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Social Knowledge Management e Social Customer Self-Service | Giugno 2017
Catturare saperi aziendali, condividerli e
collaborare: ecco come e perché
Social Knowledge Management, CCMS (component content management system),
Knowledge Base, Customer Self-Service… Tanti anglicismi, un unico obiettivo:
recepire, creare, gestire e distribuire in modo collaborativo informazioni usabili,
contestualmente rilevanti e azionabili, destinate a interlocutori interni ed esterni
all’azienda.
In azienda, l’idea di avviare un progetto di Knowledge Management emerge di solito quando ci si accorge
del tempo sprecato a cercare contenuti che si sanno esistenti, quando non si riesce a rispondere in modo
agile alle esigenze informative degli interlocutori oppure quando persone depositarie di saperi taciti si
avvicinano alla soglia della pensione.
In queste occasioni si fa più pressante l’esigenza di diffondere la cultura della condivisone, di catturare –
cioè esplicitare e codificare i saperi –, nonché di agevolare il dialogo e la collaborazione tra funzioni
aziendali per accelerare il metabolismo informativo dell’azienda, mettendo in circolo informazioni usabili,
contestualmente rilevanti e azionabili, destinate a interlocutori interni (customer service, assistenza
tecnica, ecc.) ed esterni (forza vendita, rivenditori, clienti e utilizzatori finali, ecc.).
Catturare, condividere e collaborare sono tre parole chiave intorno a cui ruotano i progetti di Knowledge
Management.
A prescindere da altri aspetti fondamentali di natura culturale e organizzativa, il primo passo da compiere
nell’ambito del Knowledge Management è catturare i saperi. Può trattarsi di contenuti e informazioni già
presenti, ma frammentati all’interno delle applicazioni che compongono l’ecosistema informativo
aziendale, oppure di saperi taciti, che le persone hanno accumulato con l’esperienza, su cui basano le
proprie attività e che tutt’al più condividono oralmente con i colleghi, ma che non hanno mai formalizzato.
Fra i sistemi in grado di amministrare il ciclo di vita dei contenuti, i CCMS (sistemi di component content
management; sistemi di gestione dei contenuti) detengono una posizione speciale, in quanto gestori dei
contenuti della comunicazione tecnica e di prodotto, già pensati per fornire risposta ai quesiti che forza
vendita, rivenditori, clienti e utilizzatori finali, customer service e assistenza tecnica sono soliti porsi in fase
di pre-vendita, vendita e post vendita.
Tuttavia, solo l’integrazione organica fra contenuti provenienti da varie fonti e da vari dipartimenti
permette all’azienda di fornire ai propri interlocutori informazioni a tutto tondo, in grado di illuminare una
questione da diversi punti di vista (tecnico, commerciale, logistico, legato all’uso, ecc.).
Catturare i saperi significa dunque:
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Social Knowledge Management e Social Customer Self-Service | Giugno 2017
1. Integrare contenuti provenienti da varie fonti, accomunati dal fatto di contribuire a vario titolo a
comporre risposte utili a evadere i quesiti dei vari tipi di interlocutori nelle diverse fasi del loro ciclo
di vita (connessione, contatto, cliente potenziale, cliente attuale, utilizzatore, cliente fidelizzato)
2. Approntare strumenti culturali, organizzativi e tecnologici per aiutare le persone a esplicitare e
codificare i propri saperi e/o applicare a contenuti digitali già presenti, ma destrutturati, metodi e
tecniche di intelligenza artificiale (AI, big data, analytics, machine learning) per distillare dai
contenuti grezzi informazioni usabili.
Oltre alla formalizzazione e all’integrazione, la cattura dei saperi richiede altre attività finalizzate a
garantire l’attuazione delle potenzialità informative, cioè il fatto che le risorse non vadano sprecate. È
necessario:
1. Gestire il ciclo di vita del contenuto, compreso il diritto/dovere all’oblio per quelli obsoleti
2. Modularizzare e strutturare i contenuti come topic, cioè come unità informative minime in grado
di rispondere compiutamente a un quesito dato. Si tratta del passaggio fondamentale per
trasformare il contenuto in un elemento utile a soddisfare le esigenze informative, formative e
operative del suo destinatario tipico, cioè a generare conoscenza
3. Corredare i contenuti di tassonomie e metadati, importanti per supportarne la findability, la
reperibilità da parte di persone e/o software
4. Contestualizzare i contenuti. Il contesto aiuta ad apprendere e a ricordare più facilmente il topic,
ma anche a trasversalizzare eventualmente i saperi che veicola
5. Gestire la relazione fra contenuti affini.
Solo contenuti così catturati sono condivisibili. Condividere significa far trovare il contenuto giusto alla
persona giusta, al momento giusto, tramite la piattaforma giusta, perché possa prendere la decisione
giusta.
