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CAPITOLO 1
Quella mattina mi alzai di buon’ora e percorsi l’autostrada verso l’aeroporto. Le prime
notizie del GR1, come sempre in quel periodo, riguardavano la crisi di governo, il calo del
dollaro e riproponevano la solita pagina di cronaca nera: mafia, n’drangheta e camorra
sembravano fare a gara per accaparrarsi spazi sempre più ampi. Abbassai per un attimo
il volume della radio, oramai ero ben sveglio: volevo sentire meglio quello strano
rumore proveniente dal motore.
Da un paio di mesi mi ero ripromesso di portare l’auto in officina, ma come mi ripete
sempre Laura, io trovo solo il tempo di lavorare. Azienda e solo azienda, per il resto il
tempo si troverà. Chissà se non abbia ragione lei?
«Vedrai: quando non gli servirai più ti daranno un calcio nel sedere, come hanno fatto
con qualche tuo collega, e amen. »
Questa è la sua affermazione ricorrente sul mondo che orbita attorno al mio ambiente di
lavoro.
«Ma smettila! Come fai a non capire che se lo faccio non è certamente per me. I soldi
servono, e mi sembra che neanche a te dispiacciano!»
Questa era la mia solita risposta.
A volte penso che sulle automobili basterebbero solo gli specchietti retrovisori esterni:
eviteremmo così di vedere il nostro volto e ammettere che stiamo mentendo
spudoratamente. È proprio vero, certe affermazioni gratuite non hanno alcuna credibilità.
Il mare era cristallino come lacrime in quegli ultimi giorni di settembre. Quell’azzurro
misto al turchese lo rendeva ancor più vivo; a guardarlo infondeva pace, anche se
questa visione non avrebbe potuto impedirti di pensare che fino a pochi giorni prima, da
quelle parti, la moltitudine di inquinatori estivi, tra villette abusive e improvvisati
campeggi, era riuscita a cancellare l’intera fisionomia della costa.
Tanti anni prima, alla metà degli anni cinquanta, venivo ancora bambino su quelle
spiagge con i miei genitori. Arrivavamo con il cosiddetto treno dei ferrovieri, un
convoglio allestito dal “dopolavoro” creato appositamente per i familiari dei dipendenti
delle ferrovie dello stato.
Il treno ci lasciava al confine tra la campagna di Isola delle Femmine, un paesino alle
porte di Palermo, e la spiaggia. Poi continuavamo a piedi verso la cabina di legno, blu e
bianca, con il terrazzino davanti, che diventava la nostra casa al mare.
Era un posto bellissimo, immerso nel verde di giardini profumati che si allungavano verso
il mare, gli stessi che oggi hanno lasciato brutalmente spazio a un ammasso informe di
cemento. Che tristezza!
Trovare un parcheggio in quell’aeroporto è sempre stato un problema, anche perché i
lavori iniziati da più di quindici anni non finivano mai e continuavano a creare parecchi
disagi agli utenti.
Sceso finalmente dalla mia auto con la ventiquattrore da un lato e il borsone dall’altro, mi
avviai già stanco verso l’ingresso dell’aeroporto. Cercai di imprimere bene in mente dove
avessi parcheggiato l’auto per ritrovarla in fretta quella sera, al rientro con l’ultimo volo.
Dopo l’inevitabile caffè e prima sigaretta della giornata, mi recai in edicola. Come ogni
giorno comprai, oltre al Giornale di Sicilia, La Repubblica e il Corriere della Sera,
quotidiani indispensabili per chi abbia desiderio o necessità di conoscere più nel dettaglio
le notizie locali, nazionali e internazionali.
