi-
cazioni a tavolino. La storia è quella decisa, non avvenuta per caso.
Quando si parla di monumento, si intende nella sua specificità
qualcosa che con la sua presenza espone la memoria di una realtà
storica o di una data “scelta”. Qui è tutto monumento, l’intera città è
una scelta a priori ed espone di conseguenza una storia decisa, impo-
sta in ogni punto.
Col terremoto l’abitante di Gibellina ha perso nelle case una me-
moria spaziale, oggettiva, perché ogni struttura crollata, anche se fos-
se stata ricostruita dov’era, mantenendo lo stesso identico aspetto,
avrebbe espresso comunque un senso di apparenza, di falso, perden-
do quella patina di storia e di ricordi che ogni abitante ne ha intriso le
mura; le costruzioni non sarebbero mai state i testimoni della storia,
ma delle quinte, dei fantasmi di esse stesse.
Il problema quindi non sarebbe stato rifare le case uguali o ripro-
porre Gibellina vecchia, per attuare una condizione morale, etica e
culturale più giusta; la soluzione esatta, forse, si sarebbe potuta tro-
vare applicando una concezione di ripristino degli spazi vitali della
vecchia Gibellina, almeno per il centro della nuova città. Le nuove ge-
nerazioni non avrebbero avuto difficoltà ad ambientarsi o a vivere i
nuovi quartieri che si sarebbero sviluppati in periferia. Oggi Gibellina
appare come la grande periferia di una qualsiasi città italiana, perché
essendo state realizzate nello stesso periodo, hanno un concetto di
sviluppo identico. Strade ampie e scorrevoli, distribuzione dei centri
amministrativi e pubblici in spazi funzionali con le case abitative pri-
vate...
Una periferia è tollerabile nel momento in cui la si vede in un con-
testo più ampio, come escrescenza attuale di una storia, di un vissuto
cittadino ormai ben configurato nella comunità che lo abita.
La strutturazione urbanistica contemporanea può apparire più o
meno bella, più o meno funzionale, ma comunque rispecchia le esi-
genze della società contemporanea. La periferia e le sue costruzioni
comportano anche le inquietudini, i malesseri e le necessità spesso
30
II. Le realtà di oggi e la Fondazione Orestiadi
troppo povere della società contemporanea. Sicuramente non sta a
noi giudicare, noi che viviamo nel presente e siamo attaccati al passa-
to, alle nostre basi culturali e architettoniche, che comunque, a loro
volta, apparivano ai nostri genitori altrettanto nuove come ci appaio-
no le nostre periferie, dove siamo nati e cresciuti.
Quindi Gibellina è necessariamente la traccia puntuale della nostra
concezione contemporanea, il testimone di una cultura sempre più
massificante, che non conosce luogo o storia locale, ma soltanto pro-
blematiche relative ad una storia culturale universale, ideale, funzio-
nale a priori, calata dal cielo all’improvviso, senza guardare le specifi-
che esigenze.
Gli abitanti di Gibellina non hanno accolto tutto questo, ma ne
sono stati travolti, come una diga che cede e inonda intere valli; molti
sono stati fiduciosi di non annegare ma di poter aggrapparsi a nuove
prospettive. Altri hanno preferito abbandonare il paesaggio sommer-
so da una nuova realtà, da un nuovo coinvolgimento non più locale,
ma extraterritoriale, che andava ben oltre i limiti geografici delle col-
line.
Rimane quindi questo importante patrimonio culturale che deve
essere vissuto, che sicuramente col tempo sarà fruito in maniera più
intensiva, ma con i suoi tempi, quelli che richiedono la formazione di
una città.
Le architetture, le installazioni e tutto quel corredo intellettuale
che in questi quarant’anni ha stabilito le vie di sviluppo della nuova
città, sono il giusto perno per prospettive ben auguranti. Analizzare la
situazione da un punto di vista del presente significa soltanto asse-
condare paradossalmente la vera Utopia, che è quella di andare a ri-
proporre la vecchia Gibellina, che non esiste più, decontestualizzata
dal presente e dalle dinamiche culturali contemporanee.
Se riusciamo ad accettare la realtà urbanistica di Gibellina, possia-
mo allora poter vedere meglio perché persiste questo senso di inquie-
tudine.
Gibellina è un paese che ospita poche migliaia di abitanti, appena
cinquemila, ed è facile passeggiare quindi anche per strade deserte;
ma quello che ci aspettiamo è anche il turismo che una situazione ar-
tistica come questa meriterebbe. Il turismo (e andrebbe bene anche
31
II. Le realtà di oggi e la Fondazione Orestiadi
quello di massa) movimenterebbe il paesaggio urbanistico e nello
stesso tempo aiuterebbe in qualche modo a sviluppare l’economia lo-
cale. Gibellina merita un riconoscimento turistico, culturale, ma
manca completamente da parte degli abitanti la propensione ad un
tipo di investimento in questo settore: un atteggiamento che frene-
rebbe la migrazione verso altre città per favorire l’economia e l’urba-
nizzazione locale.
Le ragioni dell’assenza di una rete turistica sono dovute alla man-
canza di alberghi, di zone ricettive per numerose comitive, ma soprat-
tutto alla difficoltà di rientrare negli itinerari costituiti da centri mol-
to vicini come Selinunte, Segesta, Palermo, Monreale, Trapani, Mar-
sala, Mazara del Vallo, San Vito Lo Capo e altri ancora.
Il turismo di Gibellina è cosiddetto di “nicchia”: di addetti ai lavori,
di studenti, di ricercatori, di appassionati d’arte contemporanea o di
gente che comunque è venuta a conoscenza del fenomeno e che per
vero interesse o semplice curiosità si viene a sedere sotto la Torre Ci-
vica di Mendini.
Gibellina offre per conto suo molte soluzioni culturali: decine e de-
cine di interventi artistici site specific, strutture di importanti archi-
tetti contemporanei e un Museo Civico d’Arte Moderna e Contempo-
ranea. Un’offerta molto ricca, ma oggettiva, perché Gibellina è “fatta
ad arte”, e comunque particolarmente statica.
Il Museo Civico, ad esempio, vede la sua raccolta allestita all’inter-
no di una struttura che avrebbe dovuto accogliere una scuola media,
a un piano con spazi funzionali alla vita scolastica ma sicuramente
non a un allestimento museale. Questo problema strutturale influisce
molto dal punto di vista scientifico e fruitivo. Il Museo assomiglia
molto di più a una raccolta alla rinfusa di opere d’arte, decontestua-
lizzate da un percorso critico di qualsiasi genere; una sorta di riposti-
glio di opere d’arte. Nonostante tutto, non si può rimanere impassibi-
li davanti all’importanza delle opere che comunque affiorano dal di-
sordine espositivo: opere di Mimmo Rotella, Boetti, Vedova, Guttuso
e una grande aula (la palestra) dedicata alle grandi tele realizzate da
Mario Schifano a Gibellina.
Un altro deficit del museo consiste nel fatto che difficilmente si al-
lestiscono mostre temporanee, che movimenterebbero l’offerta scien-
32
II. Le realtà di oggi e la Fondazione Orestiadi
tifica e di ricerca culturale. Il problema è derivato anche da involonta-
ri ostracismi tra la struttura museale e le istituzioni pubbliche più in-
teressate a investimenti di breve termine.
Il Museo Civico di Gibellina ha nella sua collezione d’arte contem-
poranea delle enormi potenzialità culturali ed economiche: difficil-
mente si riesce a visitare un luogo con una così alta concentrazione di
opere d’arte contemporanea di questa caratura. La politica del Museo
dovrebbe basare tutte le forze sulla curatela dell’allestimento (visto
che un’altra struttura significa parlare solo di “utopie”), sulla qualità
del servizio informativo e su un programma di mostre e collaborazio-
ni con artisti contemporanei come i workshop a tema (come a ricrea-
re una situazione concettuale molto simile ai presupposti collaborati-
vi tra gli artisti e Gibellina nuova).
L’istituzione che invece riesce in qualche modo a trainare il pano-
rama culturale di Gibellina è la Fondazione Orestiadi.
L’“Istituto di Alta Cultura Fondazione Orestiadi Onlus” fu costitui-
to nel 1992 con la donazione Corrao, nel tempo arricchita da ulteriori
donazioni e acquisizioni e ha proseguito in un certo senso l’esperien-
za culturale iniziata nel 1968 proprio dal Senatore Corrao, con gli ar-
tisti chiamati a Gibellina dopo il terremoto.
Nella sede della Fondazione Orestiadi, il Baglio Di Stefano (ex
struttura baronale e ristrutturato dopo il sisma del 1968 su progetto
di Marcella D’Aprile, Roberto Collovà e Teresa La Rocca), sono rap-
presentati anche la Regione Siciliana, la Provincia Regionale di Tra-
pani e il Comune di Gibellina.
Dal 26 Giugno 2000, la Fondazione ha nel palazzo Dar Bach Ham-
ba, nel cuore della medina di Tunisi, un ulteriore spazio in cui svolge-
re le proprie attività. Dar Bach Hamba ospita un’esposizione perma-
nente improntata alle linee guida del Museo delle Trame Mediterra-
nee di Gibellina e frequenti iniziative, nell’ottica di un confronto fra
artisti di diverse culture.
Il Baglio Di Stefano ospita nella casa baronale il “Museo delle Tra-
me Mediterranee”, istituito nel 1996 e che raccoglie nelle sue sale co-
stumi, gioielli, tessuti d’arte, ceramiche e oggetti d’arte di popoli e
culture dell’area mediterranea: Sicilia, Egitto, Tunisia, Palestina, Ma-
33
II. Le realtà di oggi e la Fondazione Orestiadi
rocco, Spagna, Algeria, Albania e tutte le la nazioni comprese nel ba-
cino.
Il direttore del museo, Enzo Fiammetta, descrive così l’esposizione
del museo: “Il museo/officina è l’approdo di anni di ricerche, incon-
tri, dibattiti, studi e seminari promossi dalla Fondazione Orestiadi,
ma è tuttora un’idea guida, un’idea limite, la cui forza risiede nel suo
carattere transnazionale e interdisciplinare”.
Il “segno” e la “forma” caratterizzano due delle sezioni del percorso
espositivo. Nella prima è possibile leggere attraverso l’accostamento
degli oggetti di diversa provenienza e di differenti periodi, l’evoluzio-
ne dei principali motivi decorativi che hanno caratterizzato lo svilup-
po dell’arte e dell’artigianato mediterraneo. I motivi dell’arabesco,
della scrittura e della pseudo scrittura, delle geometrie intrecciate,
rielaborati e diffusi in Occidente dagli arabi, sono utilizzati come ele-
menti per una lettura comparata.
Nel confronto tra oggetti di differente provenienza, periodo ed uso,
si sono cercati i tratti comuni e i percorsi storico artistici paralleli,
con la possibilità di leggerne la permanenza dei motivi decorativi nel
tempo e le varianti.
La sezione delle “forme” conserva ceramiche arabe, siciliane e spa-
gnole del XIX secolo, che confrontate con brocche, idrie, vasi preisto-
rici e medievali dichiarano la comune origine e permanenza di mo-
dello.
“La Sicilia è sempre stata luogo di incontro di popoli, di sperimen-
tazione di linguaggi. Questa peculiarità ha sempre caratterizzato la
sua storia economica e artistica. Sembra a noi che oggi, l’attuale si-
tuazione, caratterizzata da profonde migrazioni, possa presentare ca-
ratteri simili; la Sicilia e l’Italia possono tornare a essere luogo di in-
contro, di passaggio di popoli, di sedimentazione e rielaborazione di
elementi” Enzo Fiammetta19
L’attività culturale della fondazione “Orestiadi” di Gibellina non si
risolve soltanto nell’esposizione di mostre d’arte figurativa e arte ap-
19
Parole tratte dall’intervista ad Enzo Fiammetta durante la mia visita alla
fondazione delle Orestiadi nel mese di Settembre 2009.
34
II. Le realtà di oggi e la Fondazione Orestiadi
plicata del mediterraneo, ma anche nell’organizzazione di eventi tea-
trali o musicali.
Ogni anno vengono invitati dalla fondazione importanti registi e
compagnie di spettacolo per esibirsi a Gibellina. Come scenario viene
spesso usato il Teatro del Grande Cretto, ovvero lo spazio attiguo al-
l’opera di Alberto Burri o, spesso e volentieri, anche le placche di ce-
mento usate come veri e propri palcoscenici.
Il concetto è quello di creare un collegamento forte tra la tragedia
umana, reale, e quella della finzione, dell’idea, del dramma. In occa-
sione degli spettacoli teatrali e musicali vengono allestite di volta in
volta scenografie nate dalla collaborazione di altrettanti artisti con-
temporanei con i registi e gli sceneggiatori.
Si vengono a creare in questo modo opere inusuali, emblematiche,
che nella maggior parte dei casi rimangono come opere in se, a pre-
scindere dalla loro funzionalità scenica. Così ad esempio rimane la
montagna di sale di Mimmo Paladino (adesso installata nel Baglio Di
Stefano e sostituendo il sale ad una colata di cemento bianco), le
macchine teatrali di Pomodoro (autore di diverse scenografie a Gibel-
lina), e tutto quel comparto artistico come manifesti, schizzi e proget-
ti che accompagnano le opere teatrali o musicali per diventare poi og-
getto di esposizione nel museo della fondazione.
Lo sconfinamento e lo scambio, la conferma di un’ attitudine so-
cratica che trova il proprio valore nel dialogo, lo si ha negli Atelier del
Baglio Di Stefano.
Atelier risponde a un progetto di sensibilizzazione territoriale sul-
l’intera geografia mediterranea, con la possibilità di soggiorno creati-
vo per artisti di diversi paesi a Gibellina, Tunisi o in altri luoghi gesti-
ti dalle Orestiadi.
Attraverso gli atelier, l’artista ha la possibilità di soggiornare a Gi-
bellina e lavorare a stretto contatto con la terra e i luoghi con cui do-
vrà dialogare; perché il concetto che si vuole focalizzare è quello del
dialogo tra artista e società locale, tra le problematiche contempora-
nee, che vanno dall’estetica alla politica, dalla semiotica alla religione,
al confronto con i giovani e le generazioni future di Gibellina. La fon-
dazione ospita esplicitamente un’officina non solo culturale e artisti-
ca, ma anche sociale. Il processo creativo dell’artista subisce e in-
35
II. Le realtà di oggi e la Fondazione Orestiadi
fluenza il luogo in cui si viene a determinare, contamina e viene con-
taminato dal genius loci: un’ampia dialettica tra l’antropologia esi-
stenziale dell’artista e quella riguardante la geografia del posto.
Per una maggiore apertura e un autentico pluralismo culturale non
esistono fasce generazionali protette e nemmeno poetiche di artisti
privilegiati. Ancora una volta le Orestiadi promuovono un’attività che
gioca sul doppio versante della presenza operativa dell’artista e la
permanenza finale di opere che testimoniano il suo passaggio.
Emerge chiaramente un ulteriore valore, quello di un multicultura-
lismo che ha sempre sostenuto la strategia diffusiva della Fondazione
Orestiadi: un ventaglio di stili, tecniche e materiali, portatori tutti di
una creatività tesa a cogliere anche lo spirito del nostro tempo.
Prevale alla fine un nomadismo culturale che da fertilità alla pre-
senza di opere per nulla statiche, capaci invece di bucare il territorio,
aprirlo a sorprendenti corto-circuiti che arricchiscono la conoscenza
dell’arte e della problematica realtà che ci circonda.
“Ecco un modo di far parlare una lingua universale a un’arte con-
temporanea che, attraverso il processo creativo, trova la possibilità di
sviluppare nuove lunghezze d’onda di conoscenza e una ulteriore spe-
ranza per le ultime fasce generazionali di giovani aperti all’arte, che
sembra rappresentare l’unica apertura sul futuro.” Achille Bonito Oli-
va 20
La fondazione delle Orestiadi rimane quindi, oltre a un importante
museo d’arte contemporanea (appunto la donazione Corrao, costella-
ta da importanti e numerose opere di altrettanti artisti moderni e
contemporanei e allestita tra il Granaio e il Museo di Arte Applicata)
e un importante centro di scambio culturale col Museo delle Trame
Mediterranee, anche una interessante “officina artistica”, unica nel
suo genere, che dinamizza il panorama culturale non solo regionale
ma anche a livello internazionale. Le opere che vengono create negli
atelier, con i laboratori e quindi gli scambi tra artista e luogo, artista e
giovani generazioni, sono il frutto di un importante dialogo e di un
processo intellettuale molto importante e stimolante; in generale, un
20
Oliva A.B., Ateliers, catalogo della Fondazione Orestiadi, Gibellina 2006, pag. 12.
36
II. Le realtà di oggi e la Fondazione Orestiadi
esempio di museo dinamico e all’avanguardia che propone soprattut-
to il processo creativo vero e proprio, con la possibilità non solo di
entrare all’interno delle dinamiche intellettuali che creano l’oggetto
artistico, ma anche di esserne coinvolti nella strutturazione del suo
linguaggio. Allo spettatore si dà quindi l’opportunità di studiare il fe-
nomeno creativo in relazione a un tema e a un’idea relativa al luogo,
allo spirito geografico in cui si trova e con tutte le problematiche rela-
tive, dall’etica alla morale, dalla politica alla religione, dall’estetica al
mito...
Gibellina oggi è quindi una realtà ancora dinamica, sia dal punto
di vista critico che da quello artistico vero e proprio. Esiste una situa-
zione artistico-architettonica importante, con altrettante collezioni
d’arte contemporanea, ma soprattutto con un fenomeno dinamico
come quella della Fondazione delle Orestiadi, che traina le vicende
culturali di Gibellina e di un interessante aspetto dell’arte contempo-
ranea, ponendosi come luogo d’accoglienza alla sperimentazione e al
dialogo.
37
[…] A Gibelina esiste l’unico esempio in Ita-
lia in cui l’arte contemporanea si confronta
con la società. Mentre altrove, fra le opere nei
musei si svolge un rapporto istituzionale, qui
partecipa direttamente, perché non manda
(l’artista) il quadro e lo “mettiamo”, no, lo fa
qui, lo realizza qui, ascoltando sentendo, pas-
so per passo, la terra, le persone, gli umori, il
teatro…[…]
Ludovico Corrao21
21
Tratto dall’intervista a Ludovico Corrao in occasione della mia visita alla
Fondazione Orestiadi a Gibellina nel mese di Settembre 2009.