Tutti i tipi di sapere sono catturabili? Non proprio: i saperi procedurali sono più semplici da esplicitare e
codificare, mentre lo sono molto meno quelli intrecciati con l’esperienza personale o quelli, non
intenzionabili, ma capaci di innescare la scintilla dell’innovazione non incrementale.
Ecco perché un progetto di Knowledge Management, oltre a catturare e condividere saperi, deve aiutare le
persone a collaborare: mentre la condivisione attiene ai saperi preventivamente formalizzati, la
collaborazione arriva anche là dove i saperi sono taciti, per motivi contingenti o strutturali.
Il Social Knowledge Management cerca di unire le caratteristiche di community guidata dagli utenti,
partecipazione e interazione tipiche dei social network con quelle di ricezione, pubblicazione e uso
distintive dei sistemi di Knowledge Management tradizionali. Le applicazioni di Social Knowledge
Management rappresentano un caso classico di consumerization, cioè di trasferimento in ambito business
di logiche che si sono consolidate a tal punto nel mondo consumer da dare vita, nell’immaginario collettivo
digitale, a un minimo comune denominatore.
Obiettivo della collaborazione è duplice:
1. Ricorrere all’aiuto di altre persone per risolvere problemi non risolvibili tramite la semplice
fruizione di contenuti esistenti
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Social Knowledge Management e Social Customer Self-Service | Giugno 2017
2. Tramite le conversazioni, produrre contenuti, da cui operatori umani e/o software possano
distillare saperi codificati, innescando un circolo virtuoso di alimentazione della Knowledge Base
(base dati di conoscenza).
Ma gli interlocutori dell’azienda sono davvero pronti a condividere e a collaborare usando applicazioni di
Social Knowledge Management?
Secondo la logica della comunicazione generazionale – in base a cui ogni generazione privilegia mezzi,
linguaggi e contenuti specifici – i nativi digitali, cioè i Millennials e i giovani appartenenti alla Generazione Z,
sarebbero i più predisposti a usare questo tipo di applicazioni.
D’altro canto, la consumerization livella il fattore generazionale. L’elevato tasso di frequentazione dei social
network anche nelle fasce di età dai 30 ai 44 e dai 45 ai 64 anni, e la conseguente conoscenza empirica
delle regole di base del loro funzionamento, rendono le applicazioni di Social Knowledge Management
appetibili anche per chi non è un nativo digitale. Basti pensare che nel 2016 il 71.8% dei 30-44enni e il
37.6% dei 45-64enni usava Facebook, con un tasso di crescita rispettivamente del 9,3% e del 9,4% sul 2013.
Grazie alla diffusione delle applicazioni consumer – come, in questo caso, Facebook – anche per un non
nativo digitale risulta quasi spontaneo adottare nel contesto lavorativo comportamenti online che gli sono
già famigliari nella vita di tutti i giorni.
In “Successes and Failures of Knowledge Management” (Elsevier, Cambridge, MA, 2016), Jay Liebowitz
presenta un interessante caso studio di successo, relativo alla realizzazione di un sistema di Knowledge
Magament per la gestione dell’applicazione online di customer self-service di un’azienda del settore IT.
L’azienda ha attuato uno dei modelli di business classici del web: creare una win-win situation,
soddisfacente per il cliente – messo nelle condizioni di risolvere autonomamente almeno una parte dei
problemi – e per l’azienda, che sgrava il proprio customer service delle attività di routine, permettendogli di
supportare meglio i clienti nella soluzione di criticità più complesse, che richiedono l’interazione diretta fra
customer service e cliente, e il coordinamento fra customer service e altri dipartimenti aziendali.