Finalmente l’assonnata e quasi incomprensibile voce degli altoparlanti gracchiò la
chiamata del volo AZ… per Milano, e così mi incamminai verso il check-in; accanto alla
fila per Milano c’era quella per Roma; a guardarle diventano un divertente proscenio,
soprattutto quando lo sguardo si ferma sulla “cricca” dei parlamentari, pendolari tra
Palermo e Roma. Come una scolaresca in gita, tutti amici o presunti tali, si raccontano le
avventure romane, fanno battute allusive verso gli assenti, si scambiano sorrisi e pacche
sulle spalle, imprecano contro l’immane fatica del pendolarismo politico, e guardinghi
sussurrano che arrivati a Roma, finalmente, troveranno il tempo di riposarsi.
Una suadente voce femminile dall’altoparlante ci invitò all’imbarco.
Così iniziò la prima corsa della giornata. In quegli istanti nella mente di tutti i passeggeri
scattano degli strani meccanismi cerebrali. L’egoismo più assoluto, la scaramanzia, la
scortesia, talvolta la maleducazione mescolati insieme e tesi allo stesso fine: salire per
primi sul bus che li porterà sotto l’aereo, e all’apertura delle bussole, con scatto felino,
guadagnare per primi la scaletta e andare a occupare sempre lo stesso posto. A questo
proposito mi venne da sbellicarmi dalle risate, visto che di lì breve Alitalia avrebbe
assegnato il posto contestualmente al rilascio del biglietto. Chissà che questa non sarà la
causa di abbandono di qualche vecchio pendolare della politica? Questo scatto da
centometrista mi richiamò alla mente quando nell’ormai famoso, logoro Sessantotto, circa
venti anni prima, frequentavo l’ultimo anno dell’istituto tecnico. Illudersi dal grande
sviluppo industriale del paese, per me e per molti altri, si rivelò a posteriori una scelta
sbagliata. Non ero adatto a quel tipo di studi, e dopo il diploma corressi il tiro con
l’iscrizione all’università in una facoltà umanistica. In quei concitati anni che cambiarono il
destino di molti di noi, tante volte avevamo dovuto far sfoggio delle nostre doti di
“centometristi” di fronte alle ripetute cariche della polizia, che tentava l’ennesimo
sgombero del nostro istituto occupato.

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  • 1.
  • 2. CAPITOLO 1 Quella mattina mi alzai di buon’ora e percorsi l’autostrada verso l’aeroporto. Le prime notizie del GR1, come sempre in quel periodo, riguardavano la crisi di governo, il calo del dollaro e riproponevano la solita pagina di cronaca nera: mafia, n’drangheta e camorra sembravano fare a gara per accaparrarsi spazi sempre più ampi. Abbassai per un attimo il volume della radio, oramai ero ben sveglio: volevo sentire meglio quello strano rumore proveniente dal motore. Da un paio di mesi mi ero ripromesso di portare l’auto in officina, ma come mi ripete sempre Laura, io trovo solo il tempo di lavorare. Azienda e solo azienda, per il resto il tempo si troverà. Chissà se non abbia ragione lei? «Vedrai: quando non gli servirai più ti daranno un calcio nel sedere, come hanno fatto con qualche tuo collega, e amen. » Questa è la sua affermazione ricorrente sul mondo che orbita attorno al mio ambiente di lavoro. «Ma smettila! Come fai a non capire che se lo faccio non è certamente per me. I soldi servono, e mi sembra che neanche a te dispiacciano!» Questa era la mia solita risposta. A volte penso che sulle automobili basterebbero solo gli specchietti retrovisori esterni: eviteremmo così di vedere il nostro volto e ammettere che stiamo mentendo spudoratamente. È proprio vero, certe affermazioni gratuite non hanno alcuna credibilità. Il mare era cristallino come lacrime in quegli ultimi giorni di settembre. Quell’azzurro misto al turchese lo rendeva ancor più vivo; a guardarlo infondeva pace, anche se questa visione non avrebbe potuto impedirti di pensare che fino a pochi giorni prima, da