38
III. L'artista si mette in gioco
III. L'artista si mette in gioco
La ricostruzione di Gibellina è stata di per sé un fenomeno raro: la
possibilità per l’amministrazione di pianificare un’intera città, medi-
tando sulla pianta e sulla sua funzionalità, sulla possibilità di avere a
disposizione vari intellettuali tra artisti e architetti è stata una situa-
zione ideale, una possibilità che ogni singolo attore del panorama cul-
turale ha sempre ipotizzato e sognato.
Gibellina ci appare quindi come un progetto aperto, un cantiere in
via di sviluppo, con i presupposti lungimiranti che si rivolgono al dia-
logo tra artista e società, con un antico rapporto socio-culturale risco-
perto e ancora se possibile più diretto; l’idea di Ludovico Corrao è
stata quella di calare la cultura tra la gente, con tutte le sue proble-
matiche del sociale e per il sociale.
Ma a Gibellina un altro fenomeno unico è anche quello dell’atteg-
giamento dell’artista nei confronti di una problematica linguistica più
attenta ad un effettivo aspetto funzionale dell’opera d’arte. L’oggetto
artistico per Gibellina non nasce con, all’interno del processo creati-
vo, aspetti riguardanti il mercato o la fruizione d’élite, ma secondo
esigenze narrative più generali, più “utopiche”, ma paradossalmente
più vicine a una larga schiera di fruitori su più livelli; in poche parole,
l’artista si cimenta nella realizzazione di un oggetto che sia di imme-
diato impatto emotivo, linguistico e metaforico, e che riesca ad arri-
vare a qualsiasi individuo, a prescindere dal bagaglio culturale che
esso ha.
Non sempre il risultato riesce a soddisfare questa idea, ma perlo-
meno il prodotto artistico suggerisce sempre questa analisi dell’arti-
sta attraverso l’uso di un linguaggio inusuale rispetto al proprio ope-
rato tradizionale.
L’autore che sviluppa il suo linguaggio artistico e lo divulga attra-
verso una rete espositiva più o meno pubblica, ma che rimane preva-
lentemente esposto in una rete (soprattutto commerciale) che è co-
munque d’élite, di un pubblico che è già preparato a ricevere un lin-
guaggio sperimentale più o meno efficace, si trova a dover creare
39
III. L'artista si mette in gioco
invece a Gibellina un oggetto “a priori”, che non tenga conto fonda-
mentalmente né del mercato, né di un pubblico privilegiato o interes-
sato.
Gli artisti che hanno risposto all’appello di solidarietà di Corrao &
Co. vennero man mano a Gibellina, girando il neo tessuto urbano e
scegliendo il punto in cui avrebbero voluto installare il loro interven-
to artistico. Una scelta basata sicuramente su un proprio bisogno di
fondere la funzionalità linguistica di espressione in rapporto allo spa-
zio scelto. Un rapporto, un dialogo tra spazio e linguaggio che per-
metta lo sviluppo di ulteriori spazi e problematiche estetiche e vetto-
riali su cui riflettere e ragionare.
Per Alberto Burri per esempio, il bisogno fu quello di andare oltre
la Gibellina Nuova; prima gli fecero visitare la nuova cittadina, dove
già esistevano importanti installazioni e architetture, come quelle di
Quaroni e Consagra, ma decise che lì non c’era spazio per lui: “Qui
non ci faccio niente di sicuro”. Non riusciva a immedesimare la sua
idea in quel luogo. Fu portato allora nella vecchia Gibellina e guar-
dando i ruderi capì come doveva intervenire. La sua idea fu quella
che poi lo portò a realizzare il Grande Cretto: “Mi veniva quasi da
piangere e subito mi venne l’idea”22
.
L’opera di Alberto Burri, realizzata in collaborazione con l’architet-
to Alberto Zanmatti, è ancora oggi una delle opere più grandi al mon-
do: dodici ettari di cemento che si estende sul vecchio sito distrutto di
Gibellina. Le placche di cemento bianco, che si mantengono su un li-
vello non più alto di due metri, inglobano le masse di detriti ricavati
dai ruderi delle case distrutte, simulando con la loro forma la materia
dei cretti, le superfici secche, screpolate, come se ne possono trovare
in natura o nelle craquelure delle superfici pittoriche. In questo caso,
i solchi del Grande Cretto, che dividono le placche di cemento deli-
neandone le sagome, coincidono per buona parte con le vecchie stra-
de di Gibellina.
22
Zorzi S., Parola di Burri, ed. Allemandi, 1995.
40
III. L'artista si mette in gioco
Una sorta di enorme sudario, in cui all’interno delle placche di ce-
mento riposano i ruderi, le macerie della vecchia Gibellina, percorri-
bile all’interno come un labirinto.
È innegabile l’incredibile impatto emotivo che un’opera del genere
riesce ad imprimere nello spettatore: chiunque arrivi davanti al Gran-
de Cretto prova una sensazione di profonda inquietudine, di silenzio
e di riflessione. Si è immersi all’interno della collina, in mezzo al nul-
la, ma di fronte ad un segno così imponente che difficilmente lascia
indifferenti. Una cosa molto importante di questa operazione artisti-
ca di Alberto Burri è proprio l’unanimità comportamentale nei sui
confronti. Nel bene o nel male il Grande Cretto ottiene un importante
reazione; sicuramente conseguenza di qualcosa che comunque arriva
dai tanti significati etici, morali e linguistici contenuti nell’opera.
È un segno, al di fuori da qualsiasi referenza commerciale o propa-
gandistica: il grande cretto è quindi una presa di coscienza dell’artista
che insegue un livello di comprensione delle cose al di sopra di qual-
siasi dinamica estetica.
“[…] esso (il cretto) è fuori dal sistema (e dal sistema artistico),
dalla certezza di appartenere ad un’estetica. Innesca piuttosto la refe-
renza trascendentale dell’arte senza immaginarsi nell’imbuto polifun-
zionale della comunicazione svalutando l’angolazione moderna intesa
come estetica e progetto estetico di intervento sul mondo.[…]” Italo
Tomassoni23
Nell’ambito della sua lunga produzione artistica, Alberto Burri ha
ricercato sempre di più il dialogo tra materia e spazio, ovvero la for-
ma come icona di una concezione spaziale ben definita, o che comun-
que richiamasse ulteriori problemi relativi al rapporto tra questi due
elementi. Una sorta di meditazione profonda sull’ontologia formale e
sui suoi significanti attraverso opere sempre più grandi, laconiche e
austere. Il Grande Cretto, diventa un atto finale, il capolinea se vo-
gliamo di un lungo percorso, un magistrale esempio della ricerca di
23
De Simone G., Farina G., Fazzi S., Alberto Burri nel panorama della Land Art
internazionale, atti del convegno, Gibellina 9 e 10 Ottobre 1998, Edizioni Museo
Civico d’Arte Contemporanea, Gibellina 2004, pag. 93.
41
III. L'artista si mette in gioco
Alberto Burri. Ma l’opera presente sui ruderi di Gibellina è un plauso
alla sua opera all’interno della società, dei suoi drammi e della sua
stessa spiritualità etica. Una prova finale che si immerge nella realtà
del caos acquistando un valore artistico universale. Il Grande Cretto
non sarebbe quello che è se non esistesse sui ruderi di Gibellina.
Non a caso il Cretto è stato indicato come un culmine dell’epoca; il
cretto è un “sudario che normalizza in uno spasmo raggelato la trage-
dia di un popolo e di una terra”, ha scritto Carlo Pirovano, opera
“quasi insostenibile nella sua secca laconicità”.
L’opera di Burri offre sicuramente analisi critiche trasversali, come
quelle che vanno dalla Land Art (involontariamente sorte e rifiutate
dall’artista stesso), e quindi il rapporto tra artista e spazio e la modifi-
cazione di quest’ultimo come “antropologizzazione semantica del luo-
go”, a ingenui riferimenti linguistici con le opere precedenti di Burri,
ma Il Grande Cretto non si limita a problematiche autoreferenziali,
come opera a se stante, estrapolabile dal luogo, ma anzi il luogo ne
determina ulteriori concetti e il suo stesso motivo di essere.
Il Grande Cretto, ragionando per assurdo, non potrebbe essere
esposto in un museo, in una struttura neutra adibita alla fruizione e
allo studio.
Le placche del cretto, sudari di una realtà materiale, contengono al
loro interno la memoria tangibile della storia: i ruderi della vecchia
Gibellina. Il colore bianco, della grande superficie in cemento, rispec-
chia la luce, segno oggettivo del tempo; la luce, a sua volta, rivelando
le cose ne incide il tempo, usurandole. I solchi del grande cretto di-
ventano quindi la rivelazione del tempo, della storia, la traccia della
memoria. Sono i percorsi del cretto i testimoni della memoria che
coincidono con le vere strade della vecchia Gibellina. Le ombre della
luce, il labirinto di segni che delineano le placche del grande cretto,
decidono il tempo della storia e l’impatto monumentale che Burri ha
deciso di registrare ai posteri.
Così come la luce e il suo calore attua un processo corrosivo sulla
terra (e non a caso molti territori della Sicilia sono caratterizzati da
questi fenomeni climatici), che si spacca e si crepa mostrandoci le sue
viscere, la sua sedimentazione, la sua storia, Burri decide di presen-
tarci il cretto, ovvero la luce (come presente), simboleggiato dalla su-
42
III. L'artista si mette in gioco
perficie di cemento bianco (segno di conoscenza culturale dell’artista,
contenitore consapevole delle rovine, testimonianze a sua volta della
tragedia storica), rivela le ombre dei solchi (il passato, il ricordo della
tragedia), l’entità dell’azione temporale sulla materia. La superficie di
cemento bianco si spacca mostrando dei solchi che si fermano nel
momento in cui coincidono con la larghezza stessa delle vecchie stra-
de di Gibellina, il simbolo della civilizzazione, linee che fanno riemer-
gere i percorsi tangibili di una società; un “labirinto della storia” da
percorrere non solo mentalmente ma fisicamente.
L’azione corrosiva della luce, congelata consapevolmente da Burri
col cemento, rivela il tempo di quella memoria, quella di Gibellina.
Il Cretto di Burri diventa un monumento emblematico in cui dialo-
gano il tempo e lo spazio, entrambi elementi esposti come icone reali,
nella loro veridicità tangibile. La luce reale, che viene “esposta” dal ri-
flesso bianco del cemento, simbolo del presente, del tempo che conti-
nua inesorabile, e l’evidenziazione del suo negativo, l’ombra, l’usura,
il passato che poi è la traccia della luce stessa; come a dire che il pre-
sente è continuo figlio del passato, della memoria.
E a cosa serve un monumento se non a ricordare la storia, quello
che si decide di conservare di una vecchia civiltà da parte di quella
contemporanea? Così il Cretto di Burri si impadronisce, oltre che del-
la luce e, quindi, del tempo, anche dello spazio, quello storico della
vecchia Gibellina, in tutta la sua estensione: uno spazio che contem-
pla materialmente quello che è stato e che non sarà più. Il cemento
non poteva contenere solo una parte delle macerie, perché non avreb-
be ottenuto lo stesso principio universale avuto con la luce e il tempo;
non avrebbe ottenuto lo stesso dialogo linguistico e semantico tra gli
elementi estetici e storici.
Esiste quindi una relazione tra spazio e tempo elaborata su più li-
velli: ogni elemento che costituisce il grande cretto, dagli effetti della
luce, alla dimensione dello spazio su cui si estende, dal colore al con-
tenuto delle placche di cemento, diventa complice di una complessa
ma chiara trama di concetti e simboli, metafore o semplici segni mo-
numentali.
Il Grande Cretto diventa un’opera che ha un contesto ben preciso,
una natura e una storia unica; l’opera di Burri è un punto preciso del-
43
III. L'artista si mette in gioco
l’universo in cui diverse esperienze e diversi vettori si sono interseca-
ti.
Così come Alberto Burri, altri artisti a Gibellina si sono immedesi-
mati in opere pienamente contestuali o addirittura inusuali al loro
linguaggio espressivo comunemente esposto in musei e gallerie. Uno
di questi è il calabrese Mimmo Rotella, il cui intervento gibellinese ne
risulta un valido esempio.
Forse si può accertare come un vanto, per Gibellina, quello di an-
noverare la grande scultura in pietra di travertino, dipinta ad acrili-
co, intitolata Omaggio a Tommaso Campanella, come un exploit più
unico che raro da parte dell’italianissimo esponente del Nouveau
Realisme.
Nel 1987 Mimmo Rotella, famoso già per la sua ricerca sul concet-
to di sedimentazione temporale, sul ready made “informale”, sul ge-
sto che svela la casualità dell’azione e della forma stessa, rintraccian-
dola ed esponendola dal caos del contemporaneo, come gli oggetti di
comunicazione prettamente commerciale come i manifesti pubblici-
tari, espone una scultura, spostandosi nettamente da un linguaggio
che a priori si argomentava nelle due dimensioni, a una realtà materi-
ca ben evidente come quella tridimensionale della scultura. Mentre
Rotella ci ha abituati ai suoi ready made, ovvero strati di manifesti
incorniciati, il cui aspetto formale e cromatico è la conseguenza di un
gesto che “trova”, che “strappa” le sedimentazioni in modo casuale e
caotico, qui lui elabora una forma, un monolite circolare che riporta
un fregio piatto, scavato.
Diventa quindi un’operazione inusuale se si pensa che la concezio-
ne artistica di Mimmo Rotella nasce da concezioni informali e cioè
del libero arbitrio casuale della materia in relazione con lo spazio che
la contiene, quando esponeva cioè il retro dei manifesti la cui superfi-
cie riportava la densità cromatica e fisica della colla che intrappolava
materia organica e intonaco dei muri da cui era stato strappato il ma-
nifesto. Una “casualità scelta” che diventa il segno di una consapevo-
lezza del tempo ben definita, un ready made del contemporaneo più
esposto a problematiche classiche e poetiche; un segno che comun-
que si connota nell’azione del levare e dello scoprire.
44
III. L'artista si mette in gioco
Qui Mimmo Rotella toglie, perché si tratta di una scultura nel sen-
so classico, ma la forma del blocco e la forma del bassorilievo è una
scelta a priori ben studiata: non si espone cioè la casualità del “ready
made trovato”.
Persino le pennellate di acrilico che colorano la scultura non sono
conseguenza di una casualità trovata, ma di un insistente gesto che
definisce e materializza definitivamente le superfici del bassorilievo.
Sul monolito di travertino, rotondo, di un diametro di circa tre me-
tri con uno spessore di sessanta centimetri, è scolpito, attraverso sca-
nalature di superfici piatte, un sole, e tutta la sua superficie è dipinta
con pennellate puntiformi di colore giallo e pennellate azzurre e ocra
bruciata marcano le linee circolari e perimetrali del bassorilievo.
Un grande sole giallo, ocra e azzurro, simbolo della Sicilia e del
Mediterraneo, che diventa l’astro da seguire per un’idea, un’utopia di
città ideale.
Infatti il simbolo astronomico del grande sole è un esplicito riferi-
mento all’opera filosofica scritta nel 1602 da Tommaso Campanella,
“La Città del Sole”.
“Sorge nell’alta campagna un colle, sopra il quale sta la maggior
parte della città; ma arrivano i suoi giri molto spazio fuor dalle radici
del monte […] dentro vi sono tutte l’arti, e l’inventori loro, e li diversi
modi, come s’usano in diverse regioni del mondo”24
. Così, nelle prime
battute del suo testo, il filosofo calabrese descrive la città ideale che
agli occhi di Mimmo Rotella (ed è difficile biasimarlo) assomiglia
molto a Gibellina, non solo per le realtà artistiche che lui trova nella
nuova città, visto che nel 1987 erano state già installate diverse opere
d’arte e architetture importanti, ma soprattutto per gli intenti cosid-
detti “utopici” portati avanti da Ludovico Corrao e da tutti quelli che
hanno aderito all’iniziativa culturale.
Il testo di Campanella rappresenta il grande fermento culturale,
politico e sociale di quegli anni: è il risultato concreto di una grande
aspirazione al cambiamento, al rinnovamento della società dell’epo-
ca. Gibellina viene affiancata ideologicamente a questa aspirazione di
24
Tommaso Campanella, La Città del Sole, 1602.
45
III. L'artista si mette in gioco
cambiamento, di rinnovamento, di prospettive verso nuovi presuppo-
sti culturali e sociali.
Ulteriore elemento concettuale che Mimmo Rotella esprime attra-
verso il riferimento all’opera di Tommaso Campanella è anche la ri-
valsa culturale, politica e sociale di cui il testo si fece carico e per cui
lo steso filosofo fu condannato a morte e incarcerato a vita; pochi
mesi prima della stesura del libro, Campanella organizzò una congiu-
ra che mirava alla liberazione della Calabria dal dominio spagnolo,
all’abolizione della proprietà, all’instaurazione di una democrazia di
tipo comunistico e teocratico, proprio come esposta nelle pagine della
Città del Sole e sostanzialmente molto simile alla storia delle lotte
contadine di Gibellina, dalla liberazione del latifondo e delle proprie-
tà baronali.
L’omaggio a Tommaso Campanella diventa quindi la stessa Gibel-
lina vista come idea utopica concretizzata, la nuova città siciliana che
per Rotella si candida come potenziale esempio reale della filosofia
del Metafisico.
Anche in questo caso, come in quello di Burri, Rotella crea un’ope-
ra d’arte specifica, spiegabile soltanto in quel determinato contesto
geografico, culturale e politico, come il risultato di diverse somme av-
venute tra formulazioni concettuali, filosofiche ed esperienze indivi-
duali lontane nella storia e nei secoli, che coincidono, collimano e sfo-
ciano a Gibellina, per diventare punti fermi, unici, isolati, di un lin-
guaggio universale e, appunto, utopico.
Mimmo Rotella si sente di dare il suo contributo attraverso uno
studio linguistico e poetico che non ha mai espresso nella sua opera e
che ritiene necessario in quel luogo, in quella condizione sociale, per
esprimere puntualmente un ennesimo prodotto della cultura, neces-
sità etica e morale e mai superficialmente utopica.
Un altro esempio importante è dato dalla scultura urbana, l’Ara-
tro, di Arnaldo Pomodoro, posizionata vicino la Chiesa Madre di
Quaroni: un grande aratro di dodici metri di lunghezza per un’altezza
massima di sei metri e quattro di larghezza, realizzata in tre materiali
diversi, rame, ferro e tufo. Sullo sfondo della scultura un campo arato
che si perde in lontananza, sicuramente elemento involontariamente
scenografico ma comunque scelto dall’artista.