Per soddisfare l’esigenza dei clienti di disporre di un customer self-service, è stato necessario che gli addetti
del customer service e i tecnici (progettisti, product manager, ecc.) esplicitassero, codificassero e
condividessero preliminarmente le informazioni utili a rispondere ai quesiti tipici dell’audience, e che i
titolari dei contenuti si impegnassero a gestirne il ciclo di vita. Inizialmente un incentivo economico
(raccolta di punti per ogni topic pubblicato + gift card) ha favorito l’adesione massiccia all’iniziativa da parte
dei collaboratori dell’azienda e quindi il raggiungimento della necessaria massa critica di informazioni.
L’azienda ha deciso di seguire il metodo Agile per sviluppare l’applicazione di customer self-service,
prevedendo il coinvolgimento diretto dei destinatari nel processo di modellazione, sviluppo ed evoluzione
del sistema, in modo tale che si conformasse alle esigenze reali e al loro mutamento nel tempo. In questo
caso l’approccio “social” è stato seguito più per la configurazione del sistema, che per la generazione dei
contenuti, ma ha sempre rappresentato uno dei fattori di successo.
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Social Knowledge Management e Social Customer Self-Service | Giugno 2017
In fase di realizzazione, l’azienda ha posto particolare attenzione alla findability dei contenuti, optando per
un motore di ricerca full-text in cui il cliente potesse digitare “naturalmente” il proprio quesito (quasi
dialogare), lasciando al sistema il compito di trovare e proporre le informazioni più rilevanti e utili.
Il sistema di customer self-service è ad accesso pubblico. Ciò implica che i contenuti sono indicizzati e
posizionati dai motori di ricerca, e che anche persone che non sono clienti dell’azienda possono trovarli,
cercando esplicitamente le relative espressioni chiave, per esempio in fase di ricerca di un prodotto o di
una soluzione. Sfruttati in chiave di SEO (search engine optimization) i contenuti tipici della comunicazione
tecnica e di prodotto, di per sé rilevanti e utili, fungono anche da motore marketing per la generazione di
connessioni, contatti e clienti potenziali da trasformare in clienti attuali e fidelizzati. Non solo, ma
l’applicazione di customer self-service è anche un “demo dal vivo” del livello di servizio offerto dall’azienda,
che – assieme ai contenuti – rappresenta un ulteriore argomento di vendita, cioè un vantaggio competitivo
per l’azienda.
Oltre al supporto clienti, alla generazione di contatti e alla dimostrazione del livello di servizio, Jay
Liebowitz cita altri obiettivi che l’azienda ha colto grazie al sistema di customer self-service:
• Alleggerimento del lavoro di routine del customer service, che può quindi supportare meglio i
clienti nella soluzione delle problematiche più complesse, che richiedono interazione diretta e
coordinamento con altre funzioni aziendali
• Maggiore velocità di risposta
• Trasparenza nei confronti del cliente
• Maggiore soddisfazione del cliente
• Distribuzione di documentazione tecnica in formato digitale (manuali di istruzioni, help online,
tutorial, ecc.) con risparmio sui costi di stampa.
Jay Liebowitz presenta un altro caso studio interessante, questa volta di insuccesso, dedicato alla
realizzazione da parte di una PMI polacca di un chat bot di customer service (sistema conversazionale AI)
progettato per rispondere ai quesiti dei clienti, auto- apprendere in base a tecniche di machine learning ed
essere migliorato incrementalmente grazie all’attività di conversation log analysis svolta da operatori
umani.
Passata la curiosità iniziale, i clienti hanno continuato a preferire il customer service tradizionale, non
considerando il chat bot una fonte di informazioni attendibile. A causa di motivi tecnici, infatti, il chat bot a
volte ripeteva domande o risposte, non forniva alcuna risposta, non era in grado di tenere in
considerazione il contesto della conversazione (per esempio la domanda / risposta precedente) e non si è
rivelato in grado di migliorare sensibilmente le prestazioni nell’arco di un semestre.
Questo caso studio insegna che, a prescindere dalla bontà e dall’innovatività del progetto, l’usabilità del
sistema e l’utilità dei contenuti sono fattori chiave per fare sì che le persone lo usino effettivamente.
Autore: Petra Dal Santo – KEA S.r.l. (dalsanto@keanet.it)

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Knowledge Management: catturare saperi aziendali, condividerli e collaborare. Ecco come e perché!

