1. (…) Qualunque sia l’epoca e l’origine alla quale si voglia far risalire
l’idea modernista di letteratura, appare abbastanza chiaro che stia
esaurendo il proprio ciclo di vita storico. Al principio di questo nuovo
secolo, il “campo letterario” si sta forse dischiudendo con lo stesso scopo
che, alla metà dell’Ottocento, lo aveva spinto a costituirsi richiudendosi su
se stesso: per poter continuare a stare in società alla condizione di non farne
parte? Il futuro ce lo dirà.
Per ora sappiamo che gli steccati sono state abbattuti, sia dall’esterno che
dall’interno. Alcuni sono più propensi a ritenere che si sia consumato un
tradimento: chi stava dentro si è venduto al nemico e ha aperto le porte che
a loro volta sono cadute. Comunque la si pensi a riguardo, al momento in
cui viviamo il “campo letterario” non è più delimitato e i suoi confini sono
stati violati. Dobbiamo, perciò, tornare a chiederci che ne sarà della
letteratura una volta riconsegnata alla vastità di ogni genere e sorta di
parola scritta o pronunciata nei territori selvaggi di una socialità
comunicativa senza leggi, diritti di progenitura, prerogative castali e,
soprattutto, senza confini.
In linea con il quadro teorico disegnato da Pierre Bourdieu, la
dischiusura del campo letterario sta avvenendo, infatti, in relazione a
mutamenti epocali che riguardano l’intero sistema sociale.
(…) Gli studiosi che oggi si collocano ancora nella prospettiva della
storia letteraria “discreta”, concentrata sui pochi grandi scrittori, sugli
autori e sui loro capolavori del passato – una narrazione dettata
dall’autocoscienza storicista della modernità con tutto il suo armamentario
intellettuale di inizi, nuove fondazioni, separazioni, divorzi ed estinzioni –
non soltanto rivestono quegli autori di un’importanza che per lo più era
sconosciuta all’epoca retorica in cui quelli vissero, ma tributano un
omaggio ad un concetto di eccellenza che deve molto di più al XIX secolo
che non al secolo in cui loro stessi vivono. È questo lo stesso orientamento
in cui Paul Zumthor ravvisa il pericolo per cui oggi, a pensare la
“letteratura” con le connotazioni moderniste che ne accompagnano l’idea,
ci si areni in una chiusura elitaria ed etnocentrica. Insomma, detto in
soldoni, c’è stata un’età che non era ancora l’età della “letteratura” ed è
durata millenni. Motivo per cui, comunque la si pensi, è forse il caso di
interrogarci sul fatto che la nostra età possa non esserlo più.
Stando a questa prospettiva, l’unico modo per spezzare il circolo vizioso
di quel peculiare fenomeno di autoaccerchiamento che è stato il
modernismo intellettuale nel seno della modernità culturale, è di mirare –
nello studio e nella pratica della letteratura – ad un’antropologia.
Per quel che mi riguarda, mi sono sforzato proprio di dar seguito a
2. questo suggerimento. Ho provato, cioè, a mostrare come una riflessione che
assegni la contemporaneità letteraria romanzesca alle cure dell’antica
retorica (atavica), e non della “nuova” poetica (moderna nel senso di
modernista), andrebbe proprio in questa direzione. A muovermi è stata la
convinzione – o magari l’illusione – che talvolta ciò che viene dopo sia più
antico di ciò che viene prima. Lungo il cammino, mi è apparso necessario
riscoprire l’antica alleanza tra letteratura e retorica alla luce
dell’antropologia filosofica del Novecento, la cosiddetta “antropologia
della povertà”.
“Il primo postulato dovrebbe essere questo: non è affatto ovvio che
l’uomo possa esistere” (Blumenberg). Muovendo da questa tesi radicale
dell’antropologia filosofica novecentesca riguardo alla “povertà biologica”
della specie umana, ho dunque cercato di affrontare il nodo che de sempre
avvince letteratura e violenza. Attraverso un serrato confronto con la
filosofia, la teoria letteraria e le scienze sociali, la mia ricerca mi ha portato
a individuare l’essenziale della parola letteraria nel contributo che la sua
componente retorica e comunicativa fornisce alla lotta interminabile con
cui la specie umana – costantemente sottoposta alla minaccia di estinzione
e ora a quella di auto estinzione – ha tentato e tenta faticosamente di
mantenersi in vita.
(…) Il dischiudersi di un orizzonte storico planetario, simultaneo al
globalizzarsi e al radicalizzarsi del rischio, renderebbero, infatti, quanto
mai cruciali le prestazioni civilizzatrici della retorica letteraria. Al giro del
nuovo millennio, il caos nichilistico della globalizzazione porta, cioè, con
sé la scoperta brutale che la sopravvivenza deve essere conquistata poiché
la specie non è al sicuro e che la realtà antropologica non ha più un posto
assicurato nel ciclo cosmico, ma deve appropriarsi storicamente del proprio
diritto a esistere. Ed è proprio allora, quando l'esistenza stessa della specie
non può più separarsi dalla decisione di esistere, che la letteratura è
chiamata in causa.
Contro l’ideologia modernista che cercava di distinguere, e poi di
separare, la letteratura dal campo più vasto delle altre pratiche di discorso
persuasivo, questa linea di riflessione, rivalutando la retorica quale impresa
millenaria di civilizzazione, e ricollocando la prestazione letteraria nella
continuità con il fondo animale su cui sorge la cultura umana, si sforza,
dunque, di mostrare che lo specifico dell’impresa discorsiva recentemente
definita “letteratura” consisterebbe da sempre nell’approssimarsi e
nell’opporsi alla violenza della forza bruta e sulla nuda vita. Il dono che
giunge all’umanità da questa capacità di sottrarsi alle pretese assolutistiche
della realtà sarebbe perciò non la verità, o la bellezza, ma la sopravvivenza
3. stessa. Ponendosi in quest’ottica, si scoprirà che non diversamente
dall’autore di un’orazione funebre, lo scrittore di ogni tempo e di ogni
epoca, pronuncia la propria parola sempre in un tentativo estremo di
allontanare “l’impersuadibile della morte”.