46
III. L'artista si mette in gioco
Una scultura archetipica, che si sviluppa su forme estremamente
stilizzate ed essenziali, che si liberano di tutti gli orpelli superficiali
per mostrare la propria evidente funzionalità strutturale e concettua-
le, che richiama alla mente continui rimandi con associazioni seman-
tiche e linguistiche che qui a Gibellina trovano radici profonde e coin-
cidenze storiche molto importanti.
Come prima lettura esiste infatti un evidente richiamo alla storia
economica e sociale dei gibellinesi, all’agricoltura, e quindi alle origi-
ni, alla memoria. L’aratro come monumento di una società basata sui
ritmi e sulle esigenze della terra, sugli avvicendamenti delle stagioni,
che diventa icona della memoria di una popolazione, delle sue origini
e, se vogliamo, delle loro tradizioni.
Nel processo di stilizzazione ed esposizione monumentale dell’ara-
tro si crea di conseguenza un’argomentazione metaforica e semantica
della pratica agricola.
L’aratro diventa il simbolo dell’intelligenza umana, della conoscen-
za che modifica la terra, la natura, intervenendo nel cosmo della ca-
sualità per adoperarla alle proprie esigenze e necessità. L’aratro come
simbolo di modificazione e conoscenza del mondo e quindi come sim-
bolo di cultura. Non a caso coltura e cultura sono come sinonimi che
hanno la stessa genesi linguistica.
L’aratro diventa quindi la figura in cui si rispecchia la voglia di Gi-
bellina, quella di ritornare al lavoro sui campi, quelli della società, at-
traverso un essenziale strumento di ricerca e di conoscenza.
Una forma costituita da elementi simbolo dell’industria, dell’arti-
gianato e dell’architettura; il ferro, il rame e il tufo, sono elementi che
richiamano anche la terra in cui sorge la scultura, in quanto i mate-
riali, così come tutti quelli usati dagli altri artisti per le loro opere,
sono autoctoni, provengono dalle diverse parti della Sicilia. Sono an-
che gli stessi materiali che caratterizzando le opere archeologiche che
popolano la regione del trapanese.
Infine, la scultura rivendica la memoria delle continue lotte per la
proprietà terriera da parte dei contadini di Gibellina, diventando mo-
numento delle rivolte antifeudali, proprio in quelle pianure su cui si
installa adesso l’opera di Pomodoro.
47
III. L'artista si mette in gioco
Ma la scultura di Arnaldo Pomodoro è anch’esso un unicum nella
sua produzione artistica. Forme figurative ma essenziali come l’aratro
di Gibellina si ritrovano soltanto in alcune scenografie curate dall’ar-
tista.
A Gibellina Pomodoro ha realizzato un’opera di sicuro impatto so-
ciale, in cui convergono la storia economica, culturale e politica. A
differenza di Burri e Rotella, che presentano un lavoro che ha a che
fare maggiormente con una referenza etica ed estetica universale, Po-
modoro insiste prettamente sulla memoria sociale limitandosi, dicia-
mo così, a presentare un monumento della storia.
Non avrebbe potuto presentare con la stessa austerità e “presenza”
le sue solite architetture astratte: qui la scultura si immedesima nel
contesto geografico e dialoga con lo spazio circostante come se fosse
un elemento scenografico o semantico dell’opera stessa, una voluta
protuberanza vettoriale.
Nomi come quelli di Alberto Burri, Mimmo Rotella e Arnaldo Po-
modoro, sono gli esempi più eclatanti tra i molti altri artisti che han-
no deciso di mettersi in gioco a Gibellina, di abbandonarsi al luogo
per sperimentare altro, qualcosa che non avesse riferimento con le
strutture sociali ed economiche in cui il loro linguaggio si articolava
in modo funzionale; gli artisti hanno ascoltato diverse necessità
espressive, assorbendo completamente la storia della città, della terra
che avrebbe ospitato le loro opere. Da questo atteggiamento sono
nate sculture e architetture che suggeriscono nuovi strumenti per Gi-
bellina, che ne manifestano l’idea non solo con il linguaggio ma anche
attraverso i materiali stessi con cui sono costituite, elementi della ter-
ra che le ospitano e testimoni di una risorsa che ha sempre accompa-
gnato gli avvicendamenti culturali di Gibellina e della Sicilia tutta.
Gibellina come fornace di atteggiamenti culturali unici e isolati
non solo dal punto di vista degli artisti, architetti e intellettuali, ma
anche in relazione al panorama artistico in generale, che permette di
rivalutare il linguaggio di un autore in chiave sociale.
A capo di tutti i discorsi sulla crisi dell’arte e sul problema di con-
fronto tra cultura e società, utopia ed esigenza, Gibellina diventa un
evidente esempio in cui gli intellettuali si sono slacciati dallo studio di
48
III. L'artista si mette in gioco
problematiche artistiche, autoreferenziali, per lavorare su linguaggi
universali, diretti ad un pubblico che esige un’icona, un’idea su cui ri-
flettere.
49
“A Gibellina come sono stato attratto io così
diversi artisti sono stati attratti per partecipa-
re e rispondere a quella voglia di oltrepassare
le soluzioni pratiche: l’estraniante oggetto uti-
le delle necessità impellenti”.
Pietro Consagra25
25
Consagra P. in Gibellina, Ideologia e utopia, La Monica G., pag. 53.
50
IV. Artista e realtà sociali: stato, religione e cultura
IV. Artista e realtà sociali: stato, religione e cultura
Gibellina è stata l’occasione propizia per inventarsi nuove prospet-
tive, per ricostruire identità perdute, per ridare un’etica più vicina
alle esperienze contemporanee, sicure del passato e prossime alla no-
vità.
Gli intellettuali hanno seguito un atteggiamento puro, a priori da
qualsiasi coinvolgimento funzionale al mercato: ogni progetto è stato
la conseguenza di un’idea universale della cultura, che nonostante
tutto guardava al territorio e alla sua tradizione. Ha ipotizzato un’esi-
genza culturale della gente, di una Gibellina che doveva muovere i
primi passi affacciandosi sulle realtà linguistiche contemporanee. Gli
autori si sono mossi quindi attraverso mondi inesplorati, che hanno
permesso di sperimentare e sperimentarsi in condizioni assoluta-
mente inusuali.
La meta funzionale di ogni progetto ha così dovuto tener conto di
molti aspetti, soprattutto sociali, che hanno influito sull’aspetto finale
di ogni oggetto. La forma e la sua struttura, il linguaggio semantico e
concettuale, l’aderenza al luogo e alla tradizione della gente.
Un atteggiamento che ha auspicato il meglio, un’utopia sociale
perfetta, comandata da idee e ritmi astratti e che ha comportato sicu-
ramente aspetti negativi quanto positivi.
Tra gli aspetti positivi troviamo sicuramente soluzioni artistiche
che hanno fatto riflettere, e tuttora lo fanno, sul panorama più gene-
rale del mondo culturale, sulle figure che ne sono state coinvolte e
sull’idea di città ideale come problema socio-culturale che si è dimo-
strata di non facile attuazione e interpretazione.
La storia è fatta però di fatti, e quello che ci rimane in contrada Sa-
linella è un problema presente, reale, esistente a prescindere da qual-
siasi considerazione che si argomenti da ideali probabilità o ipotetici
sviluppi. Gibellina e il suo sublime contenuto, nell’accezione settecen-
tesca del termine estetico, esiste ed è una realtà artistico – architetto-
nica da affrontare criticamente, tenendo presente del futuro e dei
possibili sviluppi.
51
IV. Artista e realtà sociali: stato, religione e cultura
Gli aspetti negativi posso riscontrarsi nella sottovalutazione da
parte dei progettisti e degli artisti di soppiantare completamente un
contesto spaziale per un altro, più vicino sicuramente alle esperienze
della città che a quelle di una piccola comunità.
Sicuramente Gibellina ha esposto un fenomeno importante, che ri-
mane latente in qualsiasi operazione effettuata nella cittadina che è
quella dell’officina sociale, per riprendere un’espressione di Achille
Bonito Oliva, ma che si dimostra lampante studiando le opere e il
loro processo creativo.
Un concetto che ha fatto sì che esistesse Gibellina e che continua
ancora oggi a rinnovarsi e riapplicarsi negli Ateliers della Fondazione
Orestiadi.
Gli artisti hanno lavorato a Gibellina e vivendo il contesto hanno
creato opere uniche, come unico è stato il loro linguaggio, riadattato e
riformulato in base alla condizione che si ponevano in quel determi-
nato luogo. Il processo creativo non lo è stato da meno, coinvolgendo
non solo i materiali autoctoni, ma anche le maestranze e gli aiuti de-
gli abitanti locali.
Ogni opera è frutto di una collaborazione intensa che nasce da uno
spirito comune, sociale.
Come ci ricorda Ludovico Corrao in numerosi interventi, Gibellina
è proprio nata da un confronto continuo non solo fra intellettuali ma
anche con la stessa gente, tra le tendopoli, con le mostre e i convegni
allestiti all’interno dei rifugi temporanei, costruendo quell’idea di
Utopia, di morale e di etica.
Nascono così numerose opere che riescono per questo a emanare
un forte impatto emotivo che coinvolge tutti a prescindere dall’espe-
rienza culturale soggettiva; vengono create delle opere d’arte che ri-
marranno punti luminosi di costellazioni lontane, di sistemi creativi
rari e irripetibili.
Si rigenera quel rapporto collaborativo tra artista e istituzione, tra
funzionalità comunicativa ed esigenza culturale e stilistica. In questo
modo vengono alla luce importanti esempi di opere d’arte e architet-
ture per la religione e la spiritualità dei fedeli, per eventi culturali e di
spettacolo e per luoghi pubblici e amministrativi.
52
IV. Artista e realtà sociali: stato, religione e cultura
Oggetti che creano uno spazio sociale e che si rapportano come
punto di riferimento culturale e demagogico di una società. È impen-
sabile negare la funzione dello stile linguistico e della sua idea di spa-
zio e di tempo sulla gente, sul suo modo di pensare e di agire.
Mai come a Gibellina c’è stata fra la gente una così importante pre-
senza di diversi linguaggi stilistici, soprattutto per l’alta concentrazio-
ne di opere e per l’importanza data a queste ultime in relazione alle
esigenze materiali degli abitanti.
Corrao ha preferito far rinascere Gibellina da uno spazio artistica-
mente valido, fondare un fulcro estetico, che potesse dare le fonda-
menta morali, culturali ed etiche ad un’intera società; un impegno
difficile, azzardato, ma sicuramente prolifico di suggerimenti, stru-
menti e ricchezze.
Consagra e le architetture
Pietro Consagra, nel 1976, vide iniziare a Gibellina i lavori di co-
struzione del Meeting, la concretizzazione delle sue idee spaziali in
quella prima architettura.
Proveniente da un lungo percorso di ricerca, costellato da numero-
si riconoscimenti, l’artista siciliano è nato a pochi chilometri di di-
stanza da Gibellina, a Mazara del Vallo, nel 1920. Lavorò tra Roma e
Milano e fu fondatore nel 1947, insieme ad altri importanti protago-
nisti dell’astrattismo e costruttivismo italiano (come Turcato, Accar-
di, Sanfilippo e altri), del gruppo e rivista “Forma1”. Ebbe la possibili-
tà di provare con mano, a Gibellina, quelle idee cosiddette utopistiche
che avevano caratterizzato il testo della “Città Frontale”, scritto anni
prima nel 1969; il testo in cui redige le condizioni favorevoli per vive-
re in una città costruita attraverso architetture fatte a misura d’uomo,
che rispecchino l’unicità dell’individuo dimostrandosi esse stesse inu-
suali, fuori dagli schemi precisi e standardizzanti del senso comune.
Ogni architettura deve essere vista frontalmente, mostrando un
solo punto di vista, esaltando l’unicità che corrisponde ad una purez-
za ideale della forma. Lo spessore diventa soltanto funzionale all’abi-
53
Gibellina. Laboratorio di sperimentazione sociale Autore: Giovanni Robustelli
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Frattura Scomposta - Hai paura del buio? 30 agosto 2013 - Torino
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Rubens in Italia (1600 - 1608). La ritrattistica di Simona Maria Ferraioli
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La gestione dei musei: un modello di analisi - Stefania Coni Luca Moreschini
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Gibellina. Laboratorio di sperimentazione sociale Autore: Giovanni Robustelli

  • 1.
  • 2. Giovanni Robustelli Gibellina Laboratorio di sperimentazione sociale eBook per l'arte un'iniziativa
  • 3. © 2011 eBook per l'Arte – Giovanni Robustelli Prima Edizione 2011 Licenza Creative Commons 3.0 – Attribuzione - Non commerciale – No opere derivate http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/ In copertina Bozzetto di Fausto Melotti per il monumento Contrappunto del 1983 Fotografia di Giovanni Robustelli I titoli di opere d'arte sottolineati e colorati in blu sono cliccabili: si aprirà l'immagine dell'opera (necessaria connessione a internet).
  • 4. Dedico questo testo al Senatore Ludovico Corrao, al suono delle sue parole piene di passione e di ricordi, che riempirono quella stanza bianca e austera, seduto su una poltrona rossa imponente come un trono in un caldo e lieto pomeriggio di Settembre del 2009, elegante, disponibile e gentile come si conveniva ad un uomo che ha vissuto nell'arte e per la cultura.
  • 5. Premessa Non avevo mai dedicato, fino a poco tempo fa, molta attenzione a Gibellina; ne avevo sentito parlare, certo, ma poco e male: una citta- dina semi-deserta, dove campeggiano qua e là degli orrori strutturali, incomprensibili e desolanti, almeno secondo il giudizio di parenti ed amici che casualmente vi erano “incappati”. Sennonché un giorno, durante le lezioni di Arte Contemporanea della specializzazione in storia dell’arte all’università di Genova, vidi scorrere sul proiettore una diapositiva con l’immagine di un grosso cretto in cemento, diste- so su una collina del trapanese... dove? A Gibellina. Analizzai a pelle l’operazione del cretto come qualcosa di superficiale, dando svoglia- tamente un giudizio simile a tante altre operazioni di Land Art. Da qui è iniziato il mio interesse verso questa sconosciuta cittadina siciliana, forse sfortunata, perché attorniata da una zona troppo intri- sa di storia e di cultura come Palermo, Segesta, Mazara del Vallo, Trapani, Selinunte per attirare l’attenzione di una rete turistica che mira ad enfatizzare principalmente la “patina dei secoli”, “il fascino del mito”, “la tradizione” e “l’ospitalità gastronomica”. Naturalmente, a causa di ciò, si capisce il giudizio negativo dei non addetti ai lavori: Gibellina rimane purtroppo fuori da qualsiasi “tradizione”. Con la storia passata non ha nulla a che vedere: è una città ricostruita nuo- vamente, dopo un terribile terremoto, non solo senza poter riprende- re nulla di quello che era crollato, ma lasciando proprio le macerie sulla collina dove sorgeva per rinascere su un altro posto, più distan- te, a valle. Anche se i turisti venissero martellati dai media, giorno e notte, sulla possibilità di visitarla, non troverebbero alberghi per ospitare i loro pullman: a Gibellina si va magari con una multifamiliare, perché le stradine non permettono di raggiungere agevolmente il Grande Cretto di Burri, o la Fondazione delle Orestiadi, che ospita, oltre ad una ricca esposizione di Arte Applicata del Mediterraneo, una delle più importanti collezioni di Arte Contemporanea del meridione d’Ita- lia.
  • 6. Al massimo si alloggia nei B&B “domestici”, dove l’accoglienza del- la gente non fa rimpiangere la propria casa. Mi sono recato quindi a Gibellina con l’intenzione di occuparmene, conoscerla e scrivere una ricerca su questo importante “fenomeno” culturale, non avendo però ancora chiara l’idea su quale aspetto do- ver esattamente focalizzare il mio studio. Soltanto dopo aver visto le opere, e la loro storia, ho capito cosa voleva dire quel fenomeno di dialogo e di confronto che si era venuto a creare durante i convegni organizzati negli anni Ottanta a Gibellina, tra le tendopoli, nelle strutture di accoglienza, tra architetti, artisti, letterati o semplici cit- tadini che avevano voglia di rinascere dalle macerie. A Gibellina esistono dei linguaggi unici, inusuali, che esistono per- ché sono stati creati là e per quella precisa destinazione o funzionali- tà. Quante sculture abbiamo mai visto di Rotella? Quante architetture abbiamo mai potuto incontrare di Consagra? E qual è l’ultimo gonfa- lone disegnato da un artista per una processione (che non sia Anto- nello da Messina), se non quello di Boetti, Accardi o Isgrò? Questi nomi ci sono familiari, fanno parte della più importante storia cultu- rale del nostro paese (e non solo) degli ultimi decenni, e siamo abi- tuati a conoscerli per altro. Ma a Gibellina sono come rinati, cioè si sono immedesimati, hanno sentito, provato e calpestato questa terra per poi rimescolarsi e rinascere per un’idea unica, per un’utopia che non fosse legata al mercato, al circuito della cultura “ufficiale”. Come dice Ludovico Corrao, nell’intervista che riporto alla fine di questa ricerca, gli artisti e gli architetti invitati a Gibellina per la rico- struzione della città, si sono recati sul posto, ascoltando e vivendo la realtà sociale, culturale e spirituale; si sono espressi per la cultura ma anche per la gente, che oltre all’esigenza materiale di un tetto, aveva bisogno di storia, di memoria: è questo ciò di cui voglio parlare nella mia ricerca, degli interventi in cui l’artista è riuscito ad immergersi nel sociale, nella necessità immediata di un’idea di libertà analizzan- done soprattutto la riuscita contestuale e storica dell’opera. La ricerca sarà così strutturata in una prima parte che esporrà le vicende di Gibellina, dal terremoto al periodo di ricostruzione e poi di assestamento, nonché l’attuale condizione di Gibellina a vent’anni dalla ricostruzione e le realtà culturali presenti sul territorio. In que-
  • 7. sta prima parte si cercherà quindi di inquadrare una storia, una pre- messa al nostro discorso, per contestualizzare meglio l’analisi sui pro- cessi creativi degli artisti accorsi all’appello di Corrao. La seconda parte della ricerca, che inizia con l’esporre i diversi esempi di interventi artistici sparsi per la rete urbana di Gibellina, comprese alcune opere all’interno ormai dei musei (sia quello civico che quello del Granaio della Fondazione Orestiadi), continuerà con un approfondimento su tre esperienze in particolare, interessanti so- prattutto per l’attività laboratoriale che ha caratterizzato i processi creativi in un dialogo tra artisti e artigiani locali. L’aspetto principale della ricerca è proprio quest’ultimo tema, il ri- contestualizzarsi dell’artista non solo dal punto di vista linguistico, ma anche secondo un diverso procedere dal punto di vista progettua- le e realizzativo. Gibellina viene studiata quindi come fenomeno sociale, precisa- mente come “laboratorio sociale” (per utilizzare un’espressione di Achille Bonito Oliva), da cui hanno visto la luce opere inusuali, tassel- li unici all’interno di illustri ricerche di altrettanti autori internazio- nali. La ricerca si chiude con il dialogo avvenuto con Ludovico Corrao durante il mio soggiorno a Gibellina, in cui si percorre un’interessan- te parabola socio-culturale, dal terremoto alla ricostruzione e in cui affiorano ulteriori spunti per ulteriori ricerche e studi. Un dialogo che oltre a riportare i fatti, ormai studiati e ancora dibattuti in numerosi testi specializzati, rispolvera episodi intimi, della politica e della cul- tura; una faccia più genuina e sincera per una storia, quella di Gibelli- na, che ha dovuto scontrarsi spesso e volentieri con le critiche più aspre e velenose. Questa ricerca espone quindi un modello culturale, quello di Gibel- lina, basato sul valore e sull’importanza dell’arte, con lo scopo di no- bilitare la nuova storia di una comunità o di una società intera; ne ve- dremo i risultati che si possono ottenere dalla creatività se si lascia un artista nella libertà espressiva più assoluta, nel rischio sempre latente di creare oasi nel deserto.