quelle parti, la moltitudine di inquinatori estivi, tra villette abusive e improvvisati campeggi, era riuscita a cancellare l’intera fisionomia della costa. Tanti anni prima, alla metà degli anni cinquanta, venivo ancora bambino su quelle spiagge con i miei genitori. Arrivavamo con il cosiddetto treno dei ferrovieri, un convoglio allestito dal “dopolavoro” creato appositamente per i familiari dei dipendenti delle ferrovie dello stato. Il treno ci lasciava al confine tra la campagna di Isola delle Femmine, un paesino alle porte di Palermo, e la spiaggia. Poi continuavamo a piedi verso la cabina di legno, blu e bianca, con il terrazzino davanti, che diventava la nostra casa al mare. Era un posto bellissimo, immerso nel verde di giardini profumati che si allungavano verso il mare, gli stessi che oggi hanno lasciato brutalmente spazio a un ammasso informe di cemento. Che tristezza! Trovare un parcheggio in quell’aeroporto è sempre stato un problema, anche perché i lavori iniziati da più di quindici anni non finivano mai e continuavano a creare parecchi disagi agli utenti. Sceso finalmente dalla mia auto con la ventiquattrore da un lato e il borsone dall’altro, mi avviai già stanco verso l’ingresso dell’aeroporto. Cercai di imprimere bene in mente dove avessi parcheggiato l’auto per ritrovarla in fretta quella sera, al rientro con l’ultimo volo. Dopo l’inevitabile caffè e prima sigaretta della giornata, mi recai in edicola. Come ogni giorno comprai, oltre al Giornale di Sicilia, La Repubblica e il Corriere della Sera, quotidiani indispensabili per chi abbia desiderio o necessità di conoscere più nel dettaglio le notizie locali, nazionali e internazionali. Finalmente l’assonnata e quasi incomprensibile voce degli altoparlanti gracchiò la chiamata del volo AZ… per Milano, e così mi incamminai verso il check-in; accanto alla
  • 3. fila per Milano c’era quella per Roma; a guardarle diventano un divertente proscenio, soprattutto quando lo sguardo si ferma sulla “cricca” dei parlamentari, pendolari tra Palermo e Roma. Come una scolaresca in gita, tutti amici o presunti tali, si raccontano le avventure romane, fanno battute allusive verso gli assenti, si scambiano sorrisi e pacche sulle spalle, imprecano contro l’immane fatica del pendolarismo politico, e guardinghi sussurrano che arrivati a Roma, finalmente, troveranno il tempo di riposarsi. Una suadente voce femminile dall’altoparlante ci invitò all’imbarco. Così iniziò la prima corsa della giornata. In quegli istanti nella mente di tutti i passeggeri scattano degli strani meccanismi cerebrali. L’egoismo più assoluto, la scaramanzia, la scortesia, talvolta la maleducazione mescolati insieme e tesi allo stesso fine: salire per primi sul bus che li porterà sotto l’aereo, e all’apertura delle bussole, con scatto felino, guadagnare per primi la scaletta e andare a occupare sempre lo stesso posto. A questo proposito mi venne da sbellicarmi dalle risate, visto che di lì breve Alitalia avrebbe assegnato il posto contestualmente al rilascio del biglietto. Chissà che questa non sarà la causa di abbandono di qualche vecchio pendolare della politica? Questo scatto da centometrista mi richiamò alla mente quando nell’ormai famoso, logoro Sessantotto, circa venti anni prima, frequentavo l’ultimo anno dell’istituto tecnico. Illudersi dal grande sviluppo industriale del paese, per me e per molti altri, si rivelò a posteriori una scelta sbagliata. Non ero adatto a quel tipo di studi, e dopo il diploma corressi il tiro con l’iscrizione all’università in una facoltà umanistica. In quei concitati anni che cambiarono il destino di molti di noi, tante volte avevamo dovuto far sfoggio delle nostre doti di “centometristi” di fronte alle ripetute cariche della polizia, che tentava l’ennesimo sgombero del nostro istituto occupato.