  • 1. Kea s.r.l. | Via Strà, 102 | 37042 Caldiero (VR) Tel.: +39 045 6152381 Web: www.keanet.it | E-mail: info@keanet.it 1 Social Knowledge Management e Social Customer Self-Service | Giugno 2017 Catturare saperi aziendali, condividerli e collaborare: ecco come e perché Social Knowledge Management, CCMS (component content management system), Knowledge Base, Customer Self-Service… Tanti anglicismi, un unico obiettivo: recepire, creare, gestire e distribuire in modo collaborativo informazioni usabili, contestualmente rilevanti e azionabili, destinate a interlocutori interni ed esterni all’azienda. In azienda, l’idea di avviare un progetto di Knowledge Management emerge di solito quando ci si accorge del tempo sprecato a cercare contenuti che si sanno esistenti, quando non si riesce a rispondere in modo agile alle esigenze informative degli interlocutori oppure quando persone depositarie di saperi taciti si avvicinano alla soglia della pensione. In queste occasioni si fa più pressante l’esigenza di diffondere la cultura della condivisone, di catturare – cioè esplicitare e codificare i saperi –, nonché di agevolare il dialogo e la collaborazione tra funzioni aziendali per accelerare il metabolismo informativo dell’azienda, mettendo in circolo informazioni usabili, contestualmente rilevanti e azionabili, destinate a interlocutori interni (customer service, assistenza tecnica, ecc.) ed esterni (forza vendita, rivenditori, clienti e utilizzatori finali, ecc.). Catturare, condividere e collaborare sono tre parole chiave intorno a cui ruotano i progetti di Knowledge Management. A prescindere da altri aspetti fondamentali di natura culturale e organizzativa, il primo passo da compiere nell’ambito del Knowledge Management è catturare i saperi. Può trattarsi di contenuti e informazioni già presenti, ma frammentati all’interno delle applicazioni che compongono l’ecosistema informativo aziendale, oppure di saperi taciti, che le persone hanno accumulato con l’esperienza, su cui basano le proprie attività e che tutt’al più condividono oralmente con i colleghi, ma che non hanno mai formalizzato. Fra i sistemi in grado di amministrare il ciclo di vita dei contenuti, i CCMS (sistemi di component content management; sistemi di gestione dei contenuti) detengono una posizione speciale, in quanto gestori dei contenuti della comunicazione tecnica e di prodotto, già pensati per fornire risposta ai quesiti che forza vendita, rivenditori, clienti e utilizzatori finali, customer service e assistenza tecnica sono soliti porsi in fase di pre-vendita, vendita e post vendita. Tuttavia, solo l’integrazione organica fra contenuti provenienti da varie fonti e da vari dipartimenti permette all’azienda di fornire ai propri interlocutori informazioni a tutto tondo, in grado di illuminare una questione da diversi punti di vista (tecnico, commerciale, logistico, legato all’uso, ecc.). Catturare i saperi significa dunque:
  • 2. Kea s.r.l. | Via Strà, 102 | 37042 Caldiero (VR) Tel.: +39 045 6152381 Web: www.keanet.it | E-mail: info@keanet.it 2 Social Knowledge Management e Social Customer Self-Service | Giugno 2017 1. Integrare contenuti provenienti da varie fonti, accomunati dal fatto di contribuire a vario titolo a comporre risposte utili a evadere i quesiti dei vari tipi di interlocutori nelle diverse fasi del loro ciclo di vita (connessione, contatto, cliente potenziale, cliente attuale, utilizzatore, cliente fidelizzato) 2. Approntare strumenti culturali, organizzativi e tecnologici per aiutare le persone a esplicitare e codificare i propri saperi e/o applicare a contenuti digitali già presenti, ma destrutturati, metodi e tecniche di intelligenza artificiale (AI, big data, analytics, machine learning) per distillare dai contenuti grezzi informazioni usabili. Oltre alla formalizzazione e all’integrazione, la cattura dei saperi richiede altre attività finalizzate a garantire l’attuazione delle potenzialità informative, cioè il fatto che le risorse non vadano sprecate. È necessario: 1. Gestire il ciclo di vita del contenuto, compreso il diritto/dovere all’oblio per quelli obsoleti 2. Modularizzare e strutturare i contenuti come topic, cioè come unità informative minime in grado di rispondere compiutamente a un quesito dato. Si tratta del passaggio fondamentale per trasformare il contenuto in un elemento utile a soddisfare le esigenze informative, formative e operative del suo destinatario tipico, cioè a generare conoscenza 3. Corredare i contenuti di tassonomie e metadati, importanti per supportarne la findability, la reperibilità da parte di persone e/o software 4. Contestualizzare i contenuti. Il contesto aiuta ad apprendere e a ricordare più facilmente il topic, ma anche a trasversalizzare eventualmente i saperi che veicola 5. Gestire la relazione fra contenuti affini. Solo contenuti così catturati sono condivisibili. Condividere significa far trovare il contenuto giusto alla persona giusta, al momento giusto, tramite