  • 8. Indice I. Gibellina: storia dalla vecchia alla nuova 11 L’appello del 1970: un appello di solidarietà 15 II. Le realtà di oggi e la Fondazione Orestiadi 27 III. L'artista si mette in gioco 39 IV. Artista e realtà sociali: stato, religione e cultura 51 Consagra e le architetture 53 Boetti e il Prisenti di San Rocco 57 Paladino e la scenografia per La Sposa di Messina 61 V. Elenco dei progetti artistici a Gibellina 66 VI. Dialogo con Ludovico Corrao 69 Conclusione 83 Bibliografia 88
  • 9.
  • 10. Il terremoto, cieca forza d’una maligna na- tura, è un doppio disastro, fisico e umano. Spazza via in pochi secondi secoli di storia, cultura, civiltà. Là dove erano focolorai, rifugi per soste e riposo, coaguli di tenerezze, trame d’amore, dolore, eventi di vita e morte, accu- muli di memoria, di colpo si fa il deserto, ter- reno nudo e vago. E puntualmente spuntano, su questi luoghi azzerati dalla malasorte, dalle selve della violenza e del disumano, dall’anti- storia dell’opportunismo e del cinismo, spun- tano i lupi e gli sciacalli. Ma è anche il mo- mento, dopo il terremoto, di non perdersi nel mare della disperazione e dell’annientamento. È il momento di ricominciare a costruire la storia. Ricostruire sulle pietre della consape- volezza e della ragione, e anche, perché no? sulle pietre della bellezza. Niente è più entusia- smante della costruzione di una nuova città. Vincenzo Consolo1 1 Consolo V., Il drappo rosso con le spighe d’oro, in “Labirinti” anno II n.3, pp.22- 25, 1989. 10
  • 11. I. Gibellina: storia dalla vecchia alla nuova I. Gibellina: storia dalla vecchia alla nuova Su Roccatonda, lo sperone roccioso più prominente nel versante destro della valle del Belice, sorgeva Gibellina, un piccolo villaggio ru- rale di origine medievale a 400 metri circa di altitudine. Il centro era un agglomerato di case basse fittamente disposte su un pendio molto ripido. “Chi, venendo da Partanna, alla svolta dello stradale, in contrada dell’ex feudo della Carcia, fissa verso oriente lo sguardo, scorge un bel panorama: una larga e più lunga estensione di fabbricati, come addossati uno sull’altro, che vanno da mezzogiorno sul torrente Gebbia, verso mezzanotte, ove li sormonta il piacevole colle, Mulino del Vento. Così, nel 1915, lo storico locale, il sacerdote Baldassarre In- goglia, descriveva la topografia di Gibellina, che presentava un im- pianto urbano di tipo policentrico sviluppatosi lungo le linee direttri- ci dei due assi principali. Di questa struttura i ruderi del castello chia- ramontano da un lato e la Chiesa Madre dall’altro rappresentavano i poli di riferimento spaziale e i nuclei di agglomerazione della vita cit- tadina, fulcri generatori di una planimetria che nella sua lenta e natu- rale espansione non aveva subito nel tempo sostanziali cambiamenti. Ogni corpo edilizio si addossava all’altro con le irregolarità impo- ste dal pendio del terreno, talvolta collegati da grandi arcate che sca- valcavano il tracciato viario. Gli stessi palazzetti patrizi e i complessi ecclesiastici non avevano masse monumentali né prospetti aulici, non essendo isolati o separati dall’intrensicabile e minuto ordito delle abi- tazioni popolari. Del paese contadino tradizionale Gibellina conservava l’identità architettonica, tutta giocata sul rapporto funzionale tra casa e strada, dimensionata l’una e l’altra sul declivio del suolo e sul passo dell’uo- mo e dell’animale. La strada non era che il prolungamento della casa, uno spazio frastagliato da scale esterne e sogli prospicienti, un’appen- dice pubblica dell’abitazione privata, uno slargo in cui si risiedeva, si 11
  • 12. I. Gibellina: storia dalla vecchia alla nuova lavorava, si intesseva la fitta rete delle relazioni, si conservava e si giocava, più che non si transitasse fugacemente e semplicemente. Le case, arroccate lungo svolte e pendii, secondo le curve di livello altimetrico, avevano la muratura in pietrame informe o in conci squa- drati. Le facciate erano, a volte, imbiancate di calce. Più spesso nella loro scarna nudità lasciavano in più punti allo scoperto la tessitura delle pietre di tufo connesse dalla malta di gesso. La povertà dei materiali lapidei si associava alle tonalità dell’argil- la, alla terracotta dei laterizi e dei vari elementi di raccolta, drenaggio e canalizzazione delle acque piovane. Embrici, doccioni e pluviali di creta disegnavano sulle facciate geometrie sobrie. [...] Un’accentuata uniformità caratterizzava la tipologia delle abitazio- ni, essenzialmente dovuta all’omogeneità dei modi di produzione ma anche evidentemente condizionata dalla necessità di utilizzare i ma- teriali naturali di costruzione a disposizione: tufo, canne, gesso. Unità pluricellulari sovrapposte erano aggregate lungo le strade secondo moduli nastriformi, con rampe di scale esterne che rendeva- no indipendente l’ingresso alla stalla del piano terra a quello ai locali superiori. A sostenere i soffitti dell’interno era una sapiente orditura di canne tenute insieme da legacci vegetali e “rinzaffate” di gesso. Il solaio era generalmente destinato a granaio. Focolare e forno, sempre vicini, costituivano il fulcro domestico attorno al quale si articolava la vita quotidiana delle famiglie contadine. La maggior parte delle strade erano strette e piccole, quasi tutte asfaltate quelle in pianura, pavimentate con acciottolati o lastre di pietra quelle costruite in pendio, sulla dorsale della collina. Gradinate e selciati di ghiaia favorivano il passaggio degli animali sui percorsi dove i dislivelli erano più accentuati. La via principale era una, “la strada grande”, via Umberto: un asse più o meno regolare della lunghezza non superiore ai 150 metri, che tagliava il paese in due, secondo la direzione nord – sud, separando i quartieri più anti- chi, che si addensavano a oriente attorno ai ruderi del castello, da quelli di più recente costruzione, nelle zone di nuova espansione del- l’abitato. 12
  • 13. I. Gibellina: storia dalla vecchia alla nuova […] Così si presentava il paese quando le scosse di terremoto, nella notte del 15 Gennaio 1968, lo rasero definitivamente al suolo. Era un centro di circa 6.000 abitanti, per lo più braccianti, mezzadri, piccoli e medi proprietari”2 . La storia si è divorata Gibellina, uno dei centri più importanti, ma isolati, della Valle del Belice. Il terremoto del 15 Gennaio del 1968 fu provocato da un movimento lungo la faglia del Belice. Almeno quattrocento i morti. Cinque i comuni maggiormente col- piti: Gibellina, Poggioreale, Salaparuta, Montevago e Santa Margheri- ta. I primi quattro rasi al suolo. “La catastrofe nella notte fra domenica e lunedi. Il ministro Tavia- ni è giunto sul posto, oggi arriva il Presidente della Repubblica, si riu- nirà al Consiglio dei Ministri. Gibellina, un paese di 6410 abitanti, è stata quasi cancellata dal terremoto; il novanta per cento delle case è crollato. È uno spettacolo desolante, incredibile. Vista dall’elicottero appare colorata di rosa e azzurro. Quando si è più vicini ci si accorge che queste tonalità sono date dai muri interni che, crollate le facciate, sono rimasti in piedi: erano stati tutti dipinti con questi due colori. Nell’unica piazza del paese ancora riconoscibile si è salvata una co- struzione, la sola che, per essere moderna e in cemento armato, ha resistito”3 . La necessità di un riparo è stato il primo problema da risolvere per circa cinquantamila senzatetto del Belice; nei primi mesi la cifra era doppia, poiché la totalità degli abitanti, anche con case leggermente lesionate, abitava all’aperto. Questo aspetto non era però presente a Gibellina dove le 1980 abitazioni erano tutte distrutte completamen- te. La prima attività si è diretta a creare dei villaggi di tende, in attesa 2 Cusumano A., Gibellina nella memoria in Pes. A., Bonifacio T., Gibellina dalla A alla Z, cat. del Museo d’Arte Contemporanea di Gibellina, Edizioni Comune di Gibellina e Museo Civico d’Arte Contemporanea, Gibellina 2003. 3 Furno L., Tra le macerie a Gibelina, in “La Stampa”, martedì 15 Gennaio 1968. 13
  • 14. I. Gibellina: storia dalla vecchia alla nuova della costruzione di più duraturi ricoveri o baracche unifamiliari, do- tate di servizi necessari a una più prolungata permanenza, in previ- sione del periodo necessario per la ricostruzione definitiva. Già la scelta delle baraccopoli e l’appalto delle opere ha implicato una perdita di tempo e uno spreco di energie e di denaro. A Gibellina la costruzione degli alloggi precari non terminò prima del 1971 (ben 3 anni dopo la sciagura); il costo per mq. costruito è almeno triplicato, con l’inserimento di interessi clientelari e mafiosi nel campo dei ter- reni e degli appalti. I lavori vengono dati prima in appalto e poi in su- b-appalti successivi, fino a tre, quattro passaggi, delegando la costru- zione dal grosso appaltatore fino a piccoli gruppi di muratori improv- visati. Le aree (prescindendo dagli interessi privati) sono state scelte in due forme principali: o nei pressi delle rovine o a distanza notevole dal centro distrutto. Gibellina fu temporaneamente trasferita in due diversi villaggi: uno più piccolo, a Santa Maria delle Grazie, a est dei ruderi da cui di- sta solo un chilometro, mentre l’altro a ovest, Rampinzeri, che dista ben sette chilometri. Quest’ultima baraccopoli ospitava la quasi tota- lità degli abitanti: qui c’era anche la sede comunale provvisoria, an- che se il villaggio ricadeva nei confini comunali di Santa Ninfa. Nel periodo successivo a quello dei primi soccorsi, ossia nel 1969, iniziò un piano di trasferimento e ricostruzione (totale o parziale) dei quattordici comuni maggiormente colpiti. Così la nuova Gibellina venne ricostruita in contrada Salinella, su di un’area pressoché pia- neggiante, a un’altitudine di 220-240 metri. La località si trova presso la stazione di Salemi e al confine dei ter- ritori di Salemi e di Santa Ninfa, ai quali, per la costruzione del cen- tro, venne sottratta una parte dell’area comunale. Si determinò così un exclave contenente il centro principale e la sede comunale, mentre il rimanente del territorio gibellinese sarebbe stato un’isola ammini- strativa. La scelta del sito di Gibellina fi in relazione con la vicinanza dello svincolo autostradale e delle stazioni ferroviarie, a cui si aggiun- se la presenza di ampi spazi pianeggianti. Per la nuova Gibellina, in località Salinella, i lavori sono stati av- viati nel 1971 e solo nel 1976 è stata portata a termine l’urbanizzazio- 14
  • 15. I. Gibellina: storia dalla vecchia alla nuova ne primaria. Una delle cause del ritardo (qui come altrove) è stata l’incertezza sulle soluzioni da adottare: il piano primitivo dall’ISESS (Istituto per l’Edilizia Sociale, uno dei tanti “Enti Pubblici” operanti nel territorio) prescindeva dalle esigenze della popolazione e calava dall’alto un progetto per una conurbazione del Belice in cui si doveva- no raggruppare circa 30-40 mila abitanti dei vari centri distrutti. Grazie alle forti manifestazioni di disapprovazione del progetto da parte dei gibellinesi, Gibellina riuscì a mantenere la propria identità. La nuova Gibellina, dunque, non è il risultato desiderato e voluto da tale piano; al contrario, essa nasce dall’incontro appassionato di un gruppo di uomini, coordinati da Ludovico Corrao (eletto Sindaco di Gibellina proprio nell’anno seguente al terremoto), i quali intuiro- no con anticipo che gli antichi modelli crollavano ed era alle porte un terremoto molto più grande di quello del Belice, con la mobilitazione e l’intervento diretto della popolazione, per un’elaborazione propria e democratica di base. L’appello del 1970: un appello di solidarietà4 “Nella notte del 15 gennaio 1968 un terremoto sconvolse la Valle del Belice, al confine della provincia di Palermo, Trapani e Agrigento, distruggendo totalmente sei paesi popolosi e poveri e danneggiando- ne altri. Le vittime furono 1150 (compresi i morti per mancanza di pronto intervento), 98000 persone rimasero senza casa, 100000 per- sone con case cadenti. Ci vollero parecchi giorni prima che tutte fossero ricoverate sotto le tende; e parecchi mesi prima che tutte fossero alloggiate in barac- che. Gli uomini politici, che a gara si precipitarono sul luogo del disa- stro, sottraendo ore di più urgenti e utili servizi ai pochi elicotteri di- 4 Testo firmato da Sciascia, Guttuso, Zavattini, Caruso, Treccani, Cagli, Domiani, Zavoli, Corrao ed altri Sindaci della Valle del Belice e pubblicato e divulgato nel 1970 attraverso tutti i media; recapitato anche individualmente a tutte le personalità di spicco nel mondo della cultura. 15
  • 16. I. Gibellina: storia dalla vecchia alla nuova sponibili, promisero tutti l’immediata ricostruzione dei paesi distrutti e parve allora che, al di là della provata demagogia e inefficienza della classe al potere, almeno e soltanto sulla promessa di ricostruire gli abitati, si potesse contare. E diciamo soltanto perché altre ne furono fatte: di una ricostruzio- ne economica ella zona, di radicali interventi strutturali ed infrastrut- turali, nel contesto di una visione e di una volontà che tenesse pre- sente la situazione siciliana nell’insieme, quale il terremoto l’aveva ri- velata agli uomini politici e agli inviati speciali dei giornali del nord e stranieri. Ma passato il momento emotivo e demagogico, passate le elezioni politiche che si ebbero qualche mese dopo, ad altro non si pensò che alla costruzione delle baracche, e con molta improvvisazione disordi- ne: come ad un atto di definitiva solidarietà, come ad una soluzione finale del problema. Ed in un certo senso lo era: per il costo finanzia- rio dell’operazione, che ad un’amministrazione più avveduta e sagace pare sarebbe bastato per ricostruire davvero i paesi, e per gli effetti che le baraccopoli avrebbero avuto su quelle popolazioni, non dissi- mili da quelli di una vera e propria “soluzione finale” in cui a una condizione di inedia e promiscuità e agli eventi naturali, particolar- mente inclementi in quella zona e in questi ultimi anni, veniva lascia- to il compito, più lungo ma ugualmente sicuro, dell'annientamento psicologico, morale e fisico che i lager nazisti più direttamente e sbri- gativamente esplicavano. Di fronte a questo stato di cose che da due anni si protrae e si ag- grava, sentiamo, come uomini e come siciliani, il dovere di rivolgere all’opinione pubblica mondiale e, per essa, agli uomini che la rappre- sentano, l’invito di una riunione a Gibellina nella notte tra il 14 e il 15 Gennaio 1970, nel secondo anniversario del terremoto; perché veda- no, perché si rendano conto, perché uniscano la loro proposta e de- nuncia a quella dei cittadini relegati nei lager della Valle del Belice, alla nostra. In un paese e con una classe di potere soltanto sensibile alla retori- ca, abbiamo bisogno di questa solidarietà, forse retorica, anche se vo- gliamo che alla riunione di Gibellina venga fuori un atto di accusa da 16
  • 17. I. Gibellina: storia dalla vecchia alla nuova cui lo Stato Italiano, il Governo, siano chiamati a discolparsi di fronte al mondo civile e ad uscirne. Perché ci sono tanti modi di conculcare la libertà, di opprimere, di destituire l’uomo dal diritto e dalla dignità: e uno di questi modi è quello che lo Stato e il Governo della Repubblica Italiana attuano nel- la Valle del Belice”. Sciascia, Guttuso, Zavattini, Caruso, Treccani, Cagli, Domiani, Zavoli, Corrao ed altri Sindaci della Valle del Belice Quindi l’attuale ricostruzione, risultato di un programma comun- que curato dall’ISES5 , ha comportato il trasferimento totale della po- polazione nella contrada salinella, in una lieve conca alla confluenza delle principali infrastrutture viarie, dove si estendevano le terre col- tivate dai contadini di Gibellina. Dalle Case Di Stefano (l’antica fami- glia proprietaria dei feudi e attuale sede della Fondazione delle Ore- stiadi), poste in alto, si ha una vista di insieme della nuova città, di- stesa a ventaglio con il tracciato dei viali, mostra il senso geografico della sua recente storia urbana in progress: l’estensione della piazze e il taglio delle strade; i nomi di siciliani illustri, scolpiti su cippi di tra- vertino, formano un unico grande libro di storia. Il sistema urbano è articolato in due grandi blocchi planimetrici disposti, in linee di mas- sima, in maniera simmetrica rispetto all’asse longitudinale est-ovest che intervalla zone residenziali a schiera con attrezzature pubbliche. Le arterie urbane principali e gli spazi di raccordo, cardini della città, convergono idealmente verso il punto più alto del colle. Un progetto, quello di urbanizzazione molto lento, travagliato e di- scusso attraverso i diversi convegni e incontri avvenuti dal Settamta agli anni Ottanta, nelle tendopoli, tra le baracche provvisorie degli abitanti. Si organizzarono anche mostre (come quella della città fron- tale di Consagra), proprio dentro le tende, per permettere a tutti di 5 La ricostruzione inizia con i programmi di trasferimento dell’ISES del 1968, approvati dieci anni dopo dal comitato tecnico amministrativo del provveditorato alle opere pubbliche, senza alcun piano editoriale di coordinamento. 17
  • 18. I. Gibellina: storia dalla vecchia alla nuova interagire con i progetti, con le idee, con quell’utopia tanto condanna- ta oggi, ma che ha dato lo spunto e l’entusiasmo per la ricostruzione. Dirà Corrao, in un suo intervento del 1979 intitolato “L’Arte non è superflua”, durante un convegno pubblico tenutosi a Gibellina il 15 Gennaio, in cui si discusse sui progetti in attuazione di alcune strut- ture architettoniche (come quelle di Quaroni, Venezia e altri): “[…] Il disordinato crescere della nuova città comporta il rischio della perdi- ta assoluta di identità e potrebbe farla apparire come il quartiere di periferia di una qualsiasi città. Da ciò la necessità di un ancoraggio alle proprie radici storiche e culturali. Il primo problema che ci po- niamo è quello di recuperare quanto è possibile della memoria della vecchia città distrutta per conservarne non il documento, ma la me- moria come fonte alla quale ci si possa richiamare perché l’uomo e la donna di Gibellina sentano che non sono nati improvvisamente in un deserto, che non vengano dal nulla o da una città calata dal cielo, sen- za una loro ragione e senza una loro propria collocazione storica e culturale. […]”.6 Le decisioni prese da Ludovico Corrao negli anni immediatamente successivi al terremoto risultano caratterizzate da un estremo reali- smo, da un’asciutta consapevolezza delle iniziative possibili e neces- sarie per interpretare ed indirizzare il sentire della gente di Gibellina senza tradirne attese e nuovi bisogni. Il realismo di Corrao si connet- teva ad una tensione allo stesso tempo etica ed estetica; un luogo dav- vero anomalo (Gibellina) rispetto alla sostanziale anonimia degli altri luoghi del Belice, o delle superfetazioni “in puro stile geometra” (se- condo l’irridente ma terribile definizione di Federico Zeri) di innume- revoli paesi e città, in Sicilia come nel resto d’Europa. Il problema cruciale a Gibellina è quello della Città, affrontando simultaneamente questioni come quelle dell’appartenenza ad un luogo e ad una cultu- ra, del progetto, del rapporto con il passato e col futuro. Perché la cit- tà può rendere liberi, in quanto “toglie la nostalgia”. Strana verità, ri- cordata da Consagra in un’intervista del 1967: “Avendo perduto l’ani- 6 Corrao L., L’arte non è superflua, in “Gibellina, ideologia e utopia” di La Monica G., ed. La Palma Renzo Mazzone, Palermo 1981, pp. 44-49. 18
  • 19. I. Gibellina: storia dalla vecchia alla nuova malità, la vita spontanea, non c’è altro che la città come possibilità di riprendere contatti con la naturalezza dentro se stessi. Dentro se stes- si che significa? Che tu ti rifletti con tutti i contatti umani che hai. Ora, la città dà il massimo di questi rapporti, la città ti toglie la no- stalgia, assorbe al completo la tua intelligenza, te la sfoga, te la ado- pera…”. A tal proposito Giuseppe Frazzetto racconta un importante episo- dio: “Di cosa avrebbero dovuto avere nostalgia, le due bambine che vidi una mattina del 1987 al Museo d’Arte Contemporanea di Gibelli- na? In un giorno qualunque, lontano dall’ufficialità delle inaugurazio- ni, visitavo una rassegna dedicata a Scialoja: una pittura che quasi tutti definirebbero difficile per i non esperti, priva di dati referenziali, mescolata di polvere di marmo o sabbia. Eppure, quella mattina nel Museo c’erano alcuni ragazzi, della Prima o Seconda Media di Gibelli- na; e sentii due di loro commentare liberamente i quadri. Una, con la goffa grazia dell’età, seguiva nell’aria, con la mano, le curve delle pen- nellate. Certo, quei commenti erano ingenui, e mischiati di lingua e di dialetto e di termini inventati o distorti: ma pensai, quella mattina, ed ancora lo penso, che le due bambine manifestavano un senso di ap- partenenza a quei quadri, una familiarità ed infine una comprensione che probabilmente anche molti miei studenti, e non pochi artisti adulti (per non parlare di qualche sedicente critico…) stentano ad avere. Quel genere di familiarità che può formarsi solo come risultato d’un permanere accanto a qualcosa con cui s’acquisisce Erfahrung, consuetudine, allenamento, e perfino identificazione – ed allora dav- vero sfumano i confini tra oggetto e soggetto, e le cose con cui ci si misura diventano anche la nostra misura, e della nostra misura”.7 La città viene ricreata seguendo questa “utopia necessaria”, rical- cando forse le ideologie illuministe, soprattutto nella volontà di ac- compagnare il cammino di una società con i lumi dell’arte e della cul- tura del suo tempo. 7 Frazzetto G., Gibellina, La mano e la stella, Ed. Fondazione Orestiadi, Alcamo (Tp) 2007, pag.5. 19
  • 20. I. Gibellina: storia dalla vecchia alla nuova In un certo senso Gibellina non si discosta dalla tradizione, dalla storia. La Sicilia annovera tantissimi esempi di ricostruzioni radicali di intere città, come Grammichele, Avola, importantissimi esempi di “città ideale” settecentesca; la pianta urbanistica idealizzata e visibile soltanto da un ipotetico punto di vista sovraumano, dall’alto o a volo d’uccello. Per non parlare di tutta la Val di Noto, completamente di- strutta con il terremoto del 1693 e ricostruita secondo l’ideologia estetica di allora, rifacendola completamente nei palazzi, nelle chiese e nella concezione urbanistica funzionale ai bisogni dell’epoca; ma questo non ha sicuramente evitato di regalarci oggi uno dei luoghi più inusuali del barocco europeo. I “giardini di pietra”, usando la defini- zione di Cesare Brandi. Si instaura così questa “fabbrica civica”8 che vedrà coinvolti non soltanto gli artisti e gli intellettuali che risposero all’appello del ‘70, ma anche le maestranze artigianali locali e gli stessi cittadini: “[…] Pagine di luce e frammenti di bellezza creati dagli artisti con i giova- ni, gli studenti, gli abitanti della città, dando vita a veri e propri labo- ratori a partecipazione collettiva […]”.9 “A Gibellina come sono stato attratto io così diversi artisti sono stati attratti per partecipare e rispondere a quella voglia di oltrepas- sare le soluzioni pratiche: l’estraniante oggetto utile delle necessità impellenti.” Pietro Consagra10 La pianta urbana fu chiaramente il primo intervento, ragionato in- sieme agli ingegneri dell’ISES, curato principalmente da Marcello Fabbri. Richiama una figura a forma di farfalla, dove al centro trovia- mo i luoghi e i servizi pubblici e da cui si snodano le residenze dei cit- tadini. La Monica, nel suo testo “Gibellina, Ideologia e Utopia”, ricon- duce l’idealizzazione della pianta ai concetti espressi nel libro di Ebe- 8 Cit. Bonito Oliva. 9 Pes A. - Bonifacio T., Gibellina dalla A alla Z, cat. del Museo d’Arte Contemporanea di Gibellina, Edizioni Comune di Gibellina e Museo Civico d’Arte Contemporanea, Gibellina 2003, pag. 20. 10 Consagra P. in Gibellina, Ideologia e utopia, La Monica G., pag. 53. 20
  • 21. I. Gibellina: storia dalla vecchia alla nuova nezer Howard, “L’idea della città giardino”11 , come deduzione di mo- delli anglosassoni scandinavi, presentando (e non senza qualche pun- ta di dissenso, soprattutto quando cita, come preambolo al discorso, una frase di Le Corbusier: “…l’architetto è un inventore, non un de- duttore…”) evidenti ed eclatanti esempi molto simili alla conforma- zione gibellinese. La pianta della città fu poi caratterizzata dagli innumerevoli inter- venti degli artisti, sia attraverso opere architettoniche sia attraverso sculture che crearono un preciso assetto spaziale: “[…] le sculture di Gibellina ovviamente non sono decorative; ma soprattutto, non sono preposte come forme da contemplare, piuttosto appaiono tappe d’una meditazione che allo stesso tempo vuole essere produzione dello spa- zio civico. Le sculture tentano (e certo non sempre riescono) di farsi spazio, di avere un luogo, a partire da un luogo e da uno spazio non ancora precisati, e la cui storicizzazione è in corso d’opera […]”12 . In effetti Frazzetto vede bene, attraversando Gibellina si attraversa uno spazio creato da evidenti fulcri che sono proprio le installazioni urbane, le sculture-spazio. Molti artisti interpretarono veramente il gioco della scultura come vettore di ulteriori movimenti “da e per” il luogo in cui intervenivano: l’installazione scultorea doveva creare dei contesti e degli spazi, anche futuri, che acquistassero dinamicità ed energia dalle opere stesse. La struttura scultorea diviene anche il punto di riferimento: mentre nella vecchia Gibellina le poche grandi strutture, insieme alle fontane e alle piazze diventavano il mezzo di orientamento non solo geografico ma anche civile e storico, nella nuova Gibellina sono gli interventi degli artisti a creare un flusso sto- rico, uno spazio in divenire, un riferimento che non incornicia nulla se non le azioni degli abitanti e il loro naturale divenire. Così come in un certo senso afferma Marcella Aprile riferendosi alle case di Gibellina: “Qui, nel nuovo paese, la casa esaurisce in sé tutte le componenti urbane, sia pubbliche che private; è l’unico ogget- 11 G. La Monica, Gibellina, Ideologia e utopia, pag. 10. 12 Frazzetto G., Gibellina, La mano e la stella, pag. 18. 21
  • 22. I. Gibellina: storia dalla vecchia alla nuova to capace di polarizzare l’attenzione degli abitanti. È la casa a stabilire le regole del gioco.”13 L’attuale aspetto di Gibellina è chiaramente l’evoluzione di un lun- go percorso di interventi e progetti che, come abbiamo detto prima, provengono da numerosi convegni e tavole rotonde. La prima urbanizzazione, quella che va dal 1971 al 1975 circa, vede sorgere già le prime architetture che caratterizzeranno lo skyline del- la nuova Gibellina come la Chiesa Madre di Ludovico Quaroni. La struttura viene costruita nella parte più alta della città, e funge da ele- mento culminante, da punto di riferimento spirituale degli abitanti. Un aspetto tradizionale della cultura siciliana viene esposto nell’uso delle forme, la sfera e il cubo, che (oltre ad essere intrise di evidenti significati metaforici come la materialità e l’aere, la razionalità e la fede) riportano alla memoria l’architettura arabo normanna, tanto diffusa nella Sicilia Occidentale e che diventano il simbolo di unione e scambio culturale tra diverse etnie (così come i presupposti di Gibel- lina, che vuole diventare una fornace Europea della cultura). Oltre la Chiesa viene costruito l’altro fulcro sociale, il Municipio, la sede dello stato. Gli architetti, Alberto Samonà, Giuseppe Samonà e Vittorio Gregotti, formulano una struttura che risente di un originale linguag- gio architettonico riconducibile all’architettura brutalista, nella ver- sione tutta italiana di quegli anni: un calibrato gioco di pieni e di vuo- ti, di luci e di ombre rimanda ad un’architettura che, pur nel suo ruo- lo di edificio emergente, dichiaratamente si oppone al monumentalismo che l’occasione progettuale avrebbe potuto richie- dere. Nel 1976 iniziano i lavori del Meeting e del Cimitero Comunale di Pietro Consagra, dove l’anno dopo verranno installate le porte e nel 1979 collocata la scultura di Mirko. 13 Oddo M., Gibellina la nuova, Attraverso la città di transizione, coll. Universale di architettura, a cura di Lorenzo Spagnoli, ed. Testo e Immagine, Chieri (TO) 2003, pag. 29. 22
  • 23. I. Gibellina: storia dalla vecchia alla nuova Nel 1978 Nanda Vigo, con la sua Tracce Antropomorfe, realizzerà un interessante luogo in cui si mescola il presente con la memoria: un’architettura a se stante, che crea uno spazio contemplativo ma nello stesso tempo dinamico, che raccoglie in sé l’azione contempora- nea ma anche la materia del ricordo, della storia. Nanda Vigo inseri- sce nel corpo della struttura elementi architettonici presi nella vec- chia Gibellina e ricontestualizzati in una nuova funzionalità comme- morativa. L’anno dopo, nel 1979, oltre ad altre numerose installazioni scultoree come quelle di Cappello, Messina e altre soluzioni originali come quella di Emilio Isgrò, Gibellina vede nascere il Museo Civico d’Arte Contemporanea, che raccoglie numerose opere d’arte contem- poranea di importanti nomi della cultura italiana e internazionale e la Chiesa di Gesù e Maria di Nanda Vigo, essenziale ma nello stesso tempo costellata da simboli che rispecchiano un lato molto arcaico e tradizionale della religione, come triangoli e quadrati che formano stilizzate icone bibliche come l’Albero della vita. Il 1980 vede a Gibellina la presenza di altre grandi figure intellet- tuali come Alberto Burri, che realizzerà una delle opere più emblema- tiche dell’arte contemporanea degli ultimi decenni, e Franco Purini con Laura Thermes che con la Casa del Farmacista apriranno la stra- da ad un progetto architettonico molto sperimentale e aperto all’a- vanguardia contemporanea: “L’Architettura è eminentemente costru- zione. È costruzione dell’idea, costruzione del progetto, costruzione dell’edificio, costruzione della città”14 . Un’architettura che condensa combinazioni generative che si presentano contemporaneamente sia come principi teorici che riguardano l’oggetto architettonico e l’ambi- to insediativo sia come dispositivo formale, capace di essere declinato a varie scale. Nel 1981 sorge a Gibellina la scultura che poi diverrà il simbolo della città, ovvero la Stella di Consagra, l’Ingresso al Belice. Ed è pro- prio la stella di Consagra che Frazzetto prende come punto di riferi- mento per iniziare il suo libro, “Gibellina, la mano e la stella”, argo- mentando un riferimento romantico alla Stella Polare di Goethe, che 14 Purini F., Le opere, gli scritti, la critica, Electa, Milano 2000, pag.101. 23
  • 24. I. Gibellina: storia dalla vecchia alla nuova in un suo appunto datato 21 Aprile 1787, racconta di esserne stato il- luminato durante una sosta proprio qui, nel trapanese15 . Consagra concepisce la stella come insegna luminosa della città e della valle in- tera, e ispirandosi proprio alle luminarie tradizionali montate per le stradine dei paesi durante le feste e le ricorrenze. Nello stesso anno, avviene anche il recupero delle Case Di Stefano che, da un esemplare progetto di Marcella Aprile, Roberto Collovà e Fulvio La Rocca, da uno stato di rudere vengono trasformate in uno spazio espositivo, inserendo una serie di soluzioni strutturali là dove la fabbrica era completamente distrutta. Del 1981 è il progetto per il centro di Gibellina di Oswald Mathias Ungers. Un altro importante edificio è Palazzo Di Lorenzo di Francesco Venezia che, come Nanda Vigo, recupera delle architetture della vecchia Gibellina per fonderle in una nuova concezione spaziale. Il palazzo diventa, attraverso un geniale incastro di piani e spazi, un percorso cronologico che va dalla memoria, dal passato, il cortile con la vecchia facciata recuperata dal- la vecchia Gibellina, al presente, verso aperture sulla valle e il paesag- gio contemporaneo che muta e si evolve in continuazione, trasfor- mandosi e apparendo sempre nella sua attualità allo spettatore che arriva a conclusione di questo percorso. Al suo interno, le sculture di diversi autori, collocate strategicamente in un rapporto funzionale con l’architettura, caricano ulteriormente il percorso di simboli e sug- gestioni che fanno parte della tradizione e del mito. Nel 1982 inizia il progetto Il Sistema delle Piazze di Purini e Ther- mes che verrà completato nel 1990, ma mai utilizzato, e nel 1984 il teatro di Consagra, che vedrà una costruzione a più riprese e ad uno stato attuale, a 28 anni di distanza, ancora incompiuto (ma si spera, ormai in via di ultimazione). Nel 1987 sorge la Torre Civica di Mendini, altro simbolo ormai della città che ne scandisce il tempo e lo spazio oltre a creare un altro punto di riferimento per l’orientamento nel nuovo tessuto urbano. 15 Frazzetto G., Gibellina, La mano e la stella, Ed. Fondazione Orestiadi, Alcamo (Tp) 2007, pag. 7. 24
  • 25. I. Gibellina: storia dalla vecchia alla nuova Si arriva quindi al 1990 con una delle ultime importanti strutture architettoniche di Purini e Thermes, ovvero Casa Pirello, che chiudo- no un primo intervento architettonico importante e massiccio nella città. Oltre a questo breve elenco che riporta gli esempi architettonici più eclatanti, dobbiamo aggiungere le innumerevoli installazioni scultoreo-spaziali che hanno contribuito, insieme all’architettura, a determinare lo spazio di Gibellina e la sua coordinazione tra funzio- nalità e fruizione sociale. I gibellinesi usano le sculture, se ne sono appropriati con quella fa- miliarità ingenua ma profonda che prima citavamo dal libro di Fraz- zetto. Come dice Purini: “L’interesse dell’esperimento di Gibellina, tenacemente voluto dal sindaco Ludovico Corrao, sta non tanto nella percentuale “statistica” di opere per abitante, superiore di gran lunga a quella di qualsiasi altra nuova città o parte di città e già di per sè se- gno di grande civiltà urbana, né nell’aver messo l’una accanto all’al- tra, e qualche volta l’una contro l’altra, differenti vicende della ricerca plastica contemporanea in Italia, come in un grande museo “en plen air”, ma di aver riproposto a scala di un intero insediamento il pro- blema del possibile “ruolo” dell’opera d’arte nella configurazione del- lo spaio urbano, riprendendo, evidentemente con alcune visibili ma ineliminabili incertezze, un filo spezzato dalle avanguardie”16 . 16 La Monica G., Gibellina, Ideologia e utopia, pag. 96. 25
  • 26. “È uno scenario piuttosto straordinario questo abbozzo di città abbandonata ai bordi di un villaggio e al margine dei secoli. Ho per- corso una metà dell’emiciclo, salito la gradi- nata del padiglione centrale, e per un pezzo sono rimasta a contemplare questi edifici co- struiti per fini utilitari e che non sono mai ser- viti a niente.sono solidi, esistono, eppure il fat- to di essere abbandonati li trasforma in un si- mulacro fantastico; di che cosa, non si sa.” Simone De Beauvoir17 17 De Beauvoir S., Una donna spezzata, ed. Einaudi, Torino 1999. 26