la piattaforma giusta, perché possa prendere la decisione giusta. Tutti i tipi di sapere sono catturabili? Non proprio: i saperi procedurali sono più semplici da esplicitare e codificare, mentre lo sono molto meno quelli intrecciati con l’esperienza personale o quelli, non intenzionabili, ma capaci di innescare la scintilla dell’innovazione non incrementale. Ecco perché un progetto di Knowledge Management, oltre a catturare e condividere saperi, deve aiutare le persone a collaborare: mentre la condivisione attiene ai saperi preventivamente formalizzati, la collaborazione arriva anche là dove i saperi sono taciti, per motivi contingenti o strutturali. Il Social Knowledge Management cerca di unire le caratteristiche di community guidata dagli utenti, partecipazione e interazione tipiche dei social network con quelle di ricezione, pubblicazione e uso distintive dei sistemi di Knowledge Management tradizionali. Le applicazioni di Social Knowledge Management rappresentano un caso classico di consumerization, cioè di trasferimento in ambito business di logiche che si sono consolidate a tal punto nel mondo consumer da dare vita, nell’immaginario collettivo digitale, a un minimo comune denominatore. Obiettivo della collaborazione è duplice: 1. Ricorrere all’aiuto di altre persone per risolvere problemi non risolvibili tramite la semplice fruizione di contenuti esistenti
  • 3. Kea s.r.l. | Via Strà, 102 | 37042 Caldiero (VR) Tel.: +39 045 6152381 Web: www.keanet.it | E-mail: info@keanet.it 3 Social Knowledge Management e Social Customer Self-Service | Giugno 2017 2. Tramite le conversazioni, produrre contenuti, da cui operatori umani e/o software possano distillare saperi codificati, innescando un circolo virtuoso di alimentazione della Knowledge Base (base dati di conoscenza). Ma gli interlocutori dell’azienda sono davvero pronti a condividere e a collaborare usando applicazioni di Social Knowledge Management? Secondo la logica della comunicazione generazionale – in base a cui ogni generazione privilegia mezzi, linguaggi e contenuti specifici – i nativi digitali, cioè i Millennials e i giovani appartenenti alla Generazione Z, sarebbero i più predisposti a usare questo tipo di applicazioni. D’altro canto, la consumerization livella il fattore generazionale. L’elevato tasso di frequentazione dei social network anche nelle fasce di età dai 30 ai 44 e dai 45 ai 64 anni, e la conseguente conoscenza empirica delle regole di base del loro funzionamento, rendono le applicazioni di Social Knowledge Management appetibili anche per chi non è un nativo digitale. Basti pensare che nel 2016 il 71.8% dei 30-44enni e il 37.6% dei 45-64enni usava Facebook, con un tasso di crescita rispettivamente del 9,3% e del 9,4% sul 2013. Grazie alla diffusione delle applicazioni consumer – come, in questo caso, Facebook – anche per un non nativo digitale risulta quasi spontaneo adottare nel contesto lavorativo comportamenti online che gli sono già famigliari nella vita di tutti i giorni. In “Successes and Failures of Knowledge Management” (Elsevier, Cambridge, MA, 2016), Jay Liebowitz presenta un interessante caso studio di successo, relativo alla realizzazione di un sistema di Knowledge Magament per la gestione dell’applicazione online di customer self-service di un’azienda del settore IT. L’azienda ha attuato uno dei modelli di business classici del web: creare una win-win situation, soddisfacente per il cliente – messo nelle condizioni di risolvere autonomamente almeno una parte dei problemi – e per l’azienda, che sgrava il proprio customer service delle attività di routine, permettendogli di supportare meglio i clienti nella soluzione di criticità più complesse, che richiedono l’interazione diretta fra customer service e cliente, e il coordinamento fra customer service e altri dipartimenti aziendali. Per soddisfare l’esigenza dei clienti di disporre di un customer self-service, è stato necessario che gli addetti del customer service e i tecnici (progettisti, product manager, ecc.) esplicitassero, codificassero e condividessero preliminarmente le informazioni utili a rispondere ai quesiti tipici dell’audience, e che i titolari dei contenuti si impegnassero a gestirne il ciclo di vita. Inizialmente un incentivo economico (raccolta di punti per ogni topic pubblicato + gift card) ha favorito l’adesione massiccia all’iniziativa da parte dei collaboratori dell’azienda e quindi il raggiungimento della necessaria massa critica di informazioni. L’azienda ha deciso di seguire il metodo Agile per sviluppare l’applicazione di customer self-service, prevedendo il coinvolgimento diretto dei destinatari nel processo di modellazione, sviluppo ed evoluzione del sistema, in modo tale che si conformasse alle esigenze reali e al loro mutamento nel tempo. In questo caso l’approccio “social” è stato seguito più per la configurazione del sistema, che per la generazione dei contenuti, ma ha sempre rappresentato uno dei fattori di successo.