  • 27. II. Le realtà di oggi e la Fondazione Orestiadi II. Le realtà di oggi e la Fondazione Orestiadi “L’iniziativa di Ludovico Corrao non ha riscosso solo consensi, ma anche una serie di critiche rivolte soprattutto a due aspetti dell’opera- zione: una presunta estraneità delle opere d’arte e delle architetture alla cultura degli abitanti della città (secondo questa critica oggetti passivi di una volontà pedagogica e contraddittoriamente estetizzante calata dall’alto) e una mancata integrazione tra spazi urbani, edifici e opere d’arte. Sono critiche sulle quali occorre senza dubbio soffer- marsi, perché toccano in effetti questioni reali.” Franco Purini18 Gibellina si presenta al visitatore come una realtà sospesa: è una sensazione comune che si prova non appena si entra nel tessuto urba- no; anche se si è preparati e si conosce bene la sua storia, si rimane ugualmente “intimoriti” e nello stesso tempo eccitati dal complesso di sculture e strutture “inusuali” che si incontrano ad ogni traversa, ad ogni piazza. Nonostante si avverta un sentimento laboratoriale, del fare, che traspare dalle installazioni artistiche, esiste un sentimento di inquie- tudine dato non tanto dall’impatto delle opere sulla persona o sul luo- go, più o meno desolato, ma soprattutto sulla consapevolezza di un mancato divenire. Le opere studiate soprattutto per realizzare eventuali percorsi, probabili vettori non solo di spazi e soluzioni “vivibili” ma di tutta una società in via di sviluppo, generano quest’energia propulsiva che si sente, ma che ci spinge verso una dinamica sociale e urbana che non riscontriamo. Purtroppo non esiste una risposta diretta alla propulsione spaziale che queste opere si auguravano. Sembra quasi che le opere siano troppe, sprecate, in confronto alla reale necessità degli spazi e della 18 Oddo M., Gibellina la nuova, Attraverso la città di transizione, pag. 6. 27
  • 28. II. Le realtà di oggi e la Fondazione Orestiadi società stessa; sembra quasi che le sculture siano come grandi attori di un importante cast, ma che il film non sia mai stato girato. C’è da chiedersi perché, nonostante la città annoveri importanti in- terventi artistici, che vanno dall’architettura alla scultura, ci si senta all’interno di uno spazio povero, inquietante, desolato. Le risposte possono essere tante e si rischia di soggettivare troppo l’analisi, o ad- dirittura si rischia di cadere in una visione troppo breve in confronto a un argomento che deve essere visto in un arco di tempo molto lun- go, in quanto parliamo di una città in via di sviluppo e non di una scultura, per esempio, circoscrivibile e analizzabile nell’immediato. Di sicuro è importante riscontrare e dedurre le cause di questo sentimento comune, non solo nella gente comune ma anche tra gli addetti ai lavori. Le cause sono tante ma principalmente possiamo esporre i proble- mi riguardanti dati fondamentali di una città (come di un’opera d’ar- te): gli spazi e i tempi di fruizione. Si possono immaginare per esempio i ritmi di vita, di lavoro o di opportunità sociale, che potevamo trovare nella vecchia Gibellina, e che per forza di cose, in quanto gli abitanti sono rimasti gli stessi, ri- troviamo qui: la differenza di queste dinamiche è che qui si deconte- stualizzano; mentre il paesino della vecchia Gibellina, arroccato sulla collina di Roccatonda, poteva “giustificare” i tempi di una società prettamente agricola ed esclusa dai ritmi spazio-temporali delle città e della società moderna a loro contemporanea, cui questi ritmi sono come paralleli, sospesi nei confronti di un linguaggio imperante, quello delle opere d’arte contemporanea, un linguaggio che si espone nel nuovo tessuto urbano. Una pianta urbanistica rispecchia la storia, lo sviluppo della socie- tà, delle politiche e di tutto quello che riguarda la memoria di una co- munità all’interno di uno spazio e un tempo che la modifica ma che si relaziona lentamente e in modo contestuale ad essa. La città diventa quindi la parte integrante di una vita, di un modo di rapportarsi e di vedere le cose. Questo naturale scorrere del tempo e dello spazio è stato raso al suolo dal terremoto, e qualsiasi tentativo di ripeterlo non esiste più. 28
  • 29. II. Le realtà di oggi e la Fondazione Orestiadi Se Gibellina fosse stata ricostruita mantenendo gli stessi spazi per accogliere le stesse esigenze dinamiche della popolazione, oggi il pro- blema potrebbe essere indubbiamente differente. Potremmo avere una comunissima città come se ne vedono a migliaia in tutta Italia, o avremmo una città simile a Ragusa Ibla; infatti nel capoluogo ragusa- no il terremoto distrusse interamente la città medievale di Ibla, ma la differenza consistette nel fatto che, contrariamente a Gibellina, si mantenne lo stesso tessuto urbano ricostruendo sulle rovine dei pa- lazzi medievali le architetture nuove del barocco. Un po’ come se, a Gibellina, Purini e altri architetti avessero progettato i nuovi palazzi sulle fondamenta delle vecchie abitazioni, mantenendo gli stessi spazi vitali, ma mostrando un aspetto della storia contemporaneo a quello del terremoto. La cosa che provoca desolazione forse è proprio questa netta de- contestualizzazione tra esigenza e spazio, tra società e monumento internazionale. Mentre la Chiesa di Quaroni potrebbe rientrare attraverso le sue forme, la sfera e il cubo, in una tradizione figurativa siciliana, come la chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio a Palermo, la Torre Civica di Mendini è assolutamente altro: un enorme obelisco di cemento che rispecchia le forme, gli spazi e le inquietudini o le certezze di una so- cietà comunque lontana da quella dove sorge. Gli artisti e gli architetti che sono intervenuti a Gibellina sono pun- tuali testimoni del tempo contemporaneo che si esprimono attraverso un altrettanto puntuale linguaggio artistico. Ma gli artisti provengono da altre realtà, da altri punti di vista che manifestano problematiche internazionali, e non strettamente connesse al luogo. La presenza dell’arte contemporanea a Gibellina è uno squarcio improvviso nella realtà intellettuale internazionale, con i suoi pro e i suoi contro: da un punto di vista culturale la città è un incredibile la- boratorio di sperimentazione e colloquio tra le diverse esperienze cul- turali internazionali, dall’atro è un mondo parallelo alla società che lo abita; da un lato abbiamo le considerazioni e i dibattiti sull’importan- za o meno dell’utopia, dell’eccesso o del superfluo artistico, dall’atro la necessità di “ritrovarsi” da parte della popolazione; se esistono pro- getti e argomentazioni su come “pianificare” la nuova realtà urbani- 29
  • 30. II. Le realtà di oggi e la Fondazione Orestiadi stica e di conseguenza della società, dall’altra esiste la possibilità di crescere spontaneamente lungo percorsi fatti di avvenimenti che al- l’occorrenza del caso e degli avvenimenti si alternano nella storia. Perché c’è da dire che Gibellina oggi è il frutto di decisioni, di pianifi- cazioni a tavolino. La storia è quella decisa, non avvenuta per caso. Quando si parla di monumento, si intende nella sua specificità qualcosa che con la sua presenza espone la memoria di una realtà storica o di una data “scelta”. Qui è tutto monumento, l’intera città è una scelta a priori ed espone di conseguenza una storia decisa, impo- sta in ogni punto. Col terremoto l’abitante di Gibellina ha perso nelle case una me- moria spaziale, oggettiva, perché ogni struttura crollata, anche se fos- se stata ricostruita dov’era, mantenendo lo stesso identico aspetto, avrebbe espresso comunque un senso di apparenza, di falso, perden- do quella patina di storia e di ricordi che ogni abitante ne ha intriso le mura; le costruzioni non sarebbero mai state i testimoni della storia, ma delle quinte, dei fantasmi di esse stesse. Il problema quindi non sarebbe stato rifare le case uguali o ripro- porre Gibellina vecchia, per attuare una condizione morale, etica e culturale più giusta; la soluzione esatta, forse, si sarebbe potuta tro- vare applicando una concezione di ripristino degli spazi vitali della vecchia Gibellina, almeno per il centro della nuova città. Le nuove ge- nerazioni non avrebbero avuto difficoltà ad ambientarsi o a vivere i nuovi quartieri che si sarebbero sviluppati in periferia. Oggi Gibellina appare come la grande periferia di una qualsiasi città italiana, perché essendo state realizzate nello stesso periodo, hanno un concetto di sviluppo identico. Strade ampie e scorrevoli, distribuzione dei centri amministrativi e pubblici in spazi funzionali con le case abitative pri- vate... Una periferia è tollerabile nel momento in cui la si vede in un con- testo più ampio, come escrescenza attuale di una storia, di un vissuto cittadino ormai ben configurato nella comunità che lo abita. La strutturazione urbanistica contemporanea può apparire più o meno bella, più o meno funzionale, ma comunque rispecchia le esi- genze della società contemporanea. La periferia e le sue costruzioni comportano anche le inquietudini, i malesseri e le necessità spesso 30
  • 31. II. Le realtà di oggi e la Fondazione Orestiadi troppo povere della società contemporanea. Sicuramente non sta a noi giudicare, noi che viviamo nel presente e siamo attaccati al passa- to, alle nostre basi culturali e architettoniche, che comunque, a loro volta, apparivano ai nostri genitori altrettanto nuove come ci appaio- no le nostre periferie, dove siamo nati e cresciuti. Quindi Gibellina è necessariamente la traccia puntuale della nostra concezione contemporanea, il testimone di una cultura sempre più massificante, che non conosce luogo o storia locale, ma soltanto pro- blematiche relative ad una storia culturale universale, ideale, funzio- nale a priori, calata dal cielo all’improvviso, senza guardare le specifi- che esigenze. Gli abitanti di Gibellina non hanno accolto tutto questo, ma ne sono stati travolti, come una diga che cede e inonda intere valli; molti sono stati fiduciosi di non annegare ma di poter aggrapparsi a nuove prospettive. Altri hanno preferito abbandonare il paesaggio sommer- so da una nuova realtà, da un nuovo coinvolgimento non più locale, ma extraterritoriale, che andava ben oltre i limiti geografici delle col- line. Rimane quindi questo importante patrimonio culturale che deve essere vissuto, che sicuramente col tempo sarà fruito in maniera più intensiva, ma con i suoi tempi, quelli che richiedono la formazione di una città. Le architetture, le installazioni e tutto quel corredo intellettuale che in questi quarant’anni ha stabilito le vie di sviluppo della nuova città, sono il giusto perno per prospettive ben auguranti. Analizzare la situazione da un punto di vista del presente significa soltanto asse- condare paradossalmente la vera Utopia, che è quella di andare a ri- proporre la vecchia Gibellina, che non esiste più, decontestualizzata dal presente e dalle dinamiche culturali contemporanee. Se riusciamo ad accettare la realtà urbanistica di Gibellina, possia- mo allora poter vedere meglio perché persiste questo senso di inquie- tudine. Gibellina è un paese che ospita poche migliaia di abitanti, appena cinquemila, ed è facile passeggiare quindi anche per strade deserte; ma quello che ci aspettiamo è anche il turismo che una situazione ar- tistica come questa meriterebbe. Il turismo (e andrebbe bene anche 31
  • 32. II. Le realtà di oggi e la Fondazione Orestiadi quello di massa) movimenterebbe il paesaggio urbanistico e nello stesso tempo aiuterebbe in qualche modo a sviluppare l’economia lo- cale. Gibellina merita un riconoscimento turistico, culturale, ma manca completamente da parte degli abitanti la propensione ad un tipo di investimento in questo settore: un atteggiamento che frene- rebbe la migrazione verso altre città per favorire l’economia e l’urba- nizzazione locale. Le ragioni dell’assenza di una rete turistica sono dovute alla man- canza di alberghi, di zone ricettive per numerose comitive, ma soprat- tutto alla difficoltà di rientrare negli itinerari costituiti da centri mol- to vicini come Selinunte, Segesta, Palermo, Monreale, Trapani, Mar- sala, Mazara del Vallo, San Vito Lo Capo e altri ancora. Il turismo di Gibellina è cosiddetto di “nicchia”: di addetti ai lavori, di studenti, di ricercatori, di appassionati d’arte contemporanea o di gente che comunque è venuta a conoscenza del fenomeno e che per vero interesse o semplice curiosità si viene a sedere sotto la Torre Ci- vica di Mendini. Gibellina offre per conto suo molte soluzioni culturali: decine e de- cine di interventi artistici site specific, strutture di importanti archi- tetti contemporanei e un Museo Civico d’Arte Moderna e Contempo- ranea. Un’offerta molto ricca, ma oggettiva, perché Gibellina è “fatta ad arte”, e comunque particolarmente statica. Il Museo Civico, ad esempio, vede la sua raccolta allestita all’inter- no di una struttura che avrebbe dovuto accogliere una scuola media, a un piano con spazi funzionali alla vita scolastica ma sicuramente non a un allestimento museale. Questo problema strutturale influisce molto dal punto di vista scientifico e fruitivo. Il Museo assomiglia molto di più a una raccolta alla rinfusa di opere d’arte, decontestua- lizzate da un percorso critico di qualsiasi genere; una sorta di riposti- glio di opere d’arte. Nonostante tutto, non si può rimanere impassibi- li davanti all’importanza delle opere che comunque affiorano dal di- sordine espositivo: opere di Mimmo Rotella, Boetti, Vedova, Guttuso e una grande aula (la palestra) dedicata alle grandi tele realizzate da Mario Schifano a Gibellina. Un altro deficit del museo consiste nel fatto che difficilmente si al- lestiscono mostre temporanee, che movimenterebbero l’offerta scien- 32
  • 33. II. Le realtà di oggi e la Fondazione Orestiadi tifica e di ricerca culturale. Il problema è derivato anche da involonta- ri ostracismi tra la struttura museale e le istituzioni pubbliche più in- teressate a investimenti di breve termine. Il Museo Civico di Gibellina ha nella sua collezione d’arte contem- poranea delle enormi potenzialità culturali ed economiche: difficil- mente si riesce a visitare un luogo con una così alta concentrazione di opere d’arte contemporanea di questa caratura. La politica del Museo dovrebbe basare tutte le forze sulla curatela dell’allestimento (visto che un’altra struttura significa parlare solo di “utopie”), sulla qualità del servizio informativo e su un programma di mostre e collaborazio- ni con artisti contemporanei come i workshop a tema (come a ricrea- re una situazione concettuale molto simile ai presupposti collaborati- vi tra gli artisti e Gibellina nuova). L’istituzione che invece riesce in qualche modo a trainare il pano- rama culturale di Gibellina è la Fondazione Orestiadi. L’“Istituto di Alta Cultura Fondazione Orestiadi Onlus” fu costitui- to nel 1992 con la donazione Corrao, nel tempo arricchita da ulteriori donazioni e acquisizioni e ha proseguito in un certo senso l’esperien- za culturale iniziata nel 1968 proprio dal Senatore Corrao, con gli ar- tisti chiamati a Gibellina dopo il terremoto. Nella sede della Fondazione Orestiadi, il Baglio Di Stefano (ex struttura baronale e ristrutturato dopo il sisma del 1968 su progetto di Marcella D’Aprile, Roberto Collovà e Teresa La Rocca), sono rap- presentati anche la Regione Siciliana, la Provincia Regionale di Tra- pani e il Comune di Gibellina. Dal 26 Giugno 2000, la Fondazione ha nel palazzo Dar Bach Ham- ba, nel cuore della medina di Tunisi, un ulteriore spazio in cui svolge- re le proprie attività. Dar Bach Hamba ospita un’esposizione perma- nente improntata alle linee guida del Museo delle Trame Mediterra- nee di Gibellina e frequenti iniziative, nell’ottica di un confronto fra artisti di diverse culture. Il Baglio Di Stefano ospita nella casa baronale il “Museo delle Tra- me Mediterranee”, istituito nel 1996 e che raccoglie nelle sue sale co- stumi, gioielli, tessuti d’arte, ceramiche e oggetti d’arte di popoli e culture dell’area mediterranea: Sicilia, Egitto, Tunisia, Palestina, Ma- 33
  • 34. II. Le realtà di oggi e la Fondazione Orestiadi rocco, Spagna, Algeria, Albania e tutte le la nazioni comprese nel ba- cino. Il direttore del museo, Enzo Fiammetta, descrive così l’esposizione del museo: “Il museo/officina è l’approdo di anni di ricerche, incon- tri, dibattiti, studi e seminari promossi dalla Fondazione Orestiadi, ma è tuttora un’idea guida, un’idea limite, la cui forza risiede nel suo carattere transnazionale e interdisciplinare”. Il “segno” e la “forma” caratterizzano due delle sezioni del percorso espositivo. Nella prima è possibile leggere attraverso l’accostamento degli oggetti di diversa provenienza e di differenti periodi, l’evoluzio- ne dei principali motivi decorativi che hanno caratterizzato lo svilup- po dell’arte e dell’artigianato mediterraneo. I motivi dell’arabesco, della scrittura e della pseudo scrittura, delle geometrie intrecciate, rielaborati e diffusi in Occidente dagli arabi, sono utilizzati come ele- menti per una lettura comparata. Nel confronto tra oggetti di differente provenienza, periodo ed uso, si sono cercati i tratti comuni e i percorsi storico artistici paralleli, con la possibilità di leggerne la permanenza dei motivi decorativi nel tempo e le varianti. La sezione delle “forme” conserva ceramiche arabe, siciliane e spa- gnole del XIX secolo, che confrontate con brocche, idrie, vasi preisto- rici e medievali dichiarano la comune origine e permanenza di mo- dello. “La Sicilia è sempre stata luogo di incontro di popoli, di sperimen- tazione di linguaggi. Questa peculiarità ha sempre caratterizzato la sua storia economica e artistica. Sembra a noi che oggi, l’attuale si- tuazione, caratterizzata da profonde migrazioni, possa presentare ca- ratteri simili; la Sicilia e l’Italia possono tornare a essere luogo di in- contro, di passaggio di popoli, di sedimentazione e rielaborazione di elementi” Enzo Fiammetta19 L’attività culturale della fondazione “Orestiadi” di Gibellina non si risolve soltanto nell’esposizione di mostre d’arte figurativa e arte ap- 19 Parole tratte dall’intervista ad Enzo Fiammetta durante la mia visita alla fondazione delle Orestiadi nel mese di Settembre 2009. 34
  • 35. II. Le realtà di oggi e la Fondazione Orestiadi plicata del mediterraneo, ma anche nell’organizzazione di eventi tea- trali o musicali. Ogni anno vengono invitati dalla fondazione importanti registi e compagnie di spettacolo per esibirsi a Gibellina. Come scenario viene spesso usato il Teatro del Grande Cretto, ovvero lo spazio attiguo al- l’opera di Alberto Burri o, spesso e volentieri, anche le placche di ce- mento usate come veri e propri palcoscenici. Il concetto è quello di creare un collegamento forte tra la tragedia umana, reale, e quella della finzione, dell’idea, del dramma. In occa- sione degli spettacoli teatrali e musicali vengono allestite di volta in volta scenografie nate dalla collaborazione di altrettanti artisti con- temporanei con i registi e gli sceneggiatori. Si vengono a creare in questo modo opere inusuali, emblematiche, che nella maggior parte dei casi rimangono come opere in se, a pre- scindere dalla loro funzionalità scenica. Così ad esempio rimane la montagna di sale di Mimmo Paladino (adesso installata nel Baglio Di Stefano e sostituendo il sale ad una colata di cemento bianco), le macchine teatrali di Pomodoro (autore di diverse scenografie a Gibel- lina), e tutto quel comparto artistico come manifesti, schizzi e proget- ti che accompagnano le opere teatrali o musicali per diventare poi og- getto di esposizione nel museo della fondazione. Lo sconfinamento e lo scambio, la conferma di un’ attitudine so- cratica che trova il proprio valore nel dialogo, lo si ha negli Atelier del Baglio Di Stefano. Atelier risponde a un progetto di sensibilizzazione territoriale sul- l’intera geografia mediterranea, con la possibilità di soggiorno creati- vo per artisti di diversi paesi a Gibellina, Tunisi o in altri luoghi gesti- ti dalle Orestiadi. Attraverso gli atelier, l’artista ha la possibilità di soggiornare a Gi- bellina e lavorare a stretto contatto con la terra e i luoghi con cui do- vrà dialogare; perché il concetto che si vuole focalizzare è quello del dialogo tra artista e società locale, tra le problematiche contempora- nee, che vanno dall’estetica alla politica, dalla semiotica alla religione, al confronto con i giovani e le generazioni future di Gibellina. La fon- dazione ospita esplicitamente un’officina non solo culturale e artisti- ca, ma anche sociale. Il processo creativo dell’artista subisce e in- 35
  • 36. II. Le realtà di oggi e la Fondazione Orestiadi fluenza il luogo in cui si viene a determinare, contamina e viene con- taminato dal genius loci: un’ampia dialettica tra l’antropologia esi- stenziale dell’artista e quella riguardante la geografia del posto. Per una maggiore apertura e un autentico pluralismo culturale non esistono fasce generazionali protette e nemmeno poetiche di artisti privilegiati. Ancora una volta le Orestiadi promuovono un’attività che gioca sul doppio versante della presenza operativa dell’artista e la permanenza finale di opere che testimoniano il suo passaggio. Emerge chiaramente un ulteriore valore, quello di un multicultura- lismo che ha sempre sostenuto la strategia diffusiva della Fondazione Orestiadi: un ventaglio di stili, tecniche e materiali, portatori tutti di una creatività tesa a cogliere anche lo spirito del nostro tempo. Prevale alla fine un nomadismo culturale che da fertilità alla pre- senza di opere per nulla statiche, capaci invece di bucare il territorio, aprirlo a sorprendenti corto-circuiti che arricchiscono la conoscenza dell’arte e della problematica realtà che ci circonda. “Ecco un modo di far parlare una lingua universale a un’arte con- temporanea che, attraverso il processo creativo, trova la possibilità di sviluppare nuove lunghezze d’onda di conoscenza e una ulteriore spe- ranza per le ultime fasce generazionali di giovani aperti all’arte, che sembra rappresentare l’unica apertura sul futuro.” Achille Bonito Oli- va 20 La fondazione delle Orestiadi rimane quindi, oltre a un importante museo d’arte contemporanea (appunto la donazione Corrao, costella- ta da importanti e numerose opere di altrettanti artisti moderni e contemporanei e allestita tra il Granaio e il Museo di Arte Applicata) e un importante centro di scambio culturale col Museo delle Trame Mediterranee, anche una interessante “officina artistica”, unica nel suo genere, che dinamizza il panorama culturale non solo regionale ma anche a livello internazionale. Le opere che vengono create negli atelier, con i laboratori e quindi gli scambi tra artista e luogo, artista e giovani generazioni, sono il frutto di un importante dialogo e di un processo intellettuale molto importante e stimolante; in generale, un 20 Oliva A.B., Ateliers, catalogo della Fondazione Orestiadi, Gibellina 2006, pag. 12. 36
  • 37. II. Le realtà di oggi e la Fondazione Orestiadi esempio di museo dinamico e all’avanguardia che propone soprattut- to il processo creativo vero e proprio, con la possibilità non solo di entrare all’interno delle dinamiche intellettuali che creano l’oggetto artistico, ma anche di esserne coinvolti nella strutturazione del suo linguaggio. Allo spettatore si dà quindi l’opportunità di studiare il fe- nomeno creativo in relazione a un tema e a un’idea relativa al luogo, allo spirito geografico in cui si trova e con tutte le problematiche rela- tive, dall’etica alla morale, dalla politica alla religione, dall’estetica al mito... Gibellina oggi è quindi una realtà ancora dinamica, sia dal punto di vista critico che da quello artistico vero e proprio. Esiste una situa- zione artistico-architettonica importante, con altrettante collezioni d’arte contemporanea, ma soprattutto con un fenomeno dinamico come quella della Fondazione delle Orestiadi, che traina le vicende culturali di Gibellina e di un interessante aspetto dell’arte contempo- ranea, ponendosi come luogo d’accoglienza alla sperimentazione e al dialogo. 37
  • 38. […] A Gibelina esiste l’unico esempio in Ita- lia in cui l’arte contemporanea si confronta con la società. Mentre altrove, fra le opere nei musei si svolge un rapporto istituzionale, qui partecipa direttamente, perché non manda (l’artista) il quadro e lo “mettiamo”, no, lo fa qui, lo realizza qui, ascoltando sentendo, pas- so per passo, la terra, le persone, gli umori, il teatro…[…] Ludovico Corrao21 21 Tratto dall’intervista a Ludovico Corrao in occasione della mia visita alla Fondazione Orestiadi a Gibellina nel mese di Settembre 2009. 38
  • 39. III. L'artista si mette in gioco III. L'artista si mette in gioco La ricostruzione di Gibellina è stata di per sé un fenomeno raro: la possibilità per l’amministrazione di pianificare un’intera città, medi- tando sulla pianta e sulla sua funzionalità, sulla possibilità di avere a disposizione vari intellettuali tra artisti e architetti è stata una situa- zione ideale, una possibilità che ogni singolo attore del panorama cul- turale ha sempre ipotizzato e sognato. Gibellina ci appare quindi come un progetto aperto, un cantiere in via di sviluppo, con i presupposti lungimiranti che si rivolgono al dia- logo tra artista e società, con un antico rapporto socio-culturale risco- perto e ancora se possibile più diretto; l’idea di Ludovico Corrao è stata quella di calare la cultura tra la gente, con tutte le sue proble- matiche del sociale e per il sociale. Ma a Gibellina un altro fenomeno unico è anche quello dell’atteg- giamento dell’artista nei confronti di una problematica linguistica più attenta ad un effettivo aspetto funzionale dell’opera d’arte. L’oggetto artistico per Gibellina non nasce con, all’interno del processo creati- vo, aspetti riguardanti il mercato o la fruizione d’élite, ma secondo esigenze narrative più generali, più “utopiche”, ma paradossalmente più vicine a una larga schiera di fruitori su più livelli; in poche parole, l’artista si cimenta nella realizzazione di un oggetto che sia di imme- diato impatto emotivo, linguistico e metaforico, e che riesca ad arri- vare a qualsiasi individuo, a prescindere dal bagaglio culturale che esso ha. Non sempre il risultato riesce a soddisfare questa idea, ma perlo- meno il prodotto artistico suggerisce sempre questa analisi dell’arti- sta attraverso l’uso di un linguaggio inusuale rispetto al proprio ope- rato tradizionale. L’autore che sviluppa il suo linguaggio artistico e lo divulga attra- verso una rete espositiva più o meno pubblica, ma che rimane preva- lentemente esposto in una rete (soprattutto commerciale) che è co- munque d’élite, di un pubblico che è già preparato a ricevere un lin- guaggio sperimentale più o meno efficace, si trova a dover creare 39
  • 40. III. L'artista si mette in gioco invece a Gibellina un oggetto “a priori”, che non tenga conto fonda- mentalmente né del mercato, né di un pubblico privilegiato o interes- sato. Gli artisti che hanno risposto all’appello di solidarietà di Corrao & Co. vennero man mano a Gibellina, girando il neo tessuto urbano e scegliendo il punto in cui avrebbero voluto installare il loro interven- to artistico. Una scelta basata sicuramente su un proprio bisogno di fondere la funzionalità linguistica di espressione in rapporto allo spa- zio scelto. Un rapporto, un dialogo tra spazio e linguaggio che per- metta lo sviluppo di ulteriori spazi e problematiche estetiche e vetto- riali su cui riflettere e ragionare. Per Alberto Burri per esempio, il bisogno fu quello di andare oltre la Gibellina Nuova; prima gli fecero visitare la nuova cittadina, dove già esistevano importanti installazioni e architetture, come quelle di Quaroni e Consagra, ma decise che lì non c’era spazio per lui: “Qui non ci faccio niente di sicuro”. Non riusciva a immedesimare la sua idea in quel luogo. Fu portato allora nella vecchia Gibellina e guar- dando i ruderi capì come doveva intervenire. La sua idea fu quella che poi lo portò a realizzare il Grande Cretto: “Mi veniva quasi da piangere e subito mi venne l’idea”22 . L’opera di Alberto Burri, realizzata in collaborazione con l’architet- to Alberto Zanmatti, è ancora oggi una delle opere più grandi al mon- do: dodici ettari di cemento che si estende sul vecchio sito distrutto di Gibellina. Le placche di cemento bianco, che si mantengono su un li- vello non più alto di due metri, inglobano le masse di detriti ricavati dai ruderi delle case distrutte, simulando con la loro forma la materia dei cretti, le superfici secche, screpolate, come se ne possono trovare in natura o nelle craquelure delle superfici pittoriche. In questo caso, i solchi del Grande Cretto, che dividono le placche di cemento deli- neandone le sagome, coincidono per buona parte con le vecchie stra- de di Gibellina. 22 Zorzi S., Parola di Burri, ed. Allemandi, 1995. 40
  • 41. III. L'artista si mette in gioco Una sorta di enorme sudario, in cui all’interno delle placche di ce- mento riposano i ruderi, le macerie della vecchia Gibellina, percorri- bile all’interno come un labirinto. È innegabile l’incredibile impatto emotivo che un’opera del genere riesce ad imprimere nello spettatore: chiunque arrivi davanti al Gran- de Cretto prova una sensazione di profonda inquietudine, di silenzio e di riflessione. Si è immersi all’interno della collina, in mezzo al nul- la, ma di fronte ad un segno così imponente che difficilmente lascia indifferenti. Una cosa molto importante di questa operazione artisti- ca di Alberto Burri è proprio l’unanimità comportamentale nei sui confronti. Nel bene o nel male il Grande Cretto ottiene un importante reazione; sicuramente conseguenza di qualcosa che comunque arriva dai tanti significati etici, morali e linguistici contenuti nell’opera. È un segno, al di fuori da qualsiasi referenza commerciale o propa- gandistica: il grande cretto è quindi una presa di coscienza dell’artista che insegue un livello di comprensione delle cose al di sopra di qual- siasi dinamica estetica. “[…] esso (il cretto) è fuori dal sistema (e dal sistema artistico), dalla certezza di appartenere ad un’estetica. Innesca piuttosto la refe- renza trascendentale dell’arte senza immaginarsi nell’imbuto polifun- zionale della comunicazione svalutando l’angolazione moderna intesa come estetica e progetto estetico di intervento sul mondo.[…]” Italo Tomassoni23 Nell’ambito della sua lunga produzione artistica, Alberto Burri ha ricercato sempre di più il dialogo tra materia e spazio, ovvero la for- ma come icona di una concezione spaziale ben definita, o che comun- que richiamasse ulteriori problemi relativi al rapporto tra questi due elementi. Una sorta di meditazione profonda sull’ontologia formale e sui suoi significanti attraverso opere sempre più grandi, laconiche e austere. Il Grande Cretto, diventa un atto finale, il capolinea se vo- gliamo di un lungo percorso, un magistrale esempio della ricerca di 23 De Simone G., Farina G., Fazzi S., Alberto Burri nel panorama della Land Art internazionale, atti del convegno, Gibellina 9 e 10 Ottobre 1998, Edizioni Museo Civico d’Arte Contemporanea, Gibellina 2004, pag. 93. 41
  • 42. III. L'artista si mette in gioco Alberto Burri. Ma l’opera presente sui ruderi di Gibellina è un plauso alla sua opera all’interno della società, dei suoi drammi e della sua stessa spiritualità etica. Una prova finale che si immerge nella realtà del caos acquistando un valore artistico universale. Il Grande Cretto non sarebbe quello che è se non esistesse sui ruderi di Gibellina. Non a caso il Cretto è stato indicato come un culmine dell’epoca; il cretto è un “sudario che normalizza in uno spasmo raggelato la trage- dia di un popolo e di una terra”, ha scritto Carlo Pirovano, opera “quasi insostenibile nella sua secca laconicità”. L’opera di Burri offre sicuramente analisi critiche trasversali, come quelle che vanno dalla Land Art (involontariamente sorte e rifiutate dall’artista stesso), e quindi il rapporto tra artista e spazio e la modifi- cazione di quest’ultimo come “antropologizzazione semantica del luo- go”, a ingenui riferimenti linguistici con le opere precedenti di Burri, ma Il Grande Cretto non si limita a problematiche autoreferenziali, come opera a se stante, estrapolabile dal luogo, ma anzi il luogo ne determina ulteriori concetti e il suo stesso motivo di essere. Il Grande Cretto, ragionando per assurdo, non potrebbe essere esposto in un museo, in una struttura neutra adibita alla fruizione e allo studio. Le placche del cretto, sudari di una realtà materiale, contengono al loro interno la memoria tangibile della storia: i ruderi della vecchia Gibellina. Il colore bianco, della grande superficie in cemento, rispec- chia la luce, segno oggettivo del tempo; la luce, a sua volta, rivelando le cose ne incide il tempo, usurandole. I solchi del grande cretto di- ventano quindi la rivelazione del tempo, della storia, la traccia della memoria. Sono i percorsi del cretto i testimoni della memoria che coincidono con le vere strade della vecchia Gibellina. Le ombre della luce, il labirinto di segni che delineano le placche del grande cretto, decidono il tempo della storia e l’impatto monumentale che Burri ha deciso di registrare ai posteri. Così come la luce e il suo calore attua un processo corrosivo sulla terra (e non a caso molti territori della Sicilia sono caratterizzati da questi fenomeni climatici), che si spacca e si crepa mostrandoci le sue viscere, la sua sedimentazione, la sua storia, Burri decide di presen- tarci il cretto, ovvero la luce (come presente), simboleggiato dalla su- 42
  • 43. III. L'artista si mette in gioco perficie di cemento bianco (segno di conoscenza culturale dell’artista, contenitore consapevole delle rovine, testimonianze a sua volta della tragedia storica), rivela le ombre dei solchi (il passato, il ricordo della tragedia), l’entità dell’azione temporale sulla materia. La superficie di cemento bianco si spacca mostrando dei solchi che si fermano nel momento in cui coincidono con la larghezza stessa delle vecchie stra- de di Gibellina, il simbolo della civilizzazione, linee che fanno riemer- gere i percorsi tangibili di una società; un “labirinto della storia” da percorrere non solo mentalmente ma fisicamente. L’azione corrosiva della luce, congelata consapevolmente da Burri col cemento, rivela il tempo di quella memoria, quella di Gibellina. Il Cretto di Burri diventa un monumento emblematico in cui dialo- gano il tempo e lo spazio, entrambi elementi esposti come icone reali, nella loro veridicità tangibile. La luce reale, che viene “esposta” dal ri- flesso bianco del cemento, simbolo del presente, del tempo che conti- nua inesorabile, e l’evidenziazione del suo negativo, l’ombra, l’usura, il passato che poi è la traccia della luce stessa; come a dire che il pre- sente è continuo figlio del passato, della memoria. E a cosa serve un monumento se non a ricordare la storia, quello che si decide di conservare di una vecchia civiltà da parte di quella contemporanea? Così il Cretto di Burri si impadronisce, oltre che del- la luce e, quindi, del tempo, anche dello spazio, quello storico della vecchia Gibellina, in tutta la sua estensione: uno spazio che contem- pla materialmente quello che è stato e che non sarà più. Il cemento non poteva contenere solo una parte delle macerie, perché non avreb- be ottenuto lo stesso principio universale avuto con la luce e il tempo; non avrebbe ottenuto lo stesso dialogo linguistico e semantico tra gli elementi estetici e storici. Esiste quindi una relazione tra spazio e tempo elaborata su più li- velli: ogni elemento che costituisce il grande cretto, dagli effetti della luce, alla dimensione dello spazio su cui si estende, dal colore al con- tenuto delle placche di cemento, diventa complice di una complessa ma chiara trama di concetti e simboli, metafore o semplici segni mo- numentali. Il Grande Cretto diventa un’opera che ha un contesto ben preciso, una natura e una storia unica; l’opera di Burri è un punto preciso del- 43