  • 4. Kea s.r.l. | Via Strà, 102 | 37042 Caldiero (VR) Tel.: +39 045 6152381 Web: www.keanet.it | E-mail: info@keanet.it 4 Social Knowledge Management e Social Customer Self-Service | Giugno 2017 In fase di realizzazione, l’azienda ha posto particolare attenzione alla findability dei contenuti, optando per un motore di ricerca full-text in cui il cliente potesse digitare “naturalmente” il proprio quesito (quasi dialogare), lasciando al sistema il compito di trovare e proporre le informazioni più rilevanti e utili. Il sistema di customer self-service è ad accesso pubblico. Ciò implica che i contenuti sono indicizzati e posizionati dai motori di ricerca, e che anche persone che non sono clienti dell’azienda possono trovarli, cercando esplicitamente le relative espressioni chiave, per esempio in fase di ricerca di un prodotto o di una soluzione. Sfruttati in chiave di SEO (search engine optimization) i contenuti tipici della comunicazione tecnica e di prodotto, di per sé rilevanti e utili, fungono anche da motore marketing per la generazione di connessioni, contatti e clienti potenziali da trasformare in clienti attuali e fidelizzati. Non solo, ma l’applicazione di customer self-service è anche un “demo dal vivo” del livello di servizio offerto dall’azienda, che – assieme ai contenuti – rappresenta un ulteriore argomento di vendita, cioè un vantaggio competitivo per l’azienda. Oltre al supporto clienti, alla generazione di contatti e alla dimostrazione del livello di servizio, Jay Liebowitz cita altri obiettivi che l’azienda ha colto grazie al sistema di customer self-service: • Alleggerimento del lavoro di routine del customer service, che può quindi supportare meglio i clienti nella soluzione delle problematiche più complesse, che richiedono interazione diretta e coordinamento con altre funzioni aziendali • Maggiore velocità di risposta • Trasparenza nei confronti del cliente • Maggiore soddisfazione del cliente • Distribuzione di documentazione tecnica in formato digitale (manuali di istruzioni, help online, tutorial, ecc.) con risparmio sui costi di stampa. Jay Liebowitz presenta un altro caso studio interessante, questa volta di insuccesso, dedicato alla realizzazione da parte di una PMI polacca di un chat bot di customer service (sistema conversazionale AI) progettato per rispondere ai quesiti dei clienti, auto- apprendere in base a tecniche di machine learning ed essere migliorato incrementalmente grazie all’attività di conversation log analysis svolta da operatori umani. Passata la curiosità iniziale, i clienti hanno continuato a preferire il customer service tradizionale, non considerando il chat bot una fonte di informazioni attendibile. A causa di motivi tecnici, infatti, il chat bot a volte ripeteva domande o risposte, non forniva alcuna risposta, non era in grado di tenere in considerazione il contesto della conversazione (per esempio la domanda / risposta precedente) e non si è rivelato in grado di migliorare sensibilmente le prestazioni nell’arco di un semestre. Questo caso studio insegna che, a prescindere dalla bontà e dall’innovatività del progetto, l’usabilità del sistema e l’utilità dei contenuti sono fattori chiave per fare sì che le persone lo usino effettivamente. Autore: Petra Dal Santo – KEA S.r.l. (dalsanto@keanet.it)