  • 44. III. L'artista si mette in gioco l’universo in cui diverse esperienze e diversi vettori si sono interseca- ti. Così come Alberto Burri, altri artisti a Gibellina si sono immedesi- mati in opere pienamente contestuali o addirittura inusuali al loro linguaggio espressivo comunemente esposto in musei e gallerie. Uno di questi è il calabrese Mimmo Rotella, il cui intervento gibellinese ne risulta un valido esempio. Forse si può accertare come un vanto, per Gibellina, quello di an- noverare la grande scultura in pietra di travertino, dipinta ad acrili- co, intitolata Omaggio a Tommaso Campanella, come un exploit più unico che raro da parte dell’italianissimo esponente del Nouveau Realisme. Nel 1987 Mimmo Rotella, famoso già per la sua ricerca sul concet- to di sedimentazione temporale, sul ready made “informale”, sul ge- sto che svela la casualità dell’azione e della forma stessa, rintraccian- dola ed esponendola dal caos del contemporaneo, come gli oggetti di comunicazione prettamente commerciale come i manifesti pubblici- tari, espone una scultura, spostandosi nettamente da un linguaggio che a priori si argomentava nelle due dimensioni, a una realtà materi- ca ben evidente come quella tridimensionale della scultura. Mentre Rotella ci ha abituati ai suoi ready made, ovvero strati di manifesti incorniciati, il cui aspetto formale e cromatico è la conseguenza di un gesto che “trova”, che “strappa” le sedimentazioni in modo casuale e caotico, qui lui elabora una forma, un monolite circolare che riporta un fregio piatto, scavato. Diventa quindi un’operazione inusuale se si pensa che la concezio- ne artistica di Mimmo Rotella nasce da concezioni informali e cioè del libero arbitrio casuale della materia in relazione con lo spazio che la contiene, quando esponeva cioè il retro dei manifesti la cui superfi- cie riportava la densità cromatica e fisica della colla che intrappolava materia organica e intonaco dei muri da cui era stato strappato il ma- nifesto. Una “casualità scelta” che diventa il segno di una consapevo- lezza del tempo ben definita, un ready made del contemporaneo più esposto a problematiche classiche e poetiche; un segno che comun- que si connota nell’azione del levare e dello scoprire. 44
  • 45. III. L'artista si mette in gioco Qui Mimmo Rotella toglie, perché si tratta di una scultura nel sen- so classico, ma la forma del blocco e la forma del bassorilievo è una scelta a priori ben studiata: non si espone cioè la casualità del “ready made trovato”. Persino le pennellate di acrilico che colorano la scultura non sono conseguenza di una casualità trovata, ma di un insistente gesto che definisce e materializza definitivamente le superfici del bassorilievo. Sul monolito di travertino, rotondo, di un diametro di circa tre me- tri con uno spessore di sessanta centimetri, è scolpito, attraverso sca- nalature di superfici piatte, un sole, e tutta la sua superficie è dipinta con pennellate puntiformi di colore giallo e pennellate azzurre e ocra bruciata marcano le linee circolari e perimetrali del bassorilievo. Un grande sole giallo, ocra e azzurro, simbolo della Sicilia e del Mediterraneo, che diventa l’astro da seguire per un’idea, un’utopia di città ideale. Infatti il simbolo astronomico del grande sole è un esplicito riferi- mento all’opera filosofica scritta nel 1602 da Tommaso Campanella, “La Città del Sole”. “Sorge nell’alta campagna un colle, sopra il quale sta la maggior parte della città; ma arrivano i suoi giri molto spazio fuor dalle radici del monte […] dentro vi sono tutte l’arti, e l’inventori loro, e li diversi modi, come s’usano in diverse regioni del mondo”24 . Così, nelle prime battute del suo testo, il filosofo calabrese descrive la città ideale che agli occhi di Mimmo Rotella (ed è difficile biasimarlo) assomiglia molto a Gibellina, non solo per le realtà artistiche che lui trova nella nuova città, visto che nel 1987 erano state già installate diverse opere d’arte e architetture importanti, ma soprattutto per gli intenti cosid- detti “utopici” portati avanti da Ludovico Corrao e da tutti quelli che hanno aderito all’iniziativa culturale. Il testo di Campanella rappresenta il grande fermento culturale, politico e sociale di quegli anni: è il risultato concreto di una grande aspirazione al cambiamento, al rinnovamento della società dell’epo- ca. Gibellina viene affiancata ideologicamente a questa aspirazione di 24 Tommaso Campanella, La Città del Sole, 1602. 45
  • 46. III. L'artista si mette in gioco cambiamento, di rinnovamento, di prospettive verso nuovi presuppo- sti culturali e sociali. Ulteriore elemento concettuale che Mimmo Rotella esprime attra- verso il riferimento all’opera di Tommaso Campanella è anche la ri- valsa culturale, politica e sociale di cui il testo si fece carico e per cui lo steso filosofo fu condannato a morte e incarcerato a vita; pochi mesi prima della stesura del libro, Campanella organizzò una congiu- ra che mirava alla liberazione della Calabria dal dominio spagnolo, all’abolizione della proprietà, all’instaurazione di una democrazia di tipo comunistico e teocratico, proprio come esposta nelle pagine della Città del Sole e sostanzialmente molto simile alla storia delle lotte contadine di Gibellina, dalla liberazione del latifondo e delle proprie- tà baronali. L’omaggio a Tommaso Campanella diventa quindi la stessa Gibel- lina vista come idea utopica concretizzata, la nuova città siciliana che per Rotella si candida come potenziale esempio reale della filosofia del Metafisico. Anche in questo caso, come in quello di Burri, Rotella crea un’ope- ra d’arte specifica, spiegabile soltanto in quel determinato contesto geografico, culturale e politico, come il risultato di diverse somme av- venute tra formulazioni concettuali, filosofiche ed esperienze indivi- duali lontane nella storia e nei secoli, che coincidono, collimano e sfo- ciano a Gibellina, per diventare punti fermi, unici, isolati, di un lin- guaggio universale e, appunto, utopico. Mimmo Rotella si sente di dare il suo contributo attraverso uno studio linguistico e poetico che non ha mai espresso nella sua opera e che ritiene necessario in quel luogo, in quella condizione sociale, per esprimere puntualmente un ennesimo prodotto della cultura, neces- sità etica e morale e mai superficialmente utopica. Un altro esempio importante è dato dalla scultura urbana, l’Ara- tro, di Arnaldo Pomodoro, posizionata vicino la Chiesa Madre di Quaroni: un grande aratro di dodici metri di lunghezza per un’altezza massima di sei metri e quattro di larghezza, realizzata in tre materiali diversi, rame, ferro e tufo. Sullo sfondo della scultura un campo arato che si perde in lontananza, sicuramente elemento involontariamente scenografico ma comunque scelto dall’artista. 46
  • 47. III. L'artista si mette in gioco Una scultura archetipica, che si sviluppa su forme estremamente stilizzate ed essenziali, che si liberano di tutti gli orpelli superficiali per mostrare la propria evidente funzionalità strutturale e concettua- le, che richiama alla mente continui rimandi con associazioni seman- tiche e linguistiche che qui a Gibellina trovano radici profonde e coin- cidenze storiche molto importanti. Come prima lettura esiste infatti un evidente richiamo alla storia economica e sociale dei gibellinesi, all’agricoltura, e quindi alle origi- ni, alla memoria. L’aratro come monumento di una società basata sui ritmi e sulle esigenze della terra, sugli avvicendamenti delle stagioni, che diventa icona della memoria di una popolazione, delle sue origini e, se vogliamo, delle loro tradizioni. Nel processo di stilizzazione ed esposizione monumentale dell’ara- tro si crea di conseguenza un’argomentazione metaforica e semantica della pratica agricola. L’aratro diventa il simbolo dell’intelligenza umana, della conoscen- za che modifica la terra, la natura, intervenendo nel cosmo della ca- sualità per adoperarla alle proprie esigenze e necessità. L’aratro come simbolo di modificazione e conoscenza del mondo e quindi come sim- bolo di cultura. Non a caso coltura e cultura sono come sinonimi che hanno la stessa genesi linguistica. L’aratro diventa quindi la figura in cui si rispecchia la voglia di Gi- bellina, quella di ritornare al lavoro sui campi, quelli della società, at- traverso un essenziale strumento di ricerca e di conoscenza. Una forma costituita da elementi simbolo dell’industria, dell’arti- gianato e dell’architettura; il ferro, il rame e il tufo, sono elementi che richiamano anche la terra in cui sorge la scultura, in quanto i mate- riali, così come tutti quelli usati dagli altri artisti per le loro opere, sono autoctoni, provengono dalle diverse parti della Sicilia. Sono an- che gli stessi materiali che caratterizzando le opere archeologiche che popolano la regione del trapanese. Infine, la scultura rivendica la memoria delle continue lotte per la proprietà terriera da parte dei contadini di Gibellina, diventando mo- numento delle rivolte antifeudali, proprio in quelle pianure su cui si installa adesso l’opera di Pomodoro. 47
  • 48. III. L'artista si mette in gioco Ma la scultura di Arnaldo Pomodoro è anch’esso un unicum nella sua produzione artistica. Forme figurative ma essenziali come l’aratro di Gibellina si ritrovano soltanto in alcune scenografie curate dall’ar- tista. A Gibellina Pomodoro ha realizzato un’opera di sicuro impatto so- ciale, in cui convergono la storia economica, culturale e politica. A differenza di Burri e Rotella, che presentano un lavoro che ha a che fare maggiormente con una referenza etica ed estetica universale, Po- modoro insiste prettamente sulla memoria sociale limitandosi, dicia- mo così, a presentare un monumento della storia. Non avrebbe potuto presentare con la stessa austerità e “presenza” le sue solite architetture astratte: qui la scultura si immedesima nel contesto geografico e dialoga con lo spazio circostante come se fosse un elemento scenografico o semantico dell’opera stessa, una voluta protuberanza vettoriale. Nomi come quelli di Alberto Burri, Mimmo Rotella e Arnaldo Po- modoro, sono gli esempi più eclatanti tra i molti altri artisti che han- no deciso di mettersi in gioco a Gibellina, di abbandonarsi al luogo per sperimentare altro, qualcosa che non avesse riferimento con le strutture sociali ed economiche in cui il loro linguaggio si articolava in modo funzionale; gli artisti hanno ascoltato diverse necessità espressive, assorbendo completamente la storia della città, della terra che avrebbe ospitato le loro opere. Da questo atteggiamento sono nate sculture e architetture che suggeriscono nuovi strumenti per Gi- bellina, che ne manifestano l’idea non solo con il linguaggio ma anche attraverso i materiali stessi con cui sono costituite, elementi della ter- ra che le ospitano e testimoni di una risorsa che ha sempre accompa- gnato gli avvicendamenti culturali di Gibellina e della Sicilia tutta. Gibellina come fornace di atteggiamenti culturali unici e isolati non solo dal punto di vista degli artisti, architetti e intellettuali, ma anche in relazione al panorama artistico in generale, che permette di rivalutare il linguaggio di un autore in chiave sociale. A capo di tutti i discorsi sulla crisi dell’arte e sul problema di con- fronto tra cultura e società, utopia ed esigenza, Gibellina diventa un evidente esempio in cui gli intellettuali si sono slacciati dallo studio di 48
  • 49. III. L'artista si mette in gioco problematiche artistiche, autoreferenziali, per lavorare su linguaggi universali, diretti ad un pubblico che esige un’icona, un’idea su cui ri- flettere. 49
  • 50. “A Gibellina come sono stato attratto io così diversi artisti sono stati attratti per partecipa- re e rispondere a quella voglia di oltrepassare le soluzioni pratiche: l’estraniante oggetto uti- le delle necessità impellenti”. Pietro Consagra25 25 Consagra P. in Gibellina, Ideologia e utopia, La Monica G., pag. 53. 50
  • 51. IV. Artista e realtà sociali: stato, religione e cultura IV. Artista e realtà sociali: stato, religione e cultura Gibellina è stata l’occasione propizia per inventarsi nuove prospet- tive, per ricostruire identità perdute, per ridare un’etica più vicina alle esperienze contemporanee, sicure del passato e prossime alla no- vità. Gli intellettuali hanno seguito un atteggiamento puro, a priori da qualsiasi coinvolgimento funzionale al mercato: ogni progetto è stato la conseguenza di un’idea universale della cultura, che nonostante tutto guardava al territorio e alla sua tradizione. Ha ipotizzato un’esi- genza culturale della gente, di una Gibellina che doveva muovere i primi passi affacciandosi sulle realtà linguistiche contemporanee. Gli autori si sono mossi quindi attraverso mondi inesplorati, che hanno permesso di sperimentare e sperimentarsi in condizioni assoluta- mente inusuali. La meta funzionale di ogni progetto ha così dovuto tener conto di molti aspetti, soprattutto sociali, che hanno influito sull’aspetto finale di ogni oggetto. La forma e la sua struttura, il linguaggio semantico e concettuale, l’aderenza al luogo e alla tradizione della gente. Un atteggiamento che ha auspicato il meglio, un’utopia sociale perfetta, comandata da idee e ritmi astratti e che ha comportato sicu- ramente aspetti negativi quanto positivi. Tra gli aspetti positivi troviamo sicuramente soluzioni artistiche che hanno fatto riflettere, e tuttora lo fanno, sul panorama più gene- rale del mondo culturale, sulle figure che ne sono state coinvolte e sull’idea di città ideale come problema socio-culturale che si è dimo- strata di non facile attuazione e interpretazione. La storia è fatta però di fatti, e quello che ci rimane in contrada Sa- linella è un problema presente, reale, esistente a prescindere da qual- siasi considerazione che si argomenti da ideali probabilità o ipotetici sviluppi. Gibellina e il suo sublime contenuto, nell’accezione settecen- tesca del termine estetico, esiste ed è una realtà artistico – architetto- nica da affrontare criticamente, tenendo presente del futuro e dei possibili sviluppi. 51
  • 52. IV. Artista e realtà sociali: stato, religione e cultura Gli aspetti negativi posso riscontrarsi nella sottovalutazione da parte dei progettisti e degli artisti di soppiantare completamente un contesto spaziale per un altro, più vicino sicuramente alle esperienze della città che a quelle di una piccola comunità. Sicuramente Gibellina ha esposto un fenomeno importante, che ri- mane latente in qualsiasi operazione effettuata nella cittadina che è quella dell’officina sociale, per riprendere un’espressione di Achille Bonito Oliva, ma che si dimostra lampante studiando le opere e il loro processo creativo. Un concetto che ha fatto sì che esistesse Gibellina e che continua ancora oggi a rinnovarsi e riapplicarsi negli Ateliers della Fondazione Orestiadi. Gli artisti hanno lavorato a Gibellina e vivendo il contesto hanno creato opere uniche, come unico è stato il loro linguaggio, riadattato e riformulato in base alla condizione che si ponevano in quel determi- nato luogo. Il processo creativo non lo è stato da meno, coinvolgendo non solo i materiali autoctoni, ma anche le maestranze e gli aiuti de- gli abitanti locali. Ogni opera è frutto di una collaborazione intensa che nasce da uno spirito comune, sociale. Come ci ricorda Ludovico Corrao in numerosi interventi, Gibellina è proprio nata da un confronto continuo non solo fra intellettuali ma anche con la stessa gente, tra le tendopoli, con le mostre e i convegni allestiti all’interno dei rifugi temporanei, costruendo quell’idea di Utopia, di morale e di etica. Nascono così numerose opere che riescono per questo a emanare un forte impatto emotivo che coinvolge tutti a prescindere dall’espe- rienza culturale soggettiva; vengono create delle opere d’arte che ri- marranno punti luminosi di costellazioni lontane, di sistemi creativi rari e irripetibili. Si rigenera quel rapporto collaborativo tra artista e istituzione, tra funzionalità comunicativa ed esigenza culturale e stilistica. In questo modo vengono alla luce importanti esempi di opere d’arte e architet- ture per la religione e la spiritualità dei fedeli, per eventi culturali e di spettacolo e per luoghi pubblici e amministrativi. 52
  • 53. IV. Artista e realtà sociali: stato, religione e cultura Oggetti che creano uno spazio sociale e che si rapportano come punto di riferimento culturale e demagogico di una società. È impen- sabile negare la funzione dello stile linguistico e della sua idea di spa- zio e di tempo sulla gente, sul suo modo di pensare e di agire. Mai come a Gibellina c’è stata fra la gente una così importante pre- senza di diversi linguaggi stilistici, soprattutto per l’alta concentrazio- ne di opere e per l’importanza data a queste ultime in relazione alle esigenze materiali degli abitanti. Corrao ha preferito far rinascere Gibellina da uno spazio artistica- mente valido, fondare un fulcro estetico, che potesse dare le fonda- menta morali, culturali ed etiche ad un’intera società; un impegno difficile, azzardato, ma sicuramente prolifico di suggerimenti, stru- menti e ricchezze. Consagra e le architetture Pietro Consagra, nel 1976, vide iniziare a Gibellina i lavori di co- struzione del Meeting, la concretizzazione delle sue idee spaziali in quella prima architettura. Proveniente da un lungo percorso di ricerca, costellato da numero- si riconoscimenti, l’artista siciliano è nato a pochi chilometri di di- stanza da Gibellina, a Mazara del Vallo, nel 1920. Lavorò tra Roma e Milano e fu fondatore nel 1947, insieme ad altri importanti protago- nisti dell’astrattismo e costruttivismo italiano (come Turcato, Accar- di, Sanfilippo e altri), del gruppo e rivista “Forma1”. Ebbe la possibili- tà di provare con mano, a Gibellina, quelle idee cosiddette utopistiche che avevano caratterizzato il testo della “Città Frontale”, scritto anni prima nel 1969; il testo in cui redige le condizioni favorevoli per vive- re in una città costruita attraverso architetture fatte a misura d’uomo, che rispecchino l’unicità dell’individuo dimostrandosi esse stesse inu- suali, fuori dagli schemi precisi e standardizzanti del senso comune. Ogni architettura deve essere vista frontalmente, mostrando un solo punto di vista, esaltando l’unicità che corrisponde ad una purez- za ideale della forma. Lo spessore diventa soltanto funzionale all’